sabato 30 aprile 2022

Lilith, la prima Femmina


Being Lilith 



LILITH 
di Filippo Goti

Come potrebbe non affascinare, non inebriare la fantasia e i sensi, una principessa la cui bellezza morbosa ammalia uomini e donne indifferentemente, succubi del suo ingordo potere sessuale ? Una figura alta, slanciata, di una femminilità perversa e morbosa. Capelli corvini, che incastonano un volto ovale, color di madreperla. 

Occhi di un colore nero ardente, che si trasformano in un rosso rubino durante la possessione. 



Labbra sottili, esangui, e una voce, un ipnotico sussurro, che opprime la mente e il cuore, sgorgando all'improvviso nella carne dell'uditore. Le dita della mano affusolate, con acuminate e lunghe unghie con cui durante l'amplesso strazia le carni del compagno, unendo così al parossismo dell'orgasmo, la frenesia del sangue. 

Un seno eretto che si nasconde fra la folta capigliatura che scende lungo i fianchi, e da cui zampilla sangue. Maestose ali neri, pronte a farla librare in volo, mentre conduce le legioni demoniache, a turbare le notti di uomini, donne, bambini e animali.

Una femmina, la prima femmina, il cui nome è Lilith.

Potrebbe stupirsi l'addolcito lettore di cose esoteriche, nello scoprire quante congreghe sono votate al culto di Lilith, e quanta operatività di coppia e di gruppo trova perno su questo mito; già la sua presenza nella Cabbala, come in ogni grimorio, o testo di magia cerimoniale, dovrebbe essere un valido indizio, delle forze che stuoli di operatori, a torto o a ragione, ad essa associano.

Compito di questo lavoro, in virtù del taglio divulgativo, è quello di analizzare il mito di Lilith, lasciando ad altro veicolo e momento l'aspetto pratico.


Lilith e Cabbala

Ogni sistema filosofico, ogni docetica esoterica, ogni affresco spirituale umano, invariabilmente trova radice e sviluppo, attorno al perchè del Male, e al sommo di tutti i mali, rappresentato dalla morte. Lo Zohar(1) non fa eccezione a tale ovvia constatazione, affrontando il Male attraverso un approccio tendenzialmente impersonale, rifuggendo ad una identificazione di tale cataclisma, indicandolo generalmente con il termine Sitra Ahra. 

Nello Zohar l'incapacità umana di seguire la legge divina, è a sua volta riflesso del Male Cosmico ( i mondi distrutti da Dio perchè imperfetti, o gli scarti del pensiero divino: a ben vedere, sono concetti identici nella sostanziale realtà ). Vi sono però due eccezioni a tale trattazione spersonalizzate del Male, inteso come forza cosmica senza forma.

La prima è rappresentata dalla meticolosa descrizione dei "palazzi delle impurità", la seconda dalla coppia Samael ( il satana cabbalistico, colui che ha portato il veleno nel mondo ) e Lilith ( la sua compagna ), i sovrani del regno delle impurità(2). Lilith è anche raffigurata come un serpente che attraversa lo Sitra Ahra, mentre Samael, cavalcandola, si unisce a lei: da tale unione nasce la moltitudine demoniaca. 






















Arrivando a conclusione di questi brevi cenni di Lilith nella Cabbala, riporto come in Ammud ha-Semali, Samael e Lilith regnano rispettivamente sull'ottava e decima Sefirah (3) dell'emanazione malefica (la parte sinistra, o l'albero della morte che si sviluppa nell'abisso sotto Malkuth) mentre in "La Kabbale Pratique" di R. Ambelain, Lilith è posta al governo della nona quilipoth (10).

Sempre nello Zohar è da segnalare la specularità fra la Shekinah(4) e Lilith. Mentre la prima è la sposa benedetta da cui trae origine il popolo degli eletti ( la casa di Israele ), la seconda è la grande meretrice, la prostituta, da cui prende vita la gente impura, la moltitudine mista ( i non ebrei ). Ciò ampiamente dimostra una vena ossessiva che attraversa tutto lo Zohar, ma questo esula dal nostro attuale lavoro.

Invocazione per il rituale contro Lilith, da eseguirsi prima della copula matrimoniale. (Zohar III,19a) 

Lilith nella Bibbia Cattolica

All'interno della Bibbia cattolica non troviamo esplicito riferimento a Lilith. Tale rimozione è forse da imputare alla necessità di rendere l'Antico Testamento quanto più coniugabile, nei limiti del possibile, con il Nuovo Testamento, e in tale ottica un mito come quello della prima donna ribelle, risultava essere decisamente ingombrante, in quanto accresceva la disomogeneità delle due raccolte sacre. 

Possiamo però dedurre che qualcosa è stato sottratto nell'affresco della Genesi, e che ciò sia rappresentato da Lilith. 

 

Genesi 1:26 E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».


Genesi 1:27 Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.

Genesi 2:21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.

Genesi 2:22 Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo.

Genesi 2:23 Allora l'uomo disse: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta».
Nell'ora in cui l'uomo si unisce con sua moglie deve volgere il pensiero alla santità del suo Signore, e dire:
«Coperta di morbido velluto – sei tu qui? Via, via! Non entrare e non uscire! Nulla di tuo e nulla della tua parte! Voltati, voltati, il mare infuria, le sue onde ti chiamano. Ma io afferro la parte santa, Con la santità del Re il sono ricoperto.»
Poi deve avvolgere per un certo tempo la sua testa e quella di sua moglie in un panno, e successivamente spruzzare limpida acqua attorno al letto.

Nei primi loghion riportati si narra come Dio al sesto giorno creò ( dal niente: novità) il Maschio e la Femmina; il termine Adamo (gente delle quattro direzioni) appare successivamente. Ora possiamo discutere molto attorno a questa pluralità di genere, chi la riferisce agli Elohim ( potenti angeli della corte celeste ) che coadiuvano Dio nella sua opera, oppure alla doppia natura ( maschile e femminile ) dello stesso Creatore. 

Per onestà intellettuale dobbiamo constatare che questo creare è riferito all'uomo quale immagine di Dio, maschio e femmina ( Dio Padre e Dio Madre ). Nel racconto biblico siamo innanzi ad una doppia creazione, contemporanea ma disgiunta, dove i due enti sono relati fra loro solamente dalla fonte generativa. 



Adamo e Lilith con le fattezze di un serpente, affresco di Filippino Lippi (1502) 
Cappella di Filippo Strozzi, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze


Il sospetto che qualcosa non abbia proceduto nel modo previsto, secondo l'estensore di questo passo dell'Antico Testamento, è dato dalla necessità di Dio di tornare sulla propria Opera creativa, traendo una costola da Adamo e plasmandola dando vita a Eva.

L'espressione "Adamo" è quindi doppiamente illuminante, in quanto rivela la preesistenza di una precedente compagna, non menzionata, e come colei che è stata appena creata (Eva) sia una sua consanguinea.


Il Mito

Gli albori del mito di Lilith sono da ricercarsi nella cultura Babilonese, e ancora precedentemente in quella Assira., dove troviamo la presenza di due demoni: Lilu (maschio) e Lilith (femmina). Più che singoli spiriti della notte, possiamo però parlare di categorie di spiriti (Ardat-Lilith, Lamashtu, ecc.. ), demoni alati che nella notte scendono a tormentare, a strangolare, uomini, partorienti, e neonati. 

Numerose le formule di di scongiuro in assiro, a dimostrare il potere che veniva attribuito a questi "Incubi" della notte.

" A colei che vola nelle stanze della tenebra... passa presto, presto, Lilith " 

Nella mitologia ebraica, abbiamo un duplice mito di Lilith l'uno legato al rapporto con Adamo nell'Eden ( il più complesso ), e l'altro al rapporto con Adamo fuori dall'Eden. Quest'ultimo mito, di tradizione midrashica(5), narra come Adamo separatosi da Eva, dopo la cacciata dall'Eden e la perdita dell'immortalità, si sia unito a numerosi spiriti(6), generando con loro. Fra essi anche Lilith, o una Lilith, dal cui rapporto nacque una nuova generazione che popolò la terra.

La leggenda più conosciuta, di radice ebraica, su Lilith la vede come prima moglie di Adamo. Creata da Dio assieme ad Adamo, ne differisce per composizione: 
sabbia finissima Adamo ( terra sottoposta all'azione del fuoco ), 
melma ( terra sottoposta all'azione dell'acqua) Lilith. 
E' narrato che i due si abbandonarono a fervente passione, ma questo idillio sensuale e sessuale ebbe termine quando Lilith si rifiutò di continuare ad unirsi stando "sotto" ad Adamo. 

La pretesa di Lilith di assumere una posizione sessuale dominante, scatenò l'ira del compagno a cui si sottrasse, pronunciando il sacro e segreto nome di Dio, librandosi in aria e fuggendo dall'Eden.

Adamo per questa fuga protesta con Dio, reclamando il ritorno della compagna, allora Dio ordinò a tre angeli ( Sanvi, Sansanvi e Semagelaf ) di trovare, e ricondurre ad Adamo Lilith. Questa si era rifugiata in un luogo inospitale, presso il Mar Rosso, dove unendosi con dei demoni generava una moltitudine di figli (Limm). 

Gli angeli, raggiunta la fuggiasca, le intimano di ritornare nell'Eden, ma lei si oppone all'ordine divino (che con tutta evidenza non aveva potere alcuno oltre l'Eden stesso), mostrando la condizione in cui si trovava. 

Poteva adesso tornare da Adamo, ora che si era congiunta con altri e aveva generato ? Lilith inoltre rivela che lo stesso Dio le ha conferito potere sui neonati, gli uomini, e le giovinette; ma qualora sia pronunciato il nome degli emissari divini, i tre angeli, lei recederà. 

La punizione che le viene impartita per il suo rifiuto, è quella che ogni giorno 100 dei suoi Limm moriranno, lo stesso numero dei generati, condannandola a vedere morire i figli, ad essere eterna Madre senza prole.

In un testo ebraico, è riportato come Lilith resa furente e gelosa a causa della nuova compagna di Adamo, si trasformò in serpente ed offrì alla coppia il frutto proibito, condannando l'uomo e la donna alla perdita della loro condizione di favoriti da Dio, e soggetti al ciclo naturale di vita e morte.

Lilith trova alcune corrispondenze, gioco che non ci affascina oltre una certa misura, con la Lamia dei greci e dei romani, a Brunilde (7) della tradizione nordica, alla Kalì (8) vedica, ed infine alla stessa Hecate (9). Solo alcune corrispondenze, che devono offrire riflessioni successive, visto che ogni elemento mitologico ha valore in se e in riferimento alla Cosmogonia in cui è debitamente inserito.


Conclusioni

E' fin troppo facile, e quindi erroneo, sostenere che Lilith afferisca ad una realtà matriarcale precedente al patriarcato monoteista, oppure che essa sia un mito riconducibile e riducibile alla Tradizione della Dea Madre (11). 

L'ovvia constatazione di come le vittime di Lilith fossero proprio i neonati ( il frutto più sacro della femminilità manifesta ), e l'incapacità della stessa di trovare piena armonia con l'ordine della fertilità naturale, di cui la tradizione della Grande Madre è simbolo ed espressione, la collocano eventualmente in un anti-mito, oppure in una espressione parziale di una particolare componente "femminile". 

Inoltre la valenza magica e simbolica esclusivamente distruttiva, ed energivora, la rendono inadeguata ad offrire un rapporto "integrale" con ogni aspetto del femminile, in quanto contrastante con l'espressione della maternità.

Superficiale è ancora l'affezione, che diviene afflizione, a questo mito esaltandone solamente l'aspetto ribelle all'ordine costituito, in quanto se esso è indubbiamente presente, è altresì vero che essa non è poi in grado di proteggere il frutto del proprio grembo (Limm): la più grave delle colpe di una madre, autocondannandosi ad un'eterna esistenza di rancore e di vendetta.

Lilith non è il simbolo dei viventi, ma delle ombre, e l'enorme confusione che oggi viviamo attorno a questo mito è in parte dovuta alla sua riscoperta a fine dell'ottocento, e successivamente negli anni 60-70, dall'intelligenza del femminismo in gran parte donne di cultura ebraica, alla ricerca di un forte contrasto culturale con la controparte rabbinica che incarnava l'immaginario del patriarcato.


Enorme sciocchezza, poi, sostenere che le tradizioni monoteistiche non sono riuscite a debellare il mito di Lilith, in quanto se esso è sopravvissuto nei secoli è proprio grazie al Talmud e ai Midrash; se tale operazione di occultamento veramente voleva essere perpetrata sarebbe stato più congeniale il semplice ostracismo.

Inoltre il mito di Lilith ha numerosi elementi di virilità: basti ricordare la tradizione che la vuole serpente tentatore nell'Eden, o alcune leggende ove essa può possedere (Incubus) uomini e donne, tramite la possente coda. Questi particolari suggeriscono una non totale collocazione al nel femminile di questo mito.

Quanto sopra è valido se perseveriamo nell'errore di decontestualizzare il simbolo Lilith, e in genere ogni simbolo, dalla integra sede che gli è propria: l'insieme fisico-psichico-spirituale dell'uomo.

Il mito ebraico ci narra come Adamo sia frutto di sabbia fine, mentre Lilith di melma. Adamo è frutto dell'azione dell'elemento fuoco sull'elemento terra, Lilith della combinazione fra l'elemento terra e l'elemento acqua. Ci è suggerito che Adamo e Lilith sono due espressioni coeve, dove l'una non può sovrastare l'altra, e la loro unione è magnetica ed immediata. 

Il dramma per le due parti, risiede nel momento della separazione che relega entrambe ad una condizione inferiore alla preesistente, ed in generale alla lenta disgregazione del composito mosaico chiamato uomo.

Sicuramente Adamo è ascrivibile ad un'insufflazione dell'elemento fuoco nell'elemento terra, che renda questa secca, per non procedere nell'arcano è bene quindi dire che ci riferiamo all'aspetto cosciente, logico-dialettico; come altrettanto sicuramente Lilith è ascrivibile a quella radice atavica, ed insopprimibile, della sessualità, fra le due porzioni è inserita una terzo elemento di frizione. 

Questo elemento è frutto di Adamo dormiente ( che sogna e desidera ), quindi successivo ai precedenti, prende il nome di Eva e rappresenta l'emozionalità. Che da un lato permette alla sfera logica-dialettica di trovare sfogo e limite, alla sua estenuante ricerca di sistematizzazione ed ordine, e alla parte atavica sessuale di affiorare.

Quanto sopra esposto afferisce ad un sottile equilibrio, che millenni di civilizzazione, e socializzazione dell'uomo, hanno portato a relegare l'elemento lilithiano nei meandri più profondi dell'animo umano, rendendolo simile all'energia di un vulcano che anela a irrompere verso la superficie, trovando varco nella sfera mobile ( l'emotività ).

Che Lilith rappresenti un atavismo sessuale, in se generale e diffuso ( quindi forza elementale non mediata e non mediabile ) è indicato sempre dal mito, che narra come Lilith provochi le polluzioni notturne negli uomini che possiede. La forza sessuale che comunque deve trovare sfogo, dirompente, violento e distruttivo, come ci ricorda anche la simbologia legata al Dio Kama (12) vedico, o alla doppia veste di Lucifero-Satana.

Il binomio sesso e morte accompagna profondamente il mito di Lilith, e i rituali stregoneschi, che su essa trovano fulcro, trovano espressione in una sessualità lupesca, frenetica e sanguinaria. La doppia e violenta fuoriuscita dei due elementi basi del vitale ( vita in essere, e vita in potenza ), che vanno ad aprire le porte di una memoria genetica, in sè e per sè terribile, in quanto semplice ed elementale verità: la bestialità allo stato puro.)

La scissione che l'uomo vive, fra la parte cosciente ( la superficie del mondo ), e la parte atavica ( il cuore pulsante del mondo ), rende i molti che prediligono la prima massima espressione di un controllo privo di potenza, e i rari che incarnano la seconda potenza senza controllo. Tale separazione non giova: creatori senza forza i primi, forti senza capacità di creare i secondi ( I Limm muoiono appena scorgono la luce).

La via che potrà permettere un novello equilibrio fra queste due sfere coeve, che sono il senso della perduta regalità umana, non è quella di una fuga in avanti, attraverso astruse elucubrazionii. Quando un coraggioso precipizio nel baratro primordiale, sperando di mantenere viva una sottile luce, che permetta di fecondare il ventre di Lilith, portando alla luce l'uomo nuovo: reintegrato in ogni componente: Adamo-Lilith-Eva.

Non è fonte di fascino ed interesse che Lilith, l'impura, la dannata, la prostituta demoniaca, conosca l'esatta pronuncia del nome dell'Ineffabile, che nella tradizione magica- religiosa ebraica, poteva essere pronunciato solamente una volta all'anno, nel Tempio di Salomone, dal capo dei Sacerdoti ? Con la differenza che mentre, secondo i testi sacri, Lilith effettivamente deteneva questo "potere", e lo manifestò, niente è dato di sapere su quello del sommo sacerdote. Non è forse un velato suggerimento a ricercare la Conoscenza, che tutto trasforma, dove si presume che vi sia la tenebra?

Ad un guardare oltre l'apparenza della manifestazione, e attraversando il deserto impervio che al limitare della sfera conscia, imprigionata nel singolo transito temporale, recarsi alle radici eterne della nostra esistenza: Quando sia il fuoco che l'acqua furono infusi nella terra.

NOTE:

(1) Zohar. Testo fondamentale della Cabbala, lo Zohar, è stato scritto all'inizio del XIV secolo, in Spagna, dal mistico Mosé de Léon. La parola significa libro dello splendore, anche se si sviluppa in una serie di oscuri precetti e commenti, che l'autore imputò ad una tradizione precedente.

(2) E' impuro ciò che non è sacro, o consacrato. Ciò alterato dalla mescolanza con altri elementi.

(3) Sefirah. Nel sistema cabbalistico rappresentano degli aspetti qualitativi del divino, e la loro interazione delimita la forma e il campo del dispiegamento della manfiestazione (creazione)

(4) Shekinah. L'immanenza divina.

(5) Midrash. Metodo di interpretare la sacra scrittura, che va oltre il senso letterale delle parole. Questi vari commenti sono raccolti in antologie.

(6) Spiriti. Nella tradizione cabbalistica il sesto giorno Dio creò anche gli spiriti senza corpo (elementali).

(7) Brunilde. Mitica regina di Islanda, impose una serie di prove cruente ai suoi pretendenti, culminanti con un duello mortale.

(8) Kalì. Raffiugura l'aspetto guerriero di Parvati la consorte di Shiva. E' conosciuta come la grande Dea.

(9) Hecate. Dea della mitologia greca, unica fra le immortali a non essere stata partorita da Zeus, ma figlia di un Re dei giganti. E' in grado di viaggiare nel mondo degli dei, degli uomini e dei morti.

(10) Le Quilipoth sono le riflessioni negative delle sephirat, il loro volto nascosto, o la loro manifestazione degradata o degrandate, ma al contempo ne rappresentano anche un curore pulsante, che deve essere riassorbito dall'interno

(11) Dea Madre. Complesso di miti arcaici, che si vuole riconducibili ad un'estesa cultura matriarcale, poi sdradicata dal patriarcato.

(12) Dio Kama. Nella mitologia vedica è un Deva bifronte della sessualità, nel suo aspetto di piacere e forza atavica.








venerdì 22 aprile 2022

Lettura gnostica del Peccato Originale


La cacciata dell'Eden


Il Peccato Originale

Filippo Goti

"Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: "E' vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?". 

Rispose la donna al serpente: "Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete". 

Ma il serpente disse alla donna: "Non morirete affatto! Anzi ... diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male". Allora la donna ... prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito..."(Genesi 3,1-6)...

Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden...Scacciò l'uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita. (Genesi 3,23-24)

 

1. Introduzione

Questi sono alcuni passi del Libro della Genesi, a perenne memoria della causa della caduta dell'uomo, e della sua, conseguente, perdita dello stato divino. 

Tale rapporto di causa ed effetto, è mirabilmente consegnato alla memoria di noi tutti attraverso gli affreschi della volta della Cappella Sistina, ad opera di Michelangelo, il quale rappresenta congiuntamente il Peccato originale e la cacciata di Adamo ed Eva dall'Eden, simbolo di divinità preternaturale. 


Mentre nel racconto della Genesi, questi episodi sono divisi, Michelangelo ci offre immediato simbolo visivo del perchè dell'attuale umana condizione. Due momenti, in cui l'albero del bene e del male è impassibile testimone, e il serpente agente dinamico. 

Un'Eva che raccoglie l'invito del serpente, la più astuta delle creature, a cibarsi e a far cibare il suo compagno, con il frutto dell'albero proibito, e i nostri progenitori, in fuga dall'Eden ricurvi e timorosi della minaccia rappresentata dalla spada dell'Arcangelo.



La riflessione che porta al dogma del peccato originale, nasce dalla constatazione del male che ha dimora nel mondo, e che nella sua massima e conclusiva manifestazione assume le sembianze della morte. "Si deus est, unde malum?" (se c'è un Dio, da dove viene il male?), con queste parole Sant'Agostino si interrogava in merito al male.

2. Dottrina Cattolica del Peccato Originale.

La Dottrina della Chiesa Cattolica afferma che nell'uomo vi è la presenza di un peccato originale innato, e che esso è indipendente dalla volontà dell'uomo. Ciò significa che il peccato originale è una qualità di ogni uomo, e rappresenta una frattura, in se insanabile, fra lo stesso uomo e la comunione con Dio. Solo attraverso il battessimo, in virtù di un intervento divino, il Cristo, tale divisione viene sanata, ma non per moto esclusivo dell'uomo.

Il documento teologico della Chiesa Cattolica che riveste maggiore importanza attorno alla separazione fra uomo e Dio, è il "Decreto sul peccato originale", emanato dal Concilio di Trento (1546). Tale atto stabilisce che Adamo ed Eva, a causa della disubbidienza verso la volontà divina, hanno perduto la loro condizione originaria di divinità, e sono stati per questo espulsi dall'Eden, e condannati ad una vita che avrà come conclusione la morte. 

Il peccato originale è innato, e lo è in tutti gli uomini, anche se nati da genitori cristiani, solamente attraverso il battesimo, la frattura viene sanata e il peccato orginale rimesso. Ovviamente il Concilio di Trento si premunisce di classificare come mistero della fede, o eccezione, l'immacolatezza a tale marchio da parte della Vergine Maria.

Perchè esiste il male ? Può Dio essere la causa stessa del male ? la dottrina della Chiesa Cattolica risponde negativametne a questa domanda, attribuendo all'uomo adamo, il primo uomo, e alla sua disubbidienza verso Dio, la cagione del male. 

Male che risulta essere quindi, nelle sue varie manifestazioni, frutto del peccato originale, che come un seme è stato dall'uomo piantato nel grembo del mondo. Ancora il peccato originale è stato la causa dell'allontanamento dell'uomo dalla famiglia divina, e come effetto ha comportato la perdita dei doni preternaturali.

Sant'agostino ha sostenuto che l'uomo nasce irrimediabilmente corrotto, e che solamente grazie al sacrifico di Gesù l'uomo si redime attraverso l'immersione nell'acqua battesimale, con tale asserzione sant'agostino ha introddo la questione della presestinazione, cioè il disegno divino, imprescutabile, che permette ad alcuni uomini di rientrare nella figliolanza divina, e ne esclude altri.

3. Il Peccato Originale e il Calvinismo

Se la visione del teologo Sant'Agostino può sembrare marchiata da un profondo pessimismo di natura ontologica, Calvino riesce nell'improba impresa di condannare ancora a più densa disperazione l'uomo. 

L'uomo, a causa del peccato originale, è inconfutabilmente uno strumento del male, ed è incapace di fare il bene, solamente per mezzo del dono della Grazia divina, tale innato stato di cose può essere cambiato. 

Quindi ne consegue l'assoluta necessità dell'uomo di abbandonarsi completamente alla fede in un Dio sovrano di tutta l'agire della vita umana.

La base monolitica della fede del cristiano è assicurata dalla predestinazione, in virtù della quale si raggiunge la certezza della salvezza poichè la Grazia, è assicurata dall'elezione, si è scelti già prima di nascere, la quale non può essere inficiata da nessun elemento. 

Segni della grazia sono una vita, dell'eletto, giusta e fortunata, e la volontà di partecipazione alla cena, unico sacramento che Calvino indica oltre al battesimo. La chiesa struttura, sotto la guida di un corpo di ministri è vista come una necessità finalizzata alla preservazione dell'insegnamento della scrittura.

4. Il Peccato Originale nello Gnosticismo

E' utile premessa dichiarare che il mito del peccato originale, nella visione gnostica non assume l'importanza riconosciuta all'interno della speculazione cattolica. 

Una rilevanza tale, quella cattolica, da giustificare con esso la venuta di Gesù Cristo, il Salvatore. 

Anzi è utile osservare come la dottrina del peccato originale, così come sopra espressa, di fatto riconduce il cristianesimo cattolico nell'alveo del giudaismo. Esssendo, tale dottrina, il vero fulcro che necessariamente giustifica il cristianesimo come continuazione e superamento del giudaismo, e il giudaismo come radice del cristianesimo: Il Cristo è giunto fra noi per ricondurci nella figliolanza divina.

Le scuole di pensiero gnostico, non avendo nessun pedaggio culturale, politico, e religioso da pagare verso il giudaismo, hanno più arditamente spostato l'attenzione sulla caduta adamitica nel suo complesso, e non centralizzando, in tale drammatico affresco, il peccato in quanto tale: riconducendolo, ad una sfera di concausa, o di effetto traslato di altro dramma precosmico.

Alla domanda del perchè del peccato in questo mondo. Gli gnostici, radicalizzando il problema, sostengono che tutto il mondo è malvagio, ed essendo il creato frutto di un potere creativo, anche esso deve essere comunque corrotto, e lo può essere solamente perchè l'agente che plasma il cosmo è ignorante. 

Ecco quindi il mito del Demiurgo, di un dio minore, cieco, malato e folle, che da vita alle cose tutte, e all'uomo stesso. Un Demiurgo che assume il nome di Jaldabaoth, dai lineamenti stravolti, frutto del mal riposto amore verso il Padre da parte dell'eone Sophia ( riconducendo così il problema all'interno del Pleroma ).

Adamo, come la creazione, è il figlio del ricordo di Jaldabaoth, di un mondo superiore in cui dimorava, quando ancora era "in parte Sophia". E' infatti bene sottolineare il carattere pneumatico degli attori superiori di questo dramma, e come Jaldabaoth, rappresenti una promanazione pneumatica di Sophia, come la stessa lo è del Padre del Silenzio e dell'Abisso. 

Promanazioni, che nel susseguirsi, che nel manifestarsi le une dalle altre, invariabilmente si corrompono, perdendo l'attinenza con l'Origine non manifesta.

Ma come ricondurre tale visione al mito dell'Eden ? L'Eden è la riproposizione parziale, del Pleroma, dove l'uomo è il corrispettivo dell'eone superiore, come il Demiurgo lo è del Padre del Silenzio e dell'Abisso. 

Il tutto assume quindi le sembianze di una recita teatrale, dove i personaggi sono parodie ed epigoni, di esseri dotati di una integratà pneumatica superiore. Fino a giungere alla liberazione da parte del serpente, che infrange il sogno crepuscolare, in cui l'uomo è illuso dagli Arconti ( le potenze dominatrici di questo piano della manifestazione ). 

Un completo rovesciamento dei ruoli, attraverso l'individuazione nel Dio dell'Antico Testamento, di Satana stesso, e nel serpente il principio di riflessione. Menzione merita anche il ruolo giocato dalla figura del Cristo nella visione gnostica. 

Che rappresenta un'entità perfettamente pneumatica non confondibile con Gesù di cui è l'essere intimo  (o meglio la cristificazione di Gesù ). Risulta quindi estraneo al marchio dal peccato originale, ponendolo automaticamente nella figliolanza divina, e non frutto del corrotto e malato mondo umano, e soggetto al potere della natura, dell'ignornaza, della materia: del Signore di questo mondo. 

Possiamo vedere in tale rappresentazione del Cristo l'incarnazione, nel mondo degli uomini, dell'Idea Pura platonica, che è il modello, il ponte teso fra questo mondo, Eden compreso, dove l'uomo è prigioniero, e il mondo divino.

5. Conclusioni

Abbiamo visto come nella teologia della Chiesa Cattolica il peccato originale, esprime l’innato stato di tutti gli esseri umani dalla Caduta in poi, ed è quindi qualità intrinseca dell'essere uomo. 

Tale rottura fra il Dio Creatore e gli uomini, è stata, potenzialmente sanata, attraverso il sacrificio di Gesù Cristo, in virtù della sua morte in Croce. 

Gesù nato da donna, è, nel simbolismo cattolico, rinnovato viatico che conduce i figli degli uomini al Padre Celeste.

Non mi dilungherò nella discussione su come il dogma del peccato originale, così forumulato dalla Chiesa Cattolica, di fatto crea l'esclusività dell'essere cristiano "battezzato" ( iniziazione fisica ) per l'ammessione alla reintegrazione nel Paradiso. 

E neppure sul valore "magico" di fatto riconosciuto all'acqua battesimale; che in virtù delle consacrazione subisce la transunstazione, come l'ostia e il vino, capace di mutare qualitativamente, il battezzato a posteriori. Ma non è questa la sede per tali interessanti approfondimenti, mentre vorrei concentrarmi sul racconto biblico.

Da esso emerge chiaramente che il peccato originale fu una disubbidienza di Adamo e di Eva, ad un precetto divino, ma che l'istigatore era già presente nell'Eden: questo è il serpente, la più astuta delle creature, e quindi anche dell'uomo stesso, che già dimorava in quel creato di perfezione. 

Quindi alla domanda di Sant'Agostino "Si deus est, unde malum?", non possiamo rispondere come Milton che il bene e il male sono stati portati dall'uomo nella creazione. In quanto essi, in seme, erano già espressi all'interno dell'Eden, l'Eden stesso è una creazione di una potenza superiore, alla stessa stregua di Adamo, Eva, e il serpente.

Quindi la cagione prima del Peccato Originale, è la causa prima di ogni cosa: Dio stesso. Poco importa l'atto finale dell'uomo, poco importa l'istigazione del serpente ( che è agente funzionale ad una rappresentazione già scritta in precedenza ), poco importa anche la presenza o meno di un Demiurgo. 

Il dramma stesso ha collocazione precedente all'Eden, in quanto è necessario discirminare fra causa ed effetto. Come il peccato originale è causa di caduta, esso è effetto della disubbidienza dell'uomo ad un preciso volere, che a sua volta è effetto di due concause l'istigazione del serpente, e la curiosità di Adamo ed Eva ( o forse sarebbe meglio dire la loro insoddisfazione ? ). 

Se tutto ciò è vero allora la causa prima va ricercata altrove, e senza mascherarci dietro il libero arbitrio dell'uomo, che in quanto tale è stato dimostrato solamente nell'atto di mangiare il frutto proibito, e che anzi così sostenendo è si caratterizzo come la scelta di disubbidire alle regole divine.

Per assurdo possiamo sostenere che per un uomo che si interroga sul divino, il peccato è la causa necessaria del massimo bene: la Conoscenza. In quanto è attraverso il peccare, e la riflessione che ad esso necessariamente deve seguire, che possiamo riconoscere Dio. 

Il peccato rompe una struttura statica, cristallizzata, determinando un caos che prevalentemente porta i molti a perdersi in una spirale discendente, ma anche alcuni, in grado di riflettere, di comprendere, di analizzare, a risalire verso una condizione spiritualmente più elevata della precedente. 

Se il peccare è il contravvenire alle regole cosmiche o divine, ogni gnostico è un Grande Peccatore. 

Pecchiamo quindi contro natura, disubbidento agli agiti psicologici e biologici che ci determinano. Un peccare il nostro che quindi deve essere non sul non fare, o sul fare, ma su come e il perchè fare o non fare.

Ne discende quindi che ll vero peccare è la volontà umana di testimoniare l'uomo stesso, in coformità alle regole/agiti della manifestazione che a sua volta è effetto di un ordine superiore, già in se corrotto, da cui immancabilmente ci allontaniamo per ogni atto, che non sia preceduto da consapevolezza intima.

 L'uomo percepisce la capacità creativa del divino, e la traduce nel fare. 

Ma il corrispondere del fare umano, al pensare umano, e all'essere manifesto divino è inficiato dall'immagine erronea che l'uomo stesso ha in realzione a tutti gli altri termini dell'insieme in oggetto, a cuasa della mancanza di una qualità omnicomprensiva della cognizione umana.

Da cui discende l'errare, il peccare, la difformità volontaria o meno al fulcro Fondante della manifestazione: cacciando Adamo ed Eva dal paradiso terrestre Dio disse ad Eva "E tu genererai tra i tormenti". 

E solo superati i tormenti, l'uomo potrà così tendere al divino perduto, ma per ottenere ciò è necessario peccare contro l'Ideale Fondante dell'attuale manifestazione, frutto commisto di un incerto ordine divino e dell'umano agire, discendendo fino nel cuore nero di quel luogo chiamato Inferno, comprendendo così quanto caduco e illusorio è questo nostro mondo, oppure perdendosi per sempre.

"7)...la materia sarà distrutta, oppure no? Il Salvatore disse: “ Tutte le nature, tutte le formazioni, tutte le creazioni sussistono l’una nell’altra e l’una con l’altra, e saranno nuovamente dissolte nelle proprie radici. Poiché la natura della materia si dissolve soltanto nelle (radici) della sua natura. Chi ha orecchie da intendere, intenda ”.      (vangelo di Maria )







Bibliografia

Il Peccato Originale ( Antropologia Cristiana )
Decreto sul peccato originale (Concilio di Trento 1546)
Genesi
Iside Svelata ( edizioni Astrolabio )
La Gnosi e il Mondo ( edizioni Tea )
Gli Gnostici (edizioni Paoline )
Lo Gnosticismo ( edizioni Sei )
Il Vangelo di Maria



venerdì 15 aprile 2022

L’Uomo Occulto


L'Uomo Occulto 



L’Uomo Occulto

di HahaHia (Mario Parascandolo)

Il poco di idee generali è sparso nei ventidue articoli del Fascicolo B, ciascuno dei quali, per la profonda dottrina che racchiude, può ben dirsi una gemma preziosa della corona iniziatica, staccata con mano prodiga e donata da J. M. Kremmerz ai discepoli della Schola.

Essi convergono tutti verso lo studio dell’uomo occulto, fissando, in una rapida analisi, alcune verità fondamentali, che appaiono insoddisfacenti e brevi, perché — lungi dal posare a Maestro docente — il Kremmerz intendeva affidarne lo sviluppo e l’integrazione alla pratica stessa dei suoi discepoli, disvelatrice del vero, e non alla sua autorità di iniziatore.

Lo schema della struttura generale dell’uomo, interessantissimo, tradizionale e magico, è riprodotto nell’articolo tre del fascicolo in parola, mentre un cenno sulla sua funzionalità, o fisiologia occulta, e sullo sviluppo possibile dell’uomo sul piano iniziatico è riportato nel successivo articolo quattro.

Trattasi dei quattro corpi commisti nell’uomo comune, i quali — è bene notarlo — sono quattro corpi vivi e perciò quattro modalità di esistenza dell’uomo stesso, confuse in un individuo solo, la cui unità, o riflesso, o IO, ne risente ed esprime variamente l’influenza, secondo che più distintamente è dominata dall’uno o dall’altro.

Di qui il variare continuo degli umori umani, degli orientamenti di coscienza, dei determinismi occasionali, degli stati emotivi, dei decorsi affettivi, dei dinamismi personali, dei sentimenti, delle passioni, delle idee e dello stato di salute fisico e psichico.

Il tutto intrecciato in un dramma incessante che coinvolge personaggi importanti, come il pensiero, l’intelletto e la volontà, i quali si giocano disinvoltamente il destino presente e futuro dell’individuo, incapace, in genere, di dirigere la rappresentazione a proprio profitto.

Il Maestro J. M. Kremmerz attribuisce una genesi saturniana ai corpi lunare e mercuriale, perché li considera entrambi come un’emanazione sempre più attenuata del corpo fisico, il quale, per la sua natura, cioè per gli elementi che lo costituiscono, presi a prestito dal pianeta che lo ospita, partecipa della vita di questo e ne risente fortemente l’influenza.
Uomo = humus = terra. 

Ciò significa che comunemente sensazioni e pensiero provengono da impressioni prevalentemente telluriche, cioè del corpo fisico, che le attinge alla sfera limitata del mondo circostante.

Ma non vi è nella Grande Sintesi Unitaria dell’Uno Universo alcuna cosa esistente che non partecipi della vita universale e, pertanto, in consonanza con essa, si rivela nell’uomo un principio recondito, sopraffatto dalla sua natura specifica, che è il suo IO solare, estremo opposto dell’IO a tinta strettamente saturniana, che parla in lui con la possanza di un Nume e lo irradia di una Luce, o stato vibratorio incendivo della mente, proporzionale alla detersione dei corpi lunare e mercuriale, che ne sono i comuni veicoli recipiendari.

I due estremi, dunque, solare e saturniano, sono in opposizione ed in conflitto fra di loro e l’uno tendente alla distruzione dell’altro, perché rispettivamente costituiscono l’universale e l’individuale, ciascuno inesorabile assertore del proprio fine.

Ecco perché, vivendo in istato di esuberanza animica, si attenta alla propria salute fisica, come affogando nella carne i diritti dell’anima, si preclude la vita allo spirito divinizzante. Ma se il corpo fisico è il generatore degli altri due, cioè ne costituisce la matrice feconda, o l’utero nutricatore, quale la causa fecondante?
Come dì un tizzo verde ch’arso sia dall’un dei capi e che dall’altro geme
e cigola per vento che va via, così da quella scheggia uscirò insieme parole e sangue….
(DANTE: Inf. – Canto XIII)
Come ogni cosa si dischiude, matura e riproduce sotto il bacio del sole vivificatore, per cui le innumeri vite prorompono feconde dal seno della terra, così sotto l’influenza del principio solare (ignis naturae) l’uomo saturniano arde in olocausto a se stesso e sprigiona un’essenza partecipe degli estremi in causa (Sole – Saturno).

Cotesta essenza (corpi mercuriale e lunare) è passibile di conseguire vita individua eterna, assumendo forma geniale o eonica. «Il genio o eone è l’unica forma concreta dell’eternità individua nell’etere universale, l’unica creazione mista di umanità e di vita eterea» (art. 9, fase. B).

Creazione di chi? Creazione dell’uomo stesso, che si quintessenzia in essa per combustione naturale, ivi trasponendo i propri caratteri sublimati.

«Eone vuol dire essere completo, ragionevole, capace di amore e di odio, di bene e di male» (art. 8, fase. B). «Colui che ermeticamente, cioè con uno stato intellettivo continuo, sa trasportare tutta la sua personalità nei tre elementi superiori, può partecipare alla vita eonica (cioè può anticiparla) ancora vivente nel corpo saturniano e, dopo morto, può vivere della vita eonica, o approdare in nuovi pianeti, o ritornare alla vita umana» (art. 10, fase. B).

Eone è dunque essere eterno; eterno nel bene come nel male e, mentre all’uomo non pervenuto la morte offre possibilità di rinnovamento e di redenzione, una volta nati alla vita eonica le alternative cessano ed il fato inesorabile si compie per sempre.

Or chi può assumersi davanti all’eterno di una creazione nel bene o nel male la tremenda responsabilità di averne additata la via? Quale iniziato vero, conoscendo la natura umana, non si sentirà vacillare il cuore nel fornire i dati di un simile problema a doppia, eterna soluzione?

Quali garanzie potranno mai salvaguardare la sua coscienza ed il cammino del discepolo, dal quale soltanto dipenderà che si immortali nel bene, come nel male? D’altra parte come tacere davanti all’ansia umana, che per mille aneliti conclama un aiuto, talora struggendosi nel tormento ineluttabile dello spirito teso al compimento del suo fine?

Di qui la necessità dell’Iside, o iniziazione isiaca, o lunare, o preparatoria, o collettiva, al termine della quale, se vittoriosi, l’iniziatore ammoneo aspetta il candidato osirideo.

Iside è luna, è acqua, e l’acqua è una delle tre prove iniziatiche antiche (dell’acqua, dell’aria e del fuoco).Ma non si tratta dell’acqua fresca, di cui c’è pure abbondante bisogno su questa terra, bensì dell’acqua da cui fu salvato (e non sommerso) il biblico Mosè.

È allentamento del corpo lunare dai serrami del corpo saturniano, allentamento che significa esteriorizzazione e quindi dinamismo separato (1).

Senonché, il corpo lunare è il registratore di tutte le impressioni umane, dalle ancestrali alle contemporanee, e, pertanto, col riemergere di esse, sotto forma di individuazione mobile o angelica, riaffiorerebbe tutta la storia vissuta (come forza, s’intende, e come forma) che, allo stadio attuale dell’evoluzione, è tenuta a freno nelle riserve dell’incosciente.

Un tale irrompere con potenza inaudita, perché pari, nella sintesi di una vita sola, alle innumeri sintesi vissute, frattanto impegnate e distribuite in vari complessi psico-fisiologici, è la pazzia o la morte.

Ma se diretto, proporzionato, finalizzato, e ripartito è l’equilibrio (un superiore equilibrio) è l’ascenso, la gloria e la redenzione.Donde le catene.

Una catena è un circuito, ove il SUPERO delle energie richiamate circola, cioè si distribuisce di volta in volta che si cumula, rendendosi, così, graduale e progressivo l’assorbimento da parte di tutti, con benefici che sarebbe difficile disconoscere.

Se poi è prevista (come è prevista) oltre la saturazione, un’applicazione pratica, COME VALVOLA DI SICUREZZA, allora da questa sgorgheranno le eccedenze eventuali, anzi inevitabili, feconde di immensi beni, come nel quadro della Miriam.

L’inosservanza del fine, i deviamenti, le alterazioni e le prevaricazioni sono altrettanti impedimenti al libero corso della valvola stessa, con grave danno dei praticanti, tutti perciò cointeressati e solidali nel mantenimento del patto, sotto pena di subirne conseguenze funeste nella vita reale.

E siano queste note di supremo monito per coloro che ritengono di poter sostare sul cumulo immondo delle loro lordure passionali, dispiegando nello stesso tempo le incaute ali al volo verso l’Olimpo dei Numi, il cui ingresso è vigilato dagli Spiriti dell’Ideale, Arcangeli di Luce.



sabato 9 aprile 2022

Bardo Tödröl il libro tibetano dei Morti


BARDO THÖDROL Il libro tibetano dei Morti 


Bardo Tödröl 
Tratto dai Bollettini mensili “Vidyà” 12/2007 e 1/2008)

Il ‘Bardo Thodrol’, chiamato comunemente "Libro Tibetano dei morti", è un testo che fa parte dei Tantra buddhisti tibetani, precisamente della sezione chiamata Yoga supremo (atiyoga), sinonimo di Grande Perfezione (dzogchen), ed è considerato il testamento spirituale di Padmasambhava (1).

Il Bardo, normalmente tradotto con "stato intermedio", indica uno stato di incertezza compreso tra due avvenimenti: uno appena concluso ed uno che ancora deve avvenire, e mostra principalmente come la vita e la morte siano una serie successiva di avvenimenti in continuo cambiamento. 
‘Thodrol’ viene tradotto "liberazione attraverso l'ascolto", da thos = ascolto con il cuore, cioè con fede sincera.
Dopo la morte, conoscendo le esperienze dei vari stati intermedi, sapendo cosa ci sta accadendo, possiamo applicare le varie istruzioni (2).

Il libro descrive le visioni che il nostro principio coosciente (3) percepisce durante le varie fasi del Bardo comprese fra il distacco dal corpo fino alla liberazione (4) o alla eventuale nuova rinascita; riporta anche le istruzioni che un Lama (5) deve leggere al morente per esortarlo a riconoscere che tutte le esperienze sono proiezioni della sua coscienza condizionate dal karma, dalle abitudini mentali, dagli ultimi pensieri, in modo che possa affrontare l'esperienza del Bardo nello stato di minor confusione possibile.

In pratica il Thodrol insegna al morente come affrontare gli stati intermedi facendogli capire la natura illusoria delle visioni e guidandolo verso la liberazione; ma la comprensioone delle visioni dipenderà soltanto dalla maturità spirituale raggiunta durante la vita. 

Tuttavia, leggere le istruzioni del Thodrol non è molto importante; il morente si accorge soltanto che si sta facendo qualcosa in suo favore; è importante che il morente, se non è in coma, sia coinvolto in una conversazione che lo guidi e lo stimoli a superare le esperienze che dovrà affrontare:
«Tu stai morendo, stai lasciando i familiari, gli amici e il tuo ambiente. Ma nello stesso tempo c'è qualcosa che continua in te; dovrai affrontare esperienze paurose, il distacco dal corpo e il tuo karma (6) sotto forma di visioni. Quali che siano le visioni, stabilisci sempre un rapporto con quello che accade e non tentare di fuggire, non puoi fuggire a te stesso. Rimani lì e stabilisci un rapporto con tutto ciò che proietti»(7).
Secondo la Tradizione ogni parola del Thodrol è un mantra, un suono che appartiene allo stato pri-mordiale delll'essere. Per questo il Libro ha una doppia interpretazione: quella esoterica basata sull' ascolto con il cuore e quella poopolare basata sulle sole parole. Tuttavia la potenza del Libro è tale che chiunque lo ascolti pone un seme per la propria salvezza.

Al momento della morte viviamo tutti analoghe esperienze, ma è la capacità di riconoscere la natura delle visioni che ci rende diversi; il Libro infatti suddivide i morenti in tre livelli di consapevolezza:
- livello superiore: quelli che sono riusciti ad ottenere la liberazione in vita; questa è chiamata Via della naturale Liberazione;
- livello medio: quelli devoti ad una divinità o al proprio Maestro; è opportuno che ascoltino le istruzioni del Thodrol, perché sono quelli che possono ottenere la liberazione durante il processo della morte; questa è chiamata Via della Trasforrmazione;
- livello basso: quelli che hanno fede nella vita oltre la morte; sono quelli che hanno più bisogno di ascoltare le istruzioni; questa è chiamata Via della Rinuncia.
In ogni caso, qualunque sia il livello di coscienza, è opportuno leggere al morente le istruzioni perché a causa dello stato confusionale o del terrore potrebbe non ricordarle; ma la cosa più importante è che il morente mantenga vigile la propria attenzione e, con profonda comprensione, metta in pratica le istruzioni del Maestro. 

La possibilità di ottenere la liberazione nel Bardo si spiega considerando che durante la vita abbiamo due ostacoli che si oppongono alla liberazione, il corpo ed il karma. Il corpo per la presenza dei cinque skanda o aggregati energetici, che compongono la individualità che, finché non risolti, ci spingono verso la manifestazione.

Il karma perché la "visione karmica"(9), dovuta al karma accumulato nelle vite passate, ci condiziona nella interpretazione del mondo, facendoci vedere gli avvenimenti colorati dai nostri condizionamenti. Con la morte ci liberiamo dal corpo; rimane quindi il solo ostacolo del karma.

Nello stato di Bardo siamo avvantaggiati perché in esso, senza corpo, la Chiara Luce e le visioni si manifestano spontaneamente; se sapremo riconoscerle otterremo la liberazione.

Introduzione


Per comprendere gli stati del Bardo è necessario accennare brevemente al ramo tibetano della Tradizione. Secondo questo, la "pura Consapevolezza" (rigpa) o Coscienza, è lo stato da cui si rivela la manifestazione; la Coscienza non è concreta, ma da essa nascono tutte le cose che noi consideriamo reali. 

La vera natura della Coscienza è priva di fondamento, è lo stato di vuoto, o ‘vacuità’ (shunyatà) (10); non c'è nient’altro eccetto la Coscienza, che è senza nascita e quindi senza morte; essa esiste dappertutto, ma per noi è di difficile comprensione.

Non vedendo la reale natura delle cose non riusciamo a comprendere che i fenomeni sono delle manifestazioni della Coscienza; i fenomeni sorgono dalla Coscienza e si dissolvono in essa; la natura delle cose è dotata di Consapevolezza. Tutto ciò che riteniamo realtà, compresa la trasmigrazione e la liberazione, è soltanto una manifestazione della nostra Coscienza. 

Le varie cose che vediamo sem-brano fra loro diverse perché siamo ingannati dalla loro forma apparente; qualunque cosa appaia è sempre una manifestazione della Coscienza; ma la cosa più importante che dovremo comprendere è che la nostra coscienza e la Coscienza universale (brahmanica) sono un’unica e stessa cosa. 

Sempre secondo la Tradizione tibetana, alla base della manifestazione c'è la dottrina dei tre corpi (trikàya). La Coscienza universale si manifesta nell'uomo in tre livelli di coscienza o corpi che coesistono in noi anche se non ne siamo consapevoli. 

Essi (*) sono:
  • Nirmàanakaya = manifestazione fenomenica;
  • Sambhogakaya = manifestazione noumenica;
  • Dharmakaya = essenza della manifestazione·.
(*) Corrispondono ai tre stati del Vedànta: visva, taijasa e prajna.

Secondo il Thodrol, il nostro principio cosciente, durante l'intero ciclo dell'esistenza, passa attraverso sei stati intermedi chiamati bar-do e sperimenta i tre livelli di coscienza chiamati kaya. 

Fra gli stati del Bardo ed i livelli di coscienza sperimentati nell'intero ciclo dell'esistenza c'è una precisa relazione; mentre passiamo da un bardo all'altro, cambiamo anche il livello di coscienza. Gli stati intermedi vengono chiamati:
  1. Bardo del processo della morte (Chikai bardo)      Esperienza della morte
  2. Bardo del dopo-morte (Chognyid bardo)                Esperienza della dharmatà (11)
  3. Bardo del divenire (Sidpa bardo)                             Esperienza della ricerca della rinascita
  4. Bardo naturale di questa vita (Kyoni bardo)          Esperienza dello stato di veglia
  5. Bardo dello stato di sogno (Milam bardo)               Esperienza del sogno
  6. Bardo dello stato di meditazione (Samtem bardo)  Esperienza della meditazione
La suddivisione dei vari bardo non è ben determinata, infatti in vari commenti il bardo del sogno ed il bardo della meditazione sono considerati parte del bardo della vita presente, e così gli stati di bardo vengono considerati soltanto quattro.

Durante il Bardo abbiamo l'esperienza di vari tipi di energia, sotto forma di visioni, che sorgono dalla ignoranza, di natura metafisica; la capacità di ottenere la liberazione dipende dalle nostre reazioni alle visioni stesse. 

Le visioni sono energie, emozioni fuori del nostro controllo cosciente, che quindi interpretiamo come esterne a noi. Sono le stesse energie che ci impediscono di riconoscere le visioni come interne. Potremo dire che sono energie terribili, di grande intensità, che non vogliamo avere nella nostra coscienza, che proiettiamo all'esterno, e che poi si rivolgono contro di noi creandoci terrore.

Secondo il nostro livello di coscienza possiamo comprendere queste visioni (pure energie) come reali o come non reali. A livello assoluto, se dimoriamo nella pura Consapevolezza vediamo le visioni come fenomeni, quindi non reali, cosi come vediamo non reale il samsara, per cui non ci fanno paura, non possono danneggiarci. 

Ad esempio, se un demone ci assale, rimanendo stabili nello stato della pura Consapevolezza il demone scompare perché tutto è natura primordiale della Coscienza.

A livello relativo, sperimentiamo le visioni come se avessero un'esistenza reale, anche se sappiamo che reali non sono, che non esistono in senso assoluto; tuttavia, finché non le riconosciamo come non-reali, sono energie che dobbiamo affrontare. 

Anche se non abbiamo completamente realizzato la pura Consapevolezza sappiamo che il mondo è una proiezione materializzata della Coscienza, ma gli oscuramenti karmici e il concetto della dualità ci fanno sentire come soggetto separato dall'oggetto, cioè come se le visioni fossero separate da noi. Le visioni che sperimentiamo rappresentano simbo-licamente le energie del nostro karma.

In particolare i kàya sono quattro:
  • Svabhàvikakaya, che corrisponde al Quarto, o Turiya del Vedànta, cioè all'Essere non qualificato, il Non-Essere. Questo stato di coscienza non viene sperimentato in alcun stato intermedio. 
  • Dharmakaya, che corrisponde al corpo causale, al Praijna del Vedànta. Viene sperimentato nel Chikai Bardo in cui l'Essere si manifesta alla nostra coscienza sotto forma di Chiara Luce. Il Dharma-kaya fa parte della nostra natura, anche se non ne siamo consapevoli, ed è compito nostro portarlo in attuazione; può essere realizzato al momento dellla morte. È l'essenza stessa della manifestazione 
  • Sambhogakaya, che corrisponde al Taijasa superiore, corpo buddhico del Vedànta. Viene sperimen-tato nel Chonyid Bardo. È il piano in cui l'Essere si manifesta nella nostra coscienza sotto forma d'energia con forme simboliche immateriali di luci, colori e suoni; corrisponde alla manifestazione noumenica; può essere realizzato nel bardo della dharmatà. 
  • Nirmàanakaya, che corrisponde al Taijasa inferiore, corpo manasico del Vedànta. Viene sperimen-tato nel Sidpa Bardo. È lo stato in cui l'Essere si manifesta alla nostra coscienza come energia che potrà essere poi trasformata in forme materiali apparentemente solide, che ci spingono a muoverci e ad agire; corrisponde alla manifestazione fenomenica; può essere realizzato al momento della incarnazione.
Sogyal Rinpoche (12) scrive: 
«Il Sambhogakaya potrebbe essere paragonato all'Ananda, l'energia di beatitudine della natura divina; il Nirmàanakaya al Sat e il Dharmakaya al Cit»(13).
Il Sambhogakaya e il Nirmàanakaya sono manifestazioni del principio universale Dharmakaya, e sono contenuti in esso. 

A sua volta, il Nirmàanakaya contiene il Dharmakaya ed il Sambhogakaya; infatti solo in esso i tre corpi coesistono e possono essere simultaneamente sperimentati e realizzati. Il passaggio da un Bardo all'altro è come una nascita; il principio cosciente, dopo una più o meno lunga perdita di coscienza, cambia livello di consapevolezza, e al risveglio si trova nel bardo successivo. I vari commenti esortano a non somministrare al morente forti droghe o anestetici, perché questi diminuiscono la capacità di riconoscere la Chiara Luce e le visioni.

Riportiamo di seguito due schemi: il primo con le esperienze, gli stati di coscienza e le proiezioni per ogni bardo; il secondo con il ciclo completo dell'esistenza. Si ricorda che le esperienze non possono essere uguali per tutti perché dipendono dalla maturità spirituale e dal karma individuale; inoltre la sequenza è temporale e non spaziale, cioè il principio cosciente sperimenta i vari stati di coscienza senza dover cambiare la sua posizione nello spazio.

All'inizio del Chikai Bardo, a causa della malattia che ci porterà alla morte, il nostro principio cosciente si ritira dal corpo fisico, successivamente dai corpi pranico, manasico e buddhico, per rimanere con il solo corpo causale (il dharmakaya o il praijna del Vedànta) in cui la coscienza è indifferenziata: la molteplicità e la dualità sono reintegrate nell'unità di coscienza non differenziata (14). 

È lo stato in cui è possibile realizzare l'identità principio cosciente-Coscienza.

Se per incapacità, dovuta al karma o ad impreparazione, non ci riconosciamo nella Chiara Luce, allora scendiamo al livello inferiore e prendiamo un corpo mentale buddhico per sperimentare nel Chonyid bardo il Sambhogakaya. 

Nel Chonyid bardo la nostra coscienza proietta simboli karmici che si presentano sotto forma di divinità pacifiche e irate accompagnate da luci, suoni, raggi di luce sfolgoranti. Se non riusciamo a riconoscerci in alcuna di queste divinità, allora veniamo spinti verso il Sidpa Bardo, alla ricerca di una rinascita (15).


Il Bardo del processo della morte (Chikai bardo):

È il periodo compreso tra il momento in cui si è colpiti dalla malattia che causerà la morte fino alla scomparsa della Chiara Luce Secondaria. Subito dopo la morte, progressivamente il nostro principio cosciente si distacca dai veicoli o corpi che lo avvolgono; sarebbe meglio dire che progressivamente cambia gli stati di coscienza o consapevolezza chiamati corpo fisico, corpo pranico, corpo manasico, corpo buddhico, per rimanere nello stato di coscienza chiamato corpo causale (dharmakaya), corpo della illuminazione primordiale, fuori dal samsara.

Per rendere più chiaro come avviene il ritiro del principio cosciente dai vari veicoli (stati di coscienza) si riporta quanto scrive Raphael: «Un'incarnazione non è altro che l'esteriorizzazione su un particolare piano di esistenza, mentre il ritiro è caratterizzato dal processo di interiorizzazione o astrazione. 

Sarebbe bene meditare su questi termini perché possono svelare il mistero di ciò che noi, in modo erroneo, siamo soliti chiamare "morte"»(16). Si sintetizza, inoltre, ciò che Raphael scrive nello stesso testo. Il ritiro dal corpo fisico avviene in tre stadi:
  • Primo distacco (17): si distacca il filo della coscienza. L'ente perde contatto con i cinque organi di azione per cui percepisce ma non è capace di rispondere (18). 
  • Secondo distacco: si distacca il filo di coscienza collegato ai polmoni. Ancora non è morte vera, ed il collegamento può essere riattivato con mezzi meccanici. 
  • Terzo distacco: si distacca il filo ancorato al cuore; questo è il completo distacco dal nostro corpo fisico, si ha la vera astrazione dal corpo fisico.
  • Nel processo di ritiro dal corpo fisico non vi è dolore né sofferenza, è come quando ci si addormenta. 
Lasciato definitivamente il corpo fisico, ci troviamo nel corpo pranico (pranamayakosha). Da questo piano si percepisce il piano fisico, ma non vi si può accedere; si può vedere e udire tutto, ma non si riesce a comunicare. Il corpo pranico è soggettivo e non oggettivo, per cui gli altri non lo possono vedere. 

È uno stato di coscienza che può costituire travaglio. Il principio cosciente tende a rimanere nel corpo pranico perché sente ancora l'attrazione del piano fisico; solo con la cremazione si interrompe l'attaccamento, e il corpo pranico si disgrega nei quattro elementi (con il potere del fuoco si risolvono il solido, il liquido ed il gassoso).

Lasciato il veicolo pranico ci troviamo nel corpo manasico (kàma-manas) che è l'insieme dei nostri processi energetici proiettati come forme-immagini sul telo della nostra aura. Il mondo manasico non ha una realtà propria perché è l'accumulo delle forme-immagini create dal manas individuale (è il piano di Taijasa inferiore, gli archetipi sono nella buddhi). 

Se nel piano fisico quando c’era un moto di odio, di violenza, lo scaricavamo sugli altri, in questo piano la corrente di odio in noi si riversa su noi stessi creando angoscia e terrore: noi quindi siamo i creatori e le vittime della dualità che creiamo. 

Queste energie che creano armonia o disarmonia sono le divinità pacifiche o irate che noi stessi proiettiamo. ... Il principio cosciente per liberarsi dei contenuti energetici deve trascendere ogni tipo di qualità attrattivo-repulsiva.

Lasciato il corpo manasico il principio cosciente rimane con il solo corpo causale; in questo corpo, senza la mente che li proietta, non esistono né spazio né tempo, viene quindi a mancare l'effetto della causalità, ma i semi karmici rimangono allo stato potenziale; inoltre, senza mente, il principio cosciente non ha più il senso della dualità e quindi neanche quello della individualità; si trova nello stato di "Unità con se stesso".

In questo periodo, nella nostra coscienza, risplende la Chiara Luce Primordiale, che però non è una luce visibile normalmente, ma è la nostra vera natura, lo stato di pura e luminosa consapevolezza, il Dharmakaya, presente nella natura di tutti gli esseri. 

A questo punto il Lama ci ricorda:
«Ora è giunto il momento di cercare la Via della Liberazione. Infatti, appena la respirazione sarà cessata, ti apparirà il significato dell'indicazione che il maestro ti diede sulla "Chiara Luce" del primo stato intermedio. 
Quando la respirazione è cessata, tutto è una limpida vacuità, come quella dello spazio celeste. In questa dimensione spaziosa sorge una consapevolezza nuda, oltre alla quale non c'è nulla, senza l'idea di centro e periferia, chiara e vuota. 
In quel momento devi riconoscere da te stesso la consapevolezza vuota e limpida come la tua vera natura e rimanere in quello stato. Anch'io allora te la indicherò»(19).
E prosegue con le istruzioni per farci riconoscere la natura della Chiara Luce Primordiale.

«La limpidezza, in cui consiste la natura della tua consapevolezza di te stesso nell'attimo presente, non è per nulla qualche cosa, né è caratterizzata da colori e immagini: proprio questo limpido vuoto è la vera natura della realtà. L'essenza della tua consapevolezza di te stesso è il vuoto, ma esso non è un mero nulla. Infatti la tua consapevolezza è una chiarezza senza ostacoli: proprio questa nitida chiarezza è l'illuminazione. 

I due aspetti della tua consapevolezza, la vuota essenza, per nulla determinabile, e la nitida chiarezza, sono inseparabili: proprio questa indivisibilità è il corpo della realtà (dharmakaya). 
La tua consapevolezza di te stesso, in cui vacuità e chiarezza sono inseparabili, dimora nel grande corpo di luce che non è soggetto né a nascita né a morte: proprio questo è il 

Buddha della Luce Immutabile. È sufficiente avere questa comprensione. Se comprendi che la nitida natura della tua consapevolezza di te è lo stato di liberazione, allora il vedere da te stesso la tua consapevolezza è dimorare nello stato di liberazione»(20).

Se il principio cosciente riconosce la Chiara Luce, viene assorbito nel corpo di beatitudine; in caso contrario prosegue il suo cammino verso gli stati inferiori nel Bardo. La Chiara Luce Primordiale (Luce Madre) rappresenta la nostra vera natura, la Coscienza del Sé che pervade tutte le coscienze di cui la coscienza individuata è un riflesso (Luce figlio).

Da notare che la Chiara Luce è l'unica Realtà fra tutte le visioni sperimentate negli stati intermedi.
Se nell'incontro (Luce Madre - Luce figlio) riconosciamo di essere un riflesso della Luce Madre, ossia se riconosciamo che la nostra coscienza è la stessa 

Chiara Luce Primordiale, otteniamo all’istante la realizzazione della nostra vera natura nel piano causale, e non abbiamo la necessità di sperimentare gli altri stati del Bardo. Infatti riconoscere che noi stessi (principio cosciente) siamo la Coscienza Universale, equivale a riunire l'oggetto con il soggetto e quindi trovarsi nello stato di non-dualità.

Per ottenere questa liberazione il Testo ripete in continuazione che «è necessario rimanere costante-mente nello stato di consapevolezza che è al di là del concetto dualistico di soggetto ed oggetto».

Se non riconosciamo di essere un riflesso della Chiara Luce Primordiale, allora, «dopo circa la durata di un pasto» (21) si manifesta la «Chiara Luce Secondaria», un po’ meno brillante della prima. Se non riusciamo ancora a riconoscerci come un suo riflesso, perdiamo temporaneamente coscienza per poi svegliarci in uno stato di coscienza più basso, nel Sambhogakaya.

Ci si potrebbe chiedere perché tutti gli esseri, perfino quelli con basso livello di consapevolezza, incontrano la Chiara Luce, e perché, pur essendo noi stessi Chiara Luce, non ci riconosciamo in essa. 

Le varie istruzioni riportano che la coscienza nel corpo fisico è come l'etere all'interno di un vaso; l'etere interno è separato dall'etere esterno finché il vaso non si rompe, quando allora l'etere interno si fonde con l'etere esterno, ed i due diventano una sola cosa, indivisibili. 

Lo stesso avviene al momento della morte; alla disgregazione dei vari veicoli, la nostra consapevolezza (etere interno, il figlio), liberata dai veicoli, incontra la Chiara Luce (etere esterno, la Madre).

Ma se la consapevolezza all'interno dei veicoli è oscurata dai semi karmici essa è meno luminosa, più opaca, non ha la natura della pura Consapevolezza, della Chiara Luce, per cui non la riconosciamo e non riusciamo a fonderci con essa. 

In altre parole, se non siamo in sintonia con la Chiara Luce, pur essendo noi un suo riflesso, non riusciamo a riconoscerla, ci sentiamo estranei al suo livello, e siamo spinti a cercare il nostro livello di consapevolezza, quello al quale siamo più abituati; questo desiderio crea una dualità che ci allontana dallo stato di non-dualità della Chiara Luce; scendiamo così verso il Sambhogakaya, verso il corpo mentale superiore (corpo buddhico).

Il Testo dice che se non riconosciamo la Chiara Luce Secondaria, cadiamo in uno stato di incoscienza, che dura vari giorni per poi svegliarci nel Sambhogakaya.


Il bardo dello stato dopo la morte (Chonyid bardo)

Inizia nel momento in cui scompare la Chiara Luce secondaria, e termina con la scomparsa delle divinità irate. Le istruzioni dicono:
«Ora la cosiddetta morte è giunta: accade a tutti. Non provare desiderio o attaccamenti rispetto alla vita che lasci. Anche se tu lo volessi, non avresti la possibilità di restare. Inoltre non ne ricaveresti nulla se non la trasmigrazione nel ciclo delle esistenze. Ricorda il tuo Maestro ed i suoi insegnamenti. Non desiderare! Non aver attaccamenti!»(22). 
Le istruzioni proseguono esortando il morente a non avere paura; il corpo non è più carne e sangue ma pura sostanza mentale: «nessun suono, nessun lampo può farti del male; tu non puoi morire».
Scendendo dal Chikai bardo entriamo nello stato di consapevolezza chiamato Sambhogakaya, e prendiamo anche un corpo mentale superiore. 

Il corpo mentale superiore è il veicolo dell'intuizione, della conoscenza sintetica, del puro intelletto, è il piano della buddhi, degli archetipi, degli universali; in questo piano torna il concetto di spazio e di tempo e quindi del principio di causalità, e il principio cosciente sperimenta la sola conoscenza dei dati proiettati dalla sua mente (esperienza soggettiva).

Da questo momento, per sette più sette giorni, abbiamo visioni di luci sfolgoranti, suoni e raggi di luce che percepiamo come divinità pacifiche ed irate; contemporaneamente a queste abbiamo visioni di luci, suoni e raggi di luce di minore intensità, quasi opachi. Perché appaiono e cosa rappresentano le visioni che percepiamo come divinità pacifiche ed irate? Da cosa dipende il loro riconoscimento?

Le istruzioni riportano che le luci, i colori e i suoni che percepiamo derivano dalla dissoluzione progressiva dell'enerrgia karmica dei cinque "elementi sottili" che formano il nostro corpo(23); questi elementi mano a mano che si dissolvono rilasciano la loro energia sotto forma, appunto, di luci sfolgoranti, colori e suoni che, combinandosi fra loro, formano delle figure che riempiono tutto lo spazio e che il principio cosciente percepisce e sperimenta come divinità pacifiche ed irate così intensamente da provare paura e terrore.

Durante il processo della morte, senza il corpo, tutte queste visioni della pura consapevolezza si manifestano spontaneamente e vengono sperimentate come sono in realtà (esperienza della dharmatà).

Queste energie rappresentano il nostro karma, e gli insegnamenti indicano quale luce colorata e quale suono corrisponde all'elemento che si dissolve. Le luci sfolgoranti di saggezza sono accompagnate da altre luci più opache, che rappresentano le nostre tendenze inconsce accumulate attraverso ira, avidità, ignoranza, desiderio, invidia, orgoglio. 

Sembra che il riconoscimento delle visioni dipenda soltanto dalla pratica di aver vissuto tale stato di coscienza durante la vita. Se la nostra coscienza considera reali le percezioni esterne dei nostri sensi, relative soprattutto alla vista e all'udito, non riusciremo mai a comprendere che le visioni sono nostre proiezioni e sono interne a noi.

L'insegnamento è basato quindi sul diventare consapevoli che le manifestazioni non sono qualcosa di separato da noi, non dobbiamo considerarle visioni esterne e reagire con la paura ricadendo così nell'illusione. Dobbiamo essere consapevoli che solo riconoscendole come energie proiettate dalla nostra coscienza possiamo ottenere la liberazione.
«Grazie alle istruzioni del Maestro si comprende che i suoni, le luci e i raggi sono una propria manifestazione, energia della consapevolezza di sé. È come vedere un leone imbalsamato ed essere liberi dalla paura. Se non si riconosce il leone imbalsamato si prova paura; ma quando si comprende che non c'è un leone vivo, perché un'altra persona ce lo ha detto, si è liberi dalla paura. 

Così, quando appaiono le divinità bevitrici di sangue, con corpi enormi e membra tozze, grandi come tutto lo spazio, sicuramente si prova paura. Ma non appena si ascolta questa istruzione sulla loro vera natura, si comprende che esse sono una propria manifestazione, oppure la divinità verso la quale si è devoti. È come incontrare una persona già conosciuta. Ogni cosa si risolve in modo naturale nella consapevolezza di sé che risplende di luce propria»(24).
Subito dopo viene letta l'istruzione per ricordare al defunto la consapevolezza della propria vera natura.
«Non aver timore, ma riconosci qualunque cosa ti appaia, per quanto terrificante, come una tua manifestazione. Riconoscila come il tuo stesso splendore naturale, chiara luce. Se lo riconosci in questo modo, senza dubbio sei liberato proprio ora. La cosiddetta illuminazione istantanea accade proprio in questo momento. Ricorda!»(25).
In altri termini la natura delle visioni, pacifiche o irate, è sempre la stessa; la differenza è che noi le vediamo secondo le nostre tendenze karmiche; se riusciamo a comprendere che le divinità sono energie della nostra coscienza, dobbiamo cercare di fonderci con esse, riconoscerle come nostre proiezioni con cui identificarci; con il riconoscimento, i semi karmici perdono la loro energia venendo a mancare le condizioni adatte per essere portati a maturazione; se invece, a causa dei nostri condizionamenti karmici, percepiamo le luci opache come entità della manifestazione saremo attratti da esse e saremo spinti verso la rinascita; secondo le istruzioni non dobbiamo seguirle, dobbiamo vincere la paura ed unirci alle brillanti luci della nostra coscienza.

Le istruzioni raccomandano:
«Quando il tuo corpo e la coscienza si separano, i puri fenomeni sottili e limpidi della condizione reale (dharmatà) appaiono chiaramente. La loro brillante e luminosa natura è impressionante. Appaiono dei fuochi distinti, come un miraggio sui pianori di primavera. 

Non averne paura, terrore, sgomento. Sappi che essi sono lo splendore della tua vera natura. Dalla luce il grande fragore dei suoni naturali della condizione reale rimbomba come mille tuoni che scoppiano nello stesso momento. Anche questi sono i suoni della tua vera natura. 

Non averne paura, terrore, sgomento. Tu hai il cosiddetto corpo mentale, prodotto dalle impressioni delle tue azioni precedenti; non possiedi più un corpo materiale di carne e ossa. Perciò qualunque suono, luce o raggio tu percepisca non può nuocerti: tu non hai nulla che possa perire. 

È sufficiente renderti conto che questi fenomeni sono una tua manifestazione naturale. Sappi che questo è lo stato intermedio... Non temerle, sono manifestazioni della tua coscienza, delle tue tendenze karmiche, non possono farti del male, non sono forme materiali, sono simboli karmici che raccontano la tua vita. Riconoscile come forme simboliche della tua coscienza, mantieni la tua consapevolezza completamente distaccata, riconoscile e identificati con esse ..

 Quelle espressioni di suoni, luci e raggi scaturiscono dall'energia naturale della tua consapevolezza. Esse non provengono da nient'altro. Dunque non provare desiderio verso quelle esperienze; non provare neppure timore. Rimani rilassato nello stato privo di giudizi. In questo stato, tutti i corpi divini e i raggi luminosi svaniranno in te stesso, cosicché realizzerai l'illuminazione»(26).

Le immagini, i colori ed i suoni variano secondo il nostro livello spirituale. L'aspetto, il colore, il numero e il tipo delle teste, il numero delle braccia, gli ornamenti delle divinità hanno valore di simboli; sono sempre nostre proiezioni, siamo sempre noi stessi che indossiamo una maschera diversa ogni volta che ci presentiamo sul palcoscenico del Bardo: è necessario ricordare che nel Bardo non c'è niente di reale, se non la Chiara Luce.

Non è importante conoscere i nomi e le caratteristiche delle divinità, è importante che ognuno riconosca nelle visiooni le figure sacre della religione alle quali era devoto in vita. In ognuno dei quattordici giorni il nostro principio cosciente si confronta con le proiezioni della sua mente, sia purificata che confusa. Le istruzioni spiegano che se prendiamo consapevolezza che le luci sfolgoranti che ci incutono terrore sono soltanto nostre proiezioni, allora ci libereremo dal terrore e potremo identificarci con esse.

Ad esempio: se abbiamo paura di un serpente che poi riconosciamo come corda, ci siamo liberati dalla paura perché ci siamo resi conto che quello che credevamo un serpente è in realtà una corda. Il riconoscimento ci ha liberati dalla paura. Così avviene con il riconoscimento della non-realtà delle nostre proiezioni delle luci sfolgoranti. Tuttavia difficilmente riusciamo a riconoscere le visioni come energia proiettata dalla nostra coscienza.

Il Bardo-Thodrol oltre a descrivere le varie visioni insegna che per riconoscerle quali proiezioni dell'energia della nostra coscienza è necessario:
«Rimanere nella grande equanimità della non-azione, in cui non c'è né attaccamento né avversione, né vicino né lontano» (27). 
Tuttavia il libro propone due modalità per ottenere la liberazione:
- rimanere nello stato naturale di grande equanimità, senza giudicare e senza reagire in un modo impulsivo: la Via della liberazione naturale;

- riconoscere le luci, con devozione ed amore, quali manifestazioni del nostro Maestro, offrendogli preghiere e mantra: la Via della trasformazione (Tantra).
In ogni caso, prosegue il Testo, anche se non abbiamo devozione e non recitiamo i mantra, ma riconosciamo le visioni come proiettate da noi stessi, otterremo la liberazione.

Le divinità irate proiettate dal nostro principio cosciente dall'ottavo al quattordicesimo giorno sono l'altro aspetto delle divinità pacifiche e rappresentano il percorso che dobbiamo fare per ottenere la liberazione; il loro aspetto terribile serve per risvegliarci a comprendere la natura illusoria del Bardo. 

Se per il terrore o la impreparazione non riusciamo a riconoscere le proiezioni quali visioni illusorie, allora scendiamo verso il bardo del divenire che conduce alla rinascita.






Il bardo del divenire che conduce alla rinascita (Sidpa bardo)

Il bardo del divenire inizia quando scompaiono le divinità irate e termina quando il principio cosciente ridiscende nell'utero per la rinascita; si dice che abbia la durata variabile da una settimana fino a quarantanove giorni. 

Durante il Sidpa bardo, chiamato anche "bardo karmico del divenire", noi sperimentiamo lo stato di coscienza del Nirmàanakaya; in esso si riattivano tutti i semi karmici (le nostre tendenze abituali) e tutto ciò che sperimentiamo dipende esclusivamente dalla potenza del karma accumulato nelle vite precedenti, con pochissime possibilità di decisioni consce. 

Il principio cosciente aggiunge ai corpi già presi anche il corpo mentale inferiore, il manas, cioè entra nel piano della mente ordinaria con il pensiero logico, analitico, creativo, immaginativo.

Il corpo mentale, senza la protezione del corpo fisico, è dotato di chiarezza, di illimitata mobilità, di sensibilità e di una rudimentale chiaroveggenza che lo rendono molto vulnerabile alle visioni, ma lo rendono anche molto ricettivo alle istruzioni; in questo piano la nostra mente ha la completa padronanza delle energie, e ogni nostro pensiero diviene realtà; siamo mossi da tutti i concetti che ci hanno dominato durante la vita (venti karmici); ma questi poteri sono però di natura karmica, non dobbiamo desiderarli. Le istruzioni insegnano che dobbiamo bloccarli prima di diventare vittime della loro energia.

Senza l'inerzia del corpo fisico, con i pensieri che diventano subito reali, sperimentiamo l'aldilà come ce l'hanno insegnato le nostre credenze religiose. In questo bardo sperimentiamo visioni e suoni strani e paurosi che dipendono dalla dissoluzione dei quattro elementi che formano gli aggregati del corpo fisico.
 
Il Testo non riporta il quinto elemento, l'etere, perché in esso permane il principio cosciente. 

Nel primo periodo del Bardo non ci rendiamo conto di essere morti, poi, quando ce ne accorgiamo, il trauma è cosi grande che può farci perdere coscienza.

Il nostro vagare nel Bardo è come un incubo, crediamo di avere un corpo e di esistere realmente, udiamo forti rumori, cerchiamo di fuggire, ma di fronte a noi si aprono delle voragini. Il vento del karma ci sospinge incessantemente, non troviamo niente di stabile su cui fermarci. 

Siamo presi dal desiderio di avere un corpo, ed il non poterlo avere ci causa dolore. Sembra che per purificarci sperimentiamo le sofferenze di cui siamo stati diretti o indiretti responsabili.

In questo stadio abbiamo l'esperienza della "ricapitolazione" o "giudizio" che consiste nella revisione di ogni azione karmica della vita appena trascorsa; essa, come ogni esperienza nel Bardo, avviene nella nostra coscienza; non c'è nessuno che ci giudica, siamo noi stessi sia il giudice che l'imputato. 

Se nel passare in rassegna le esperienze karmiche della vita appena trascorsa saremo capaci di riconoscere gli errori commessi, comprenderne il significato profondo osservandoli senza emozioni, senza rimorsi, senza sensi di colpa o rimpianti, riusciremo a purificare il nostro karma; in caso contrario le emozioni negative diventeranno legami che ci spingeranno verso la rinascita. 

Purtroppo la paura genera reazioni di odio e di aggressività che ci impediscono di rimanere nello stato di equanimità necessario per non identificarci con le energie delle esperienze passate; una tale identificazione ci preclude la piena comprensione del significato di ogni nostra azione.

Qui, il Lama cerca di rinfrancare il morente spiegandogli che ormai ha lasciato tutto e lo esorta a considerare parenti, amici, proprietà, ecc. come oggetti percepiti in sogno e a non essere attaccato a loro.
«Se provi attaccamento non puoi conseguire la libertà dal terrore delle visioni. Devi fare ogni sforzo per rimanere libero dalla paura».
Le istruzioni spiegano che il corpo mentale è fatto di tendenze abituali ed esortano ancora una volta il defunto a non avere paura perché le visioni terribili sono sue proiezioni e sono illusorie e non si può avere paura di visioni illusorie. 

Perciò, per allontanare la paura e le altre emozioni negative, è importante rimanere nello stato inalterato di equanimiità (non agire, non desiderare); e se per varie ragioni non ci riusciamo, il Lama ci invita a meditare sul nostro Maestro fino ad identificarci con esso:
«Medita a lungo sul tuo Maestro con il quale ti sei identificato. 
Visualizzalo come una visione illusoria e priva di sostanza: questo è il "puro corpo magico". 
Quindi la visualizzazione del Maestro svanisce a partire dai contorni verso il centro. Rimani nella condizione non concettuale della chiarezza e del vuoto, in cui nessuna affermazione è possibile. Di nuovo medita sul Maestro. Poi medita sulla chiara luce. Alterna così le meditazioni. Successivamente anche l'immagine del cuore del Maestro che simboleggia la consapevolezza svanisce a partire dai contorni. 

Ovunque arrivi lo spazio, lì c'è anche la consapevolezza. Ovunque ci sia la consapevolezza, lì c'è il corpo della realtà (dharmakaya). Rimani tranquillo nello stato non elaborato del corpo della realtà, privo del senso dell'io. In questo stato bloccherai il processo della rinascita e otterrai la liberazione»(28).

Sembra che per ottenere la liberazione, data la grande impressionabilità della mente, basti ricordare una sola istruzione, avere un unico pensiero positivo; però ciò presuppone, se non il totale, almeno un parziale controllo della mente. Le istruzioni esortano il defunto a ricordare una qualsiasi pratica spirituale, lo incoraggiano ad abbandonare ogni tipo di attaccamento a persone e cose, nonchè ad allontanare sentimenti di ira, di ostilità, e in generale i pensieri negativi, perché la potenza di queste energie diventa concreta e viene percepita come una visione terribile; il defunto, per la sua grande sensibilità, potrebbe perdere il necessario stato di calma; addiritttura anche chi legge le istruzioni, se non è un amico, potrebbe farlo irritare.

II Testo spiega che ci sono due modalità per ottenere la liberazione: mantenere la consapevolezza senza concetti e reazioni e, soprattutto, senza distrazioni; oppure se non siamo capaci di mantenerla, di visualizzare e meditare sul nostro Maestro, generando un grande amore e devozione verso di lui, che ci permetta di vincere la paura e di rimanere in uno stato di equanimità.

Se il principio cosciente, anche con le istruzioni ricevute, non riesce a riconoscere la sua vera natura, allora le istruzioni ricordano:
«Pensa che tutta l'esistenza è la tua propria coscienza e che la coscienza è vacuità, perché svincolata dalla nascita e dalla cessazione»(29).
Se non riusciamo ad ottenere la liberazione neanche con le precedenti istruzioni, allora dal nostro karma veniamo condizionati a prendere un corpo in uno dei sei mondi dell'esistenza samsarica (30) e vedremo ancor più sfolgorante la luce del mondo verso il quale il karma ci spingerà ad andare. 

Per chiudere le porte della rinascita, il Testo riporta che qualunque sia la visione o luce che appare, non dobbiamo seguirla o desiderarla, ma dobbiamo vederla come l'appariizione del nostro Maestro a cui chiedere le benedizioni per non cadere nei mondi infelici; prosegue dicendo che è necessario avere almeno un certo grado di controllo della mente, oppure che è necessario recuperare almeno per un istante la nostra consapevolezza.

Se, a causa del karma, di impreparazione o di una tendenza verso la sfera istintuale, noi non siamo riusciti a seguire le istruzioni, ci sentiremo attratti verso la rinascita, e allora vagheremo fino alle soglie dell'utero; in questo vagare avremo esperienze di suoni terrificanti che sembra rappresentino le tendenze della nostra vita precedente.

Il Testo riporta che se siamo attratti dalla rinascita possiamo scegliere il luogo, desiderandolo con grande intensità e concentrazione; è importante che, se non riusciamo a rinascere in un paradiso, scegliamo almeno la vita umana che ci possa permettere di avere le condizioni migliori per ottenere la liberazione; dobbiamo però fare molta attenzione e rimanere sempre nella condiizione di non-attaccamento, senza repulsione, senza simpatia o antipatia, e osservare con distacco ciò che accade. 

Il Sidpa bardo come durata media è di circa quarantanove giorni; in queste sette settimane se non troviamo un utero per la rinascita, sperimentiamo ogni sette giorni il morire e il rivivere nello stato di Bardo. Sembra che le maggiori possibilità di ottenere la liberazione cadano ogni sette giorni, cioè al settimo, al quattordicesimo, ecc. dopo la morte.

Sembra anche che nelle prime sette settimane vengano vissute le esperienze della vita precedente e, nelle seconde, il tipo della rinascita che si sta per fare.



Conclusioni


«Gli uomini, non avendo nessun rimedio contro la morte, la miseria e l'ignoranza, hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai» (Blaise Pascal).

Scopo di queste "considerazioni" è di riuscire a rendere accessibile, per quanto possibile, il sacro Testo tibetano del ‘Bardo Thodrol’. Il Bardo-Thodrol è un testo eccezionale, può essere considerato l'iniziazione ad uno dei grandi Misteri; è rivolto a tutti, vecchi e giovani, ma specialmente a quelli che si chiedono il perché della loro esistenza come esseri umani. 

La morte è un argomento che interessa tutti anche se nella maggior parte dei casi preferiamo non parlarne e renderla un tabù come se, non parlandone, essa non esistesse.

La Tradizione Tibetana, da cui deriva il Bardo-Thodrol, è completamente diversa dalla nostra, specialmente nello scopo della vita; nella prima, lo scopo è di prepararsi per uscire dal ciclo delle rinascite e delle morti, dalla ‘Ruota della vita’, ed ottenere la liberazione in vita o nello stato intermedio; in pratica, cercare la Realtà dell'Essere entro noi stessi. 

Nella seconda, lo scopo è generalmente di alimentare la nostra individualità, il nostro ego, accumulando ricchezze, poteri e gratificazioni di ogni genere, ossia illudendoci di trovare la Realtà nei piaceri, fuori di noi stessi.

Si riportano alcune riflessioni per chiarire ancor meglio queste brevi note.

a) Il Testo riporta che in ogni stato del Bardo, rimanendo nello stato di "consapevolezza", è possibile ottenere la liberazione; ci indica come applicare le varie istruzioni, quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi se non le applichiamo; ci invita anche ad abituarci, in questa vita, a riconoscere le varie visioni e approfittarne perché sono occasioni uniche per raggiungere la liberazione. In realtà, tra le righe esso indica il modo corretto di percepire sia la manifestazione che la nostra funzione in essa; la tragedia della morte viene mostrata come ricerca della liberazione. 

Purtroppo, vivendo nella manifestazione, noi siamo abituati a vedere soltanto il mondo delle forme; al momento della morte non siamo capaci di riconoscere né il Dharmakaya né il Sambhogakaya e quindi cerchiamo di tornare nello stato di coscienza a noi abituale. Durante il Bardo non c'è nessuno che ci possa dare la liberazione; il Maestro, gli amici spirituali possono indirizzarci verso di essa, ma non possono compiere il miracolo di darci la liberazione, la dobbiamo ottenere da noi stessi.
b) Per ottenere la liberazione, il ‘Thodrol’ invita continuamente a rimanere nello stato della "pura consapevolezza", che chiama anche "stato primordiale", oppure "vera natura", o "coscienza", o "natura ordinaria della nostra stessa coscienza". Non ci sono parole per esprimere veramente la consapevolezza. Si potrebbe dire che "la consapevolezza è l'esperienza della coscienza", oppure che essa è in realtà "la consapevolezza della consapevolezza" . 

c) Durante la vita siamo talmente convinti che il corpo sia il centro di noi stessi che lo identifichiamo con la nostra coscienza, perciò riteniamo che alla morte del corpo muoia anche il principio cosciente. 
Alla morte il principio cosciente lascia il corpo e passa attraverso i vari stati intermedi sperimentando direttamente che l'identità corpo-coscienza è un'illusione; è infatti la sola coscienza che passa per i vari bardo. Quando lasciamo il corpo, niente continua, se non il principio cosciente con i semi karmici creati durante la vita.
La nostra coscienza non nasce e non muore, ed è il luogo, il palcoscenico in cui viviamo il dramma del Bardo che ha come protagonisti le nostre energie karmiche.

Purtroppo negli stati intermedi, specialmente nel ‘bardo del divenire’, abbiamo nostalgia del corpo; questo attaccamento, che ci ha procurato tanta sofferenza in vita, ce ne procura anche nella morte. Se riusciamo a comprendere profondamente che il nostro corpo è non-reale, che è solamente un fenomeno, ci liberiamo dall'attaccamento verso di esso e possiamo affrontare il Bardo senza timore.

«Come mai, potreste chiedervi, si può trovare stabilità nel bardo semplicemente riconoscendo la natura della mente (31) per un singolo istante? La risposta è che, ora, la nostra mente è avvolta in una rete, la rete del "vento del karma". Anche il "vento del karma" è avvolto in una rete, la rete del corpo fisico. 
Il risultato è che noi non abbiamo indipendenza né libertà. 

Ma quando il corpo si divide in mente e materia, nell'intervallo che precede il nuovo avviluppo nel corpo successivo, la mente, e insieme la sua produzione magica, è priva di un concreto sostegno materiale. Finché ne è priva, siamo indipendenti e possiamo riconoscere la natura della nostra mente. 

Il potere di ottenere la stabilità semplicemente riconoscendo la natura della mente è come una lampada che, in un solo istante, può dissipare le tenebre di interi eoni. Se nel bardo riusciamo a riconoscere la natura della mente nello stesso modo in cui la riconosciamo quando vi veniamo introdotti dal maestro, non c'è il minimo dubbio che otterremo l'illuminazione. 

Ecco perché, da questo preciso momento in avanti, dobbiamo sviluppare familiarità con la natura della mente attraverso la pratica» (32).

In altre parole, per ottenere la liberazione è necessario avere familiarità con gli stadi del Bardo oppure, ed è veramente quello che conta, avere un certo grado di consapevolezza, vale a dire avere l'esperienza della nostra vera natura.
d) È possibile sperimentare lo stato del Bardo senza la morte? Le istruzioni riportano che lo yoga del sogno e lo yoga del sonno sono la migliore preparazione al Bardo; con queste tecniche possiamo abituarci a una continuità di consapevolezza ininterrotta tra la vita da svegli, il sogno e il sonno, per poter così rimanere consapevoli anche durante lo stato del Bardo.
Naturalmente durante la morte gli stati di coscienza sono più profondi ma, sperimentandoli in vita, possiamo comprendere le analogie fra i corrispondenti livelli di coscienza. 

Le analogie indicate dai Maestri sono:
-entrare nel sonno è simile al bardo del morire; si dissolvono i processi mentali e si ha l'esperienza della Chiara Luce;
- sognare è simile al bardo del divenire. Il corpo mentale, chiaroveggente e mobile, ha ogni sorta di esperienza così come nel sogno il corpo sottile vive tutte le esperienze della vita di sogno;

- il momento antecedente all’entrata nel sogno corrisponde allo stato dopo la morte; in esso c'è una luminosità simile al bardo della dharmatà, ma è difficile riconoscerla.
e) Approfondendo lo schema ciclico dell"'Introduzione" osserviamo che:

- il nostro principio cosciente, dopo il distacco dal corpo fisico fino all'apparizione della Chiara Luce Primaria, percorre, più o meno brevemente, la "via del ritorno", si interiorizza; passa infatti dal corpo fisico al corpo causale;

- continuando il percorso, dopo la scomparsa della Chiara Luce Secondaria, il principio cosciente inizia la "via della discesa", si esteriorizza, prendendo in successione il corpo buddhico, quello mentale, fino ad entrare nel corpo fisico;

- la "via del ritorno" dev’essere preparata in questa vita; è necessario raggiungere la consapevolezza qui ed ora, quella maturità coscienziale che ci permetta di sperimentare e riconoscere la Chiara Luce, oppure di riconoscere le visioni delle divinità nel Chonyid bardo, oppure, in ultima analisi, ottenere la rinascita in un luogo adatto alla liberazione. Alla morte, se non si comprende che tutto è un sogno, abbiamo due possibilità: la liberazione oppure la rinascita. Si ricordi, però, che il rinascere in qualsiasi forma, anche come dio, è dolore perché vivere vuol dire divenire, e il divenire è l'ombra dell'essere. Il Bardo non prevede premi o castighi, ma soltanto la liberazione o la rinascita, e la scelta dipende solo da noi stessi.

- Il ciclo completo dell'esistenza viene rappresentato con il bhavachakra, la Ruota della Vita, o delle Esistenze, immagine usata per visualizzare il ciclo dell'esistenza senza inizio e senza fine.

Ricapitolando:

- l'esperienza della morte è principalmente un fenomeno interiore, quindi il vero problema non è conoscere il ‘Thodrol’, cosa relativamente facile, ma è la capacità di rimanere nello stato di "consapevolezza" o di "equanimità", oppure, almeno di "distacco", cioè non reagire emotivamente alle visioni; vivere lo stato di "pura consapevolezza" è il punto essenziale dell'esperienza;

- se in nessuno degli stati intermedi siamo riusciti ad ottenere la liberazione, ci ritroviamo al punto di partenza; iniziamo così una nuova esistenza, condizionati dal karma a prendere un corpo;

- la nostra vita non ha alcun senso, è un'esistenza sprecata se non ci chiediamo per quale ragione dobbiamo seguitare a "girare", e in che modo possiamo uscire dalla ruota della rinascita;

- nel Bardo, a eccezione del Dharmakaya, nessuna visione è reale; sperimentiamo soltanto fenomeni illusori, percepiti in forma simbolica, della nostra energia karmica.
Da tutto ciò possiamo trarre il più vero e profondo insegnamento: nel Bardo sperimentiamo un sogno, non c'è nessuno che muore: la morte non è reale; esiste solo per i nostri involucri, non per la nostra vera natura.

 

NOTE:

1) Padmasambhava dai Tibetani è considerato il Maestro che incarna il principio cosmico atemporale, il Maestro universale.

2) Il Bardo deve essere studiato e meditato durante tutta la vita in modo da poter riconoscere gli stati intermedi, comprenderne il senso ed imparare il meccanismo che ci può portare alla liberazione.

3) II principio cosciente o riflesso di coscienza o coscienza dell'essere o jiva, rappresenta la Coscienza universale nel piano della manifestazione formale, ossia della molteplicità, quindi della dualità e del "senso dell'io".

4) Liberazione: significa aver raggiunto la nostra "vera natura" o "pura Consapevolezza", ed essersi liberati dal ciclo delle nascite e delle morti; si raggiunge quando abbiamo compreso che tutto ciò che percepiamo, sono solo "fenomeni" che non hanno realtà propria. In altre parole significa passare dal "divenire" all"'Essere".

5) Lama: maestro spirituale, titolo che spetta a un individuo con elevata realizzazione.

6) Karma: azioni che oscurano la nostra pura Consapevolezza; ogni azione (causa) è il "seme" che produrrà in futuro il suo "frutto" (effetto), quando ci saranno le condizioni favorevoli alla sua attuazione. 

Karma non significa che la vita è predeterminata, ma che le condizioni attuali sono determinate dalle nostre azioni passate. Il karma non dipende né dal tempo né dallo spazio. Spesso pensiamo che per purificare il nostro karma occorrano molte vite. Se potessimo materializzare il nostro karma lo vedremmo grande come una montagna. Ma il karma non è una quantità materiale, non dipende dall'esterno, ma solo dagli ostacoli che ne impediscono la conoscenza.

Namkhai Norbu in ‘Dzog-Chen’, cap. "Il valore della trasmissione"(Ubaldini Editore, Roma) scrive: «Se paragoniamo il karma ad una stanza buia, e la conoscenza della nostra vera natura ad una lampada, appena accendiamo la lampada il buio in un attimo scompare. 

Allo stesso modo, se possediamo la conoscenza della nostra vera natura, in un attimo possiamo superare tutti gli ostacoli». Non è il karma in sé a legarci alla ruota delle rinascite, ma il nostro desiderio per il frutto dell'azione; quindi, la liberazione è ottenuta quando le nostre azioni (o reazioni) sono neutre, cioè libere da attrazione o repulsione. 

Secondo il Buddhismo, il karma può essere annullato:

- in virtù di un voto che devolva a beneficio altrui il merito delle nostre opere buone (bodhisattva);
- per la grazia di Amitabha, quando è invocato con fede sincera (Amitabha rappresenta la nostra pura natura ed è il simbolo della trasformazione del desiderio, che è la nostra emozione dominante);
- dalla Conoscenza che produce un cambiamento dello stato di coscienza dal piano grossolano al piano universale.

7) Vedi: Chogyam Trungpa e Francesca Fremantle, Il libro tibetano dei morti. Ubaldini Editore, Roma.

8) Skanda: aggregati energetici che compongono la individualità nel samsàra, (forma, sensazione, percezione, impressioni, coscienza) e che costituiscono il sostegno per l'attaccamento dell'io. Sembra che gli skanda si dissolvano dopo la morte, ecco perchè il ricordo delle esperienze personali non si trasmette nella vita successiva (Christmas Humphreys, Dizionario Buddhista. Ubaldini Editore, Roma).

9) Visione karmica: è il modo in cui percepiamo il mondo, in relazione ai semi karmici accumulati che condizionano le nostre esperienze. I Maestri citano quest'esempio: alcune persone si incontrano sulle rive di un fiume. Il primo vede l'acqua come liquido per bere e per lavarsi; il secondo la vede come liquido che contiene pesci da mangiare; il terzo la vede come liquido per l'irrigazione che arrecherà benessere; il quarto la vede come un'arma. L'acqua è una sola, ma i modi di percepirla sono diversi, a dimostrazione che le visioni karmiche sono illusorie.

10) Shunyatà: Lo stato di coscienza senza qualificazioni; è la coscienza dell'unità indifferenziata, non divisa fra soggetto ed oggetto, che riposa completamente in se stessa.

11) Dharmatà: La natura intrinseca di tutte le cose; è la sperimentazione senza colorazione, durante il Chognyid bardo, delle manifestazioni spontanee delle energie dei nostri componenti (gli elementi sottili, skanda, sensi, ecc); è l'essenza delle cose così come sono. La dharmatà è la nuda verità incondizionata, la vera natura dell'essenza fenomenica.

12) ‘Il libro tibetano del vivere e del morire’. Ubaldini Editore, Roma.

13) Sat-cit-ananda, i tre aspetti della Realtà, coessenziali ed indissolubili: l'Essere è Coscienza ed è Beatitudine. Brahman-Turiya è la radice del sat-cit-ananda, ed lshvara ne è la manifestazione concreta. Ogni conoscenza-esistenza-relativa rispecchia sat-cit-ananda in proporzione al proprio grado di realtà (Da Glossario Sanscrito a cura del Gruppo Kevala. Edizioni Asram Vidyà, Roma).

14) Cfr. Glossario Sanscrito a cura del Gruppo Kevala. Op. citata.

15) Rinascita: l'effetto di un desiderio che impulsa per essere soddisfatto; la libertà dalla rinascita si ottiene con la estinzione di questo desiderio; in altre parole, la rinascita dipende dal karma non risolto delle vite precedenti.

16) Raphael, ‘Di là dal dubbio’, cap. "Post-mortem e Bardo Thodrol". Edizioni Ashram Vidya, Roma.

17) Distacco: si ha quando un veicolo perde la capacità di fare da supporto al principio cosciente e viene sostituito da un altro veicolo.

18) Gli organi di percezione (jnanendriya) sono la pelle, orecchie, occhi, naso, lingua; gli organi di azione (karmendriya) sono gli organi della parola, le mani, gli organi di locomozione, di escrezione e di generazione.

19) Randrol Nelgyor, ‘Guida al libro tibetano dei morti’ (a cura di Giuseppe Baroetto), cap. "Prima del trapasso". Edizioni Promolibri Manganelli.

20) lbidem: Cap. "Il momento della morte".

21) Sembra che nel Bardo il tempo corrisponda a quello che si esperimenta negli stati sottili di sogno.

22) Randrol Nelgyor, Guida al libro tibetano dei morti, a cura di Giuuseppe Baroetto, cap. "Suoni, luci e raggi". Ediz. Promolibri Manganelli.

23) I cinque "elementi sottili" che costituiscono il nostro corpo, Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Etere, non vanno considerati come sostanze ordinarie, ma in termini di energia a vari gradi di condensazione che possiedono le qualità degli elementi; essi si dissolvono gradualmente uno nell'altro; ad ogni stadio di dissolvimento sperimentiamo luci, colori e suoni collegati agli elementi.

24) Randrol Nelgyor. Op. e cap. citati
25) Ibidem.
26) Ibidem.
27) lbidem, cap. "Per non rinascere".
28) lbidem.
29) lbidem.

30) Samsàra: il mondo del mutamento e dell'incessante divenire in cui viviamo. Il samsàra comprende i sei regni dell'esistenza karmica, o le sei modalità di esistenza degli esseri intrappolati dalle illusioni dell'ignoranza e della dualità. Il samsàra termina con la liberazione. Il Buddhismo lo rappresenta con la "Ruota della vita" per indicare l'eterno ciclo del divenire, il continuo passaggio per diversi stati di coscienza.

31) La "natura della mente" (rigpa) è la pura consapevolezza.

32) Tsele Natsok Rangdral, in Mirror of Mindfulness. Shambhala, Boston 1989. Citato da Sogyal Rinpoche ne ‘Il libro Tibetano del vivere e del morire’, cap. 14: "Le pratiche per morire". Ubaldini Editore, Roma.