venerdì 29 luglio 2022

Per Em Hru: il Libro Egizio dei Morti


Nefertiti - Per Em Hru 


Per Em Hru: il Libro Egizio dei Morti


Lo scopo di tutti i libri dell’altro mondo era di fornire ai morti una “Guida” o “Manuale”, che conteneva una descrizione delle regioni attraverso le quali le loro anime avrebbero dovuto passare per il loro regno nel regno di Osiride, o a quella parte del cielo in cui sorgeva il sole, e che avrebbe fornito loro le parole di potere e i nomi magici necessari per fare un viaggio senza ostacoli da questo mondo alla dimora dei beati.

Per un periodo di duemila anni nella storia dell’Egitto, i Libri dell’Altro Mondo consistevano solo di testi, ma intorno al 2500 a.C. gli artisti funebri iniziarono a rappresentare in modo pittorico le principali caratteristiche del “Campo della Pace”, o “Isole dei Beati”, e prima della fine della XIX dinastia, circa 1300 anni dopo, tutti i principali libri relativi al Tuat furono ampiamente illustrati.

Nelle loro copie che erano dipinte sui muri delle tombe reali, ogni divisione del Tuat era chiaramente disegnata e descritta, e ogni porta, con tutti i suoi guardiani, era accuratamente raffigurata. Sia i vivi che i morti potevano imparare da loro, non solo i nomi, ma anche le forme, di ogni dio, spirito, anima, ombra, demone e mostro che avrebbero potuto incontrare sulla loro strada e i copiosi testi che furono dati fianco a fianco con le immagini che consentivano al viaggiatore attraverso il Tuat – sempre, ovviamente, purché le avesse imparate – di partecipare ai benefici che erano stati decretati dal dio Sole per gli esseri di ogni sezione di esso.



Nei tempi primitivi ogni grande città d’Egitto possedeva il proprio Altro Mondo e, senza dubbio, i sacerdoti di ogni città fornivano agli adoratori dei loro dei “opportune” guide per la dimora dei suoi morti. All’inizio del periodo dinastico, tuttavia, scopriamo che il culto di Osiride era estremamente popolare, e quindi era naturale che un gran numero di persone in tutte le parti dell’Egitto dovesse sperare e credere che le loro anime dopo la morte sarebbero andate nel regno nell’altro mondo su cui regnò. 

Le credenze legate al culto di Osiride si svilupparono naturalmente dalle credenze degli egiziani predinastici, che, abbiamo tutti i motivi per pensare, trattarono in gran parte della magia sia “Nero”    che “Bianco”. 

Molte delle superstizioni, e la maggior parte delle idee fantastiche e semi-selvagge sugli dei e sui poteri soprannaturali racchiuse nella grande raccolta di testi religiosi chiamati PER-EM-HRU, furono ereditate dagli egiziani dinastici da alcuni dei più antichi abitanti del Valle del Nilo. 

Coloro che morirono nella fede di Osiride credettero nell’efficacia del libro PER-EM-HRU e si accontentarono di impiegarlo come “Guida” per un paradiso pieno di delizie materiali; il numero di coloro che erano “seguaci” di Osiride era molto grande sotto ogni dinastia in Egitto. 

D’altra parte, dalla IV dinastia in poi c’era una classe molto grande che non credeva in un paradiso puramente materiale e, stando così le cose, non sorprende che i Libri dell’Altro Mondo contenenti l’espressione delle loro opinioni debbano essere composti.



I principali libri degli Inferi in voga sotto la XVIII e XIX dinastia furono:
1. PER-EM-HRU, o, “[Il libro] dell’uscire di giorno”. 
2. SHAT ENT AM TUAT, o “Il libro di ciò che è nel Tuat”. 
3. La composizione a cui è stato dato il nome “Libro delle porte”. 
Ora il primo di questi, che è comunemente noto come “La recessione tebana del Libro dei morti”, ci ha fornito molte preziose informazioni sulle credenze che fiorirono in connessione con una forma antica dell’antico culto di Osiride nel Delta, e con la forma successiva del suo culto, dopo aver assorbito la posizione e gli attributi di Khenti-Amenti, una vecchia divinità locale di Abydos. 

Gli altri due libri, tuttavia, sono importanti, ciascuno a modo suo, come il “Libro dei morti”, poiché gettano una notevole luce sullo sviluppo degli elementi materiali e spirituali nella religione dell’Egitto e commemorano la credenza nell’esistenza di numeri di dei primitivi, che sono sconosciuti al di fuori di questi libri. 

Il “Libro Am-Tuat”, nella forma in cui lo conosciamo, è stato redatto dai sacerdoti della confraternita di Amen-Ra a Tebe, con l’obiettivo esplicito di dimostrare che il loro dio era il signore di tutti gli dei, e il potere supremo in “Pet Ta Tuat”, o, come dovremmo dire, “Cielo, Terra e Inferno”. 

Il Tuat, o altro mondo, che immaginavano includeva il Tuat di ogni grande distretto dell’Egitto, vale a dire, il Tuat di Khenti-Amenti ad Abydos, il Tuat di Seker di Memphis, il Tuat di Osiride di Mendes e il Tuat di Temu-Kheper-Ra di Heliopolis.

Nel LIBRO AM-TUAT il dio Amen-Ra fu fatto passare attraverso tutti questi Tuat come il loro signore e dio, ei suoi sacerdoti insegnarono che tutti gli dei dei morti, incluso Osiride, vivevano attraverso le sue parole e che gli esseri del Tuat di cui godevano ogni giorno erano dovuti alla sua grazia e alla sua luce durante il suo passaggio attraverso le loro regioni e Circoli. 

Inoltre, secondo i dogmi dei sacerdoti di Amen-Ra, solo quelli che furono abbastanza fortunati da assicurarsi un posto nella corteccia divina del dio poteva sperare di attraversare il Tuat incolume, e solo quelli che erano i suoi eletti avevano la certezza di rinascere quotidianamente, con una nuova scorta di forza e vita, e di diventare di natura e sostanza simili con lui.



Dettaglio del Papiro di Ani, copia del "Libro dei morti" risalente alla XIX dinastia egizia (1250 a.C. circa).
Il Papiro di Ani è riccamente illustrato: qui, l'anima di Ani è condotta per mano dal dio egizio Horus

Il Libro dei morti è un antico testo funerario egizio, utilizzato stabilmente dall'inizio del Nuovo Regno (1550 a.C. circa) fino alla metà del I secolo a.C. Il titolo originale del testo, traslitterato ru nu peret em heru, è traducibile come Libro per uscire al giorno(altra possibile traduzione è Libro per emergere dalla luce). 

Il Libro dei morti si inserì in una tradizione di testi funerari che include i ben più antichi cosiddetti testi delle piramidi, tipici dell'Antico regno (XXVII–XXII secolo a.C.) e i cosiddetti Testi dei sarcofagi' risalenti al Primo Periodo Intermedio e al Medio regno (XXI–XVII secolo a.C.), che erano appunto inscritti su pareti di camere funerarie o su sarcofagi, ma non su papiri. 

Alcune delle formule del "Libro dei morti" derivano da tali raccolte precedenti, altre furono composte in epoche successive della storia egizia, risalendo via via al Terzo periodo intermedio (XI–VII secolo a.C.). I papiri delle varie copie del Libro dei morti, o di parte di esso, erano comunemente deposti nei feretri insieme alle mummie nell'ambito dei riti funebri egizi.

Non vi fu mai un'edizione canonica e unitaria del Libro dei morti e non ne esistono due esemplari uguali: i papiri conservatisi contengono svariate selezioni di formule magiche, testi religiosi e illustrazioni. Alcuni individui sembrano aver commissionato copie del tutto personali del Libro dei morti, scegliendo probabilmente, con una certa libertà, frasi e formule che ritenevano importanti per il proprio accesso nell'aldilà. 

Il Libro dei morti era quasi sempre redatto in caratteri geroglifici o ieratici su rotoli di papiro, e talvolta decorato con illustrazioni o vignette (aventi, talvolta, un notevole valore artistico oltreché archeologico e paleografico) del defunto e delle tappe del suo viaggio ultraterreno.

Vita dopo la morte

La natura della vita di cui il defunto avrebbe goduto dopo la morte è difficile da definire a causa delle differenti tradizioni all'interno del pensiero religioso egizio. Nel Libro dei morti lo spirito è condotto al cospetto di Osiride, che era confinato a regnare nel sotterraneo Duat, il mondo dei morti. 

Alcune formule avrebbero dovuto aiutare il ba e l'akh del morto a congiungersi con Ra nel suo attraversamento del cielo sulla barca solare, e a sconfiggere il perfido demone Apopi (Formule 100–2, 129–131, 133–136. Nel Libro dei morti il defunto è inoltre rappresentato mentre accede ai Campi dei giunchi (Aaru), una "copia paradisiaca", perfetta e felice della vita terrena (Formule 109–10, 149]

Il morto si sarebbe trovato al cospetto della Grande Enneade: gli dei Atum, Shu, Geb, Osiride, Seth e le dee Tefnut, Nut, Iside e Nefti. Sebbene la vita nei Campi dei giunchi sia rappresentata come gioiosa e opulenta, è anche evidente che le anime avrebbero dovuto svolgervi tutti i lavori manuali della vita in terra: per questi motivo le tombe erano riempite con decine o centinaia di statuette (ushabti) di servitori ricoperte di formule, incluse nel Libro dei morti, perché svolgessero ogni attività manuale al posto del defunto che le possedeva. 

È chiaro che il defunto non si sarebbe limitato ad accedere in un luogo dove, secondo la concezione egizia, risiedevano le divinità, ma che egli stesso si sarebbe trasformato in un'entità divina; vari passaggi del Libro dei morti menzionano il morto come "[nome] l'Osiride".

Il tragitto per il mondo dei morti descritto dal Libro dei morti è particolarmente irto di difficoltà e insidie. Il defunto avrebbe dovuto superare una serie di cancelli, caverne e colli sorvegliati da divinità sovrannaturali: terrificanti entità armate di lunghi coltelli, raffigurate in forme grottesche (uomini dalle teste d'animali minacciosi, oppure feroci chimere d'aspetto orrendo) I loro nomi, per esempio "Colui che vive sui serpenti" o "Colui che danza sul sangue", sono egualmente grotteschi. 

Queste creature avrebbero dovuto essere ammansite recitando apposite formule contenute nel Libro dei morti: una volta pacificate non avrebbero più costituito una minaccia per lo spirito, anzi l'avrebbero protetto a loro volta. Altre creature sovrannaturali che il defunto avrebbe incontrato erano i "Macellatori", incaricati di massacrare i malvagi per conto di Osiride: il Libro dei morti indicava il modo migliore per non destare la loro attenzione. Anche comuni animali terrestri avrebbero costituito una minaccia per i defunti lungo il cammino per l'aldilà: coccodrilli, serpenti, scarafaggi

Suddivisione

Quasi ogni copia del Libro dei morti era un pezzo unico, poiché conteneva una commistione di formule scelte dal corpus di quelle disponibili a discrezione del committente e proprietario. Per la maggior parte della storia del Libro dei morti non esisté una struttura ordinata e definita. Difatti, prima dello studio pionieristico condotto dall'egittologo francese Paul Barguet nel 1967 sui temi ricorrenti fra i testi, gli egittologi erano dell'opinione che non esistesse alcuna struttura interna al Libro dei morti. 

Solo a partire dal "periodo stico" (VI secolo a.C.) si ebbe un'ordinata suddivisione del testo. A partire dalla "recensione saita" i Capitoli del Libro dei morti vennero generalmente suddivisi in quattro sezioni:

Capitoli 1–16: il defunto è posto nella tomba e discende nel Duat: contemporaneamente, il suo corpo mummificato si riappropria della facoltà di muoversi e parlare.

Capitoli 17–63: spiegazione della origine mitica degli dei e dei luoghi; il defunto torna a nuova vita così da poter sorgere e rinascere con il sole mattutino.

Capitoli 64–129: il defunto percorre il cielo sulla barca solare; al tramonto raggiunge l'oltretomba per comparire di fronte a Osiride ed essere giudicato.

Capitoli 130–189: essendo stato giudicato degno, il defunto prende potere nell'universo come uno degli dei. La sezione include inoltre vari capitoli sugli amuleti protettivi, sulle provviste di cibo e su luoghi 
importanti.

Il Libro dei morti (EA 10793/1) di Pinedjem II, sommo sacerdote di Amon (ca. 990–969 a.C.), intento, a destra, a presentare offerte a Osiride. British Museum, Londra.

venerdì 22 luglio 2022

La sessualità come esperienza del divino


Maithuna Ho Ya 

 


Il vissuto sessuale quale parametro evolutivo
(Paolo Lissoni La Via per una Sessualità Spirituale)

Nello stato di natura, vale a dire nella condizione dell’uomo comune e della donna comune come divenuti sulla base della semplice evoluzione biologica darwiniana, non è possibile nessuna reale esperienza spirituale attraverso la sessualità: come mirabilmente intuito da Freud, e sinteticamente già preconizzato dallo stesso sant’Agostino, lo psichismo sessuale è sotto il potere dell’inconscio, che rappresenta l’opposto dello spirito, essendo lo spirito per definizione principio supremo di ogni possibile auto-coscienza.

Nessuna considerazione può essere fatta indipendentemente da una visione antropologica, la quale non è quasi mai esplicitata in modo evidente, ma è in ogni caso sempre e comunque presente, se non altro in forma implicita subliminare. La sola visione antropologica che consenta una riflessione sul divenire futuro dell’umanità è quella della persona umana quale unità di una trinità, costituita da corpo fisico, psiche (o anima) e spirito – intendendo per spirito non un’emozione forte né un pensiero elevato, bensì e solo l’autocoscienza d’amore.

Ora, partendo da una visione trinitaria della persona umana, emerge che, allo stato attuale dell’evoluzione, la donna è femmina nella psiche e maschia nello spirito, ragion per cui la spiritualità nella donna comune si manifesta solamente come razionalità, la quale, in realtà, non è che la parte più marginale e periferica della dimensione spirituale, nel senso che la razionalità non è che un ibrido fra psiche e spirito, non un principio puro.

Allo stesso modo, secondo l’attuale evoluzione biologica della specie umana, l’uomo è maschio a livello psichico e femmina nello spirito, ponendosi come tale a ricettacolo dello spirito, quasi che lo
spirito fosse una realtà esterna a se stesso e non l’essenza ultima di se stesso.

Tutto evolve e si trasforma, ma sopra ogni cosa è la sessualità a mutare ed evolvere nel tempo, al punto che ogni altro cambiamento nel divenire storico dell’umanità riguardante la cultura, la morale o altro, non è che la conseguenza di una modifica nel modo di vivere e concepire la sessualità rispetto alla identità ultima di se stessi in quanto specie umana.

All’opposto, la cultura dell’Occidente sembra considerare qualsiasi cambiamento nel divenire storico e biologico del genere umano tranne proprio quello della sessualità, della quale si osservano solamente gli aspetti più formali ed esteriori, vale a dire la sua componente quantitativa e morale, ragion per cui si ritiene implicitamente che la dinamica psico-relazionale eccitatoria sessuale non possa essere mutevole nel tempo, ma sempre identica a se stessa – dall’homo sapiens sino al santo in Cristo –, come se la sessualità fosse la sola realtà della vita umana destinata a essere sempre uguale malgrado il trascorrere del tempo, delle culture e, in definitiva, delle civiltà.

Da un’attenta analisi fenomenologica dell’identità umana, risulta invece evidente che tutti i cambiamenti nella struttura psichica e culturale dell’umanità non sono che gli effetti parziali di un lento ma progressivo passaggio da una sessualità sottoposta al dominio dell’Inconscio a una sessualità totalmente modulata dallo spirito, quindi dallo stato di amore spirituale, poiché lo spirito è amore, dal momento che Dio è amore e Dio è spirito, quindi per semplice proprietà transitiva lo spirito è amore.

La condizione della futura identità umana e, di conseguenza, della sua sessualità è sintetizzata nelle parole stesse di Gesù Cristo secondo quanto riferito nel ventiduesimo dei 114 Detti di Gesù, costituitivi del testo similcanonico del Vangelo di Tommaso, là ove viene affermato:
«Se cambierete l’alto con il basso e la sinistra con la destra e farete del maschio e della femmina in voi un solo essere, allora entrerete nel Regno dei Cieli». 
Il cambiamento nella relazione fra psiche e spirito in ogni persona umana (corrispondenti rispettivamente al principio femminile e maschile in ogni individuo umano), viene pertanto posto da Cristo non quale semplice estetismo, bensì quale condizione essenziale e presupposto per l’accesso al Regno di Dio, quindi è ciò che deve essere fatto se vogliamo che l’idea umana di santità corrisponda pienamente al criterio di santità suggellato da Cristo stesso.

La santità in Cristo presuppone pertanto un doppio cambio nella polarità psichica e spirituale, sia per l’uomo che per la donna. Viene così a configurarsi quella che sarà fenomenologicamente la struttura
del nuovo uomo e della nuova donna, la cui genesi dipende esclusivamente dalla centralità dell’amore a imitazione di Cristo, il quale, in ultima analisi, corrisponde all’essenza stessa di Cristo. 

Per effetto dell’intensità di un tale amore, ciò che è maschile diviene femminile e ciò che è femminile diviene maschile, per cui in definitiva il nuovo uomo o l’uomo del futuro sarà maschio nel corpo fisico, femmina nella psiche e maschio nello spirito e, allo stesso modo, la nuova donna o la donna del futuro sarà femmina nel corpo fisico, maschia nella psiche e femmina nello spirito, ragion per cui la vera mascolinità e la vera femminilità non risiedono nell’anima, ma nello spirito.

Essere maschio nello spirito significa identificarsi nella sola coscienza d’amore, in forza del quale essere dominante sopra ogni altra dominazione per irradiazione magnetica della medesima potenza d’amore. E allo stesso modo, essere femmina nello spirito significa essere ancella della divina gioia, che è il fondamento medesimo della realtà esistente, concepita dall’amore e per la gioia di essere.

Il primo e fondamentale sposalizio è quindi quello interiore fra il maschio e la femmina in ognuno di noi, vale a dire fra lo spirito e l’Anima, in assenza del quale non è possibile nessuna nuova reale sessualità fra l’uomo e la donna, il cui presupposto è appunto quello del cambiamento della identità maschile e femminile dal livello psichico, come nella specie umana attuale, a quello spirituale, come sarà nella futura umanità trasmutata e trasfigurata dall’amore che è il solo vero Cristo, l’unigenito di Dio.

Le nuove nozze chimiche nasceranno in definitiva dall’unione fra un uomo che sia già maschio a livello spirituale con una donna che sia già femmina a livello spirituale. Due sono pertanto le tipologie di matrimonio: quella legata alla dimensione psichica e quella legata alla dimensione spirituale. Trasferita la propria identità sessuale dal piano psichico a quello fondato sulla dimensione spirituale, allora e solo allora sarà possibile nell’amore fra uomo e donna riscrivere il proprio passato, l’uomo per la donna e la donna per l’uomo.

La sessualità da bisogno a esperienza del divino

Per l’attuale umanità, ancora lontana dal vivere in se stessa nel proprio cuore fisico l’amore di Cristo, la relazione fra uomo e donna è dettata fondamentalmente dal bisogno e, di conseguenza, tutti – dai sapienti ai meno colti – ragionano in termini di avere ancora bisogno o no di una relazione d’amore. Le persone portate al misticismo riflettono addirittura in termini di relazione fra uomo e donna come realtà storica transitoria, da dover superare e destinata a essere escatologicamente superata. 

Ovviamente ognuno, a secondo della sua cultura e della sua morale, darà più importanza a un aspetto o a un altro della vita relazionale fra uomo e donna. Ma, ponendosi nella condizione della neutralità cosciente della coscienza, dobbiamo prendere atto che esistono tre dinamiche di bisogno nella relazione
fra uomo e donna:
1. il bisogno pulsionale sessuale;
2. il bisogno affettivo di sentirsi amati;
3. il bisogno esistenziale, cioè l’avere una compagnia nel cammino
della propria vita e per i motivi più vari, dalla condivisione cul-
turale alla compartecipazione economica.
I tre tipi di bisogno sono sempre presenti in ogni tipo di relazione fra uomo e donna, seppur in percentuali diverse. Ovviamente, a seconda della propria strutturazione etico-culturale, ognuno darà più importanza a un tipo di bisogno, ma, dal punto di vista della pariteticità delle opinioni, ogni tipo di bisogno va considerato di uguale dignità, cioè dello stesso valore axiologico.

L’opposto della sessualità come bisogno non è la non sessualità, come in genere si tenderebbe implicitamente a credere, bensì una nuova sessualità, cioè un nuovo tipo di relazione fra uomo e donna
non più dettata dal bisogno, qualunque esso sia, ma da un nuovo criterio, lo stesso che fu all’origine della creazione dei sessi in Dio: quello di essere l’uomo per la donna e la donna per l’uomo specchio della vita e della vera identità di Dio stesso. 

Il motivo di questo è semplicemente legato al fatto che l’angelica, sublime e definitiva  metamorfosi dell’umana specie è realmente vivibile e conseguibile per volontà stessa di Cristo solamente attraverso un nuovo modo di   concepire e vivere la relazione fra uomo e donna e in nessun modo dal singolo sesso, uomo o donna che sia, pur grande che possa essere la loro santità. 

In altre parole, una volta che sia stato trasceso il bisogno della sessualità, spontaneamente o attraverso adeguate tecniche yogiche quali innanzitutto il Krya Yoga, una volta che si sia superato perfino l’umano bisogno di essere amati e, infine, una volta che si sia giunti dopo mistiche ascesi alla santità della singola persona, uomo o donna, il sigillo supremo dell’accesso alla vera vita dei Cieli torna a essere potere unicamente della relazione fra uomo e donna, di una nuova tipologia di relazione, non più dettata dal bisogno, ma dalla reinterpretazione in Dio del significato stesso dell’amore fra l’uomo e la donna quale sola vera comunicazione con Dio, con il Dio Trinità, come Dio è realmente in Se stesso al di là di ogni deformazione dettata dai pensieri e dalle emozioni umane.

Duemila anni e più di repressione della sessualità o di superamento della sessualità come bisogno pulsionale non hanno santificato l’umanità, ma l’hanno, all’opposto, portata sul baratro dell’auto distruzione.

Per nuova sessualità si intende la trasformazione della sessualità da semplice pulsione sottoposta al potere dell’immaginazione in- conscia in espansione della coscienza spirituale, la più alta vivibile sulla Terra quale Eden ritrovato ed eternalizzato nello stato dell’a more di Cristo. 

La nuova sessualità non deve limitarsi a essere una concezione intellettualisticamente perfetta, ma in definitiva utopica ed esistente potenzialmente solo in astratto, bensì deve essere vissuta e compresa sino al punto da essere tradotta in regole, le regole appunto della trasformazione scientifica della sessualità da pulsione in amplificazione massimale del medesimo amore divino.

E la prima di queste regole è in rapporto alla presenza o no di unvissuto d’amore simile a quello del sentire di Cristo, dal momento che, senza un tale tipo di amore, la sessualità resta una semplice pul-
sione, pulsione piacevolissima ma pur sempre pulsione inconscia e, come tale, antitetica alla vita dello spirito autocosciente.

Pertanto, l’ipotesi di una nuova sessualità, non più sottoposta al potere dell’Inconscio ma all’amore spirituale, presuppone quale requisito sine qua non il vivere già in sé per partecipazione l’amore stesso di Cristo o, quanto meno, anelare a esso come al bene e alla verità più grandi. In ogni caso, due sono le problematiche enigmatiche cui dover dare una risposta nella teorizzazione della possibilità di una nuova sessualità per l’umanità futura e le generazioni che verranno:

1. come fare coesistere nello stesso attimo lo stato d’amore spirituale con quello dell’eccitazione sessuale, non nei momenti preparatori né in quelli successivi alla relazione erotica, ma durante lo stesso rapporto.  Interrogativo, questo, che ha senso solo se per amore spirituale si intende non un semplice volersi bene emozionale, pur intenso che sia, bensì l’amore di Cristo come testimoniato dalla tradizione dei santi, vale a dire un vissuto di gioia estatica immensa associata a una compassione infinita per le miserie dell’umanità rispetto alla sua identità divina in potenza, tale da indurre un pianto irrefrenabile, che tuttavia nei secoli trascorsi sino a ora è sempre stato considerato come alternativo all’amore erotico, mentre, all’opposto, il problema non si pone neppure se per amore spirituale si intende un grande affetto o un’irresistibile attrazione. 

Il problema della coesistenza nello stesso momento fra amore estatico spirituale ed eccitazione sessuale riguarda ovviamente soprattutto l’uomo e, in definitiva, si traduce nell’avere un’erezione pur vivendo nel proprio cuore fisico una condizione celestiale d’amore, la stessa che vivono i santi nei momenti di rapimento mistico, durante il quale in genere non si ha nessun neppure vago pensiero sessuale.

2. Come fare coesistere la libertà personale dell’uomo e della donna con la loro unione spirituale che rende all’opposto inseparabili l’uno dall’altra, dal momento che l’amore che proviene dallo spirito libera l’uomo non dividendo, ma unendo. Il fatto che una nuova sessualità quale vissuto di santità spirituale possa essere concepibile solo in presenza di un amore simile al sentire di Cristo o, quanto meno, di un anelito a esso come al senso ultimo e sublime della stessa esistenza umana, limita una tale possibilità alla sola Chiesa cristiana, ragion per cui quella stessa Chiesa, che in   qualche modo aveva indotto una visione negativa del piacere sessuale e generato ogni forma di perversione e di morbosità trasgressiva, si ritrova ora a essere chiamata, proprio lei stessa e solo lei, a dare vita a un nuovo modo di concepire la dimensione sessuale rispetto a quella dello spirito.

Il primo pregiudizio da superare nel preannunciare una nuova sessualità riguarda innanzitutto la definizione stessa dell’identità sessuale, che da duplice, come da parte di tutti si ritiene, vale a dire           fisico-anatomica e psico-sessuale, viene reinterpretata come trina, esistendo anche un’identità sessuale a livello spirituale. 

In definitiva, nella persona umana si hanno tre tipi di identità sessuale: quella legata al sesso fisico, quella in relazione all’orientamento psico-sessuale e, infine, quella a livello spirituale, e questo secondo tre diversi livelli gerarchici, tali per cui l’identità a un livello superiore è dominante su quella a un livello inferiore, ragion per cui l’identità psico-sessuale sarà dominante su quella anatomica e,di conseguenza, se un uomo si sente psichicamente donna e una donna psichicamente uomo, si avrà un orientamento attrattivo verso il proprio sesso. 

Ma, a sua volta, l’identità sessuale spirituale è dominante su quella psichica e si identifica con quella fisico-anatomica, ragion per cui il comportamento omosessuale non è una variabile ineluttabilmente stabilita, bensì è un vissuto psichico perfettamente reversibile, ma solo in presenza di un risveglio spirituale e veramente spirituale è solo l’apertura del cuore all’amore nel modo in cui Cristo amava, amore effuso nel cuore di ogni persona umana per opera dello Spirito Santo. 

Infatti, nella nuova Sessualità non ha più nessuna rilevanza il passato con i suoi vissuti sessuali, le sue sofferenze e i suoi psichismi eccitatori, bensì riguarda unicamente il futuro a partire dalla condizione del presente e per tutti, da qualunque condizione psichica si parta, la meta non è che quella di vivere nell’unità fra uomo e donna l’amore stesso di Dio, che caratterizza la condizione angelica della vita del Paradiso.

Né la razionalità, né l’etica potranno mai cambiare il vissuto sessuale, bensì solo reprimerlo o soffocarlo, poiché solo l’amore spirituale può modificarne la matrice inconscia e riprogrammarne il senso.                    

Ma l’amore rappresenta esattamente la variabile suprema in grado di caratterizzare e sintetizzare l’essenza medesima della vita di una persona. La sola vera differenza fra gli esseri umani non è nella cultura, né nell’intelligenza più o meno geniale, né tanto meno nella posizione sociale, bensì e solo nella profondamente diversa intensità nella capacità di amare, la quale a sua volta non dipende né da capacità meritorie individuali, né dall’osservanza di una dottrina o dall’applicazione di una qualche tecnica para-iniziatica particolare più o meno segreta, bensì e solo dal libero lasciarsi conformare e plasmare dall’amore di Cristo, che non si genera nell’uomo stesso ma è sempre e solo conferito dall’Alto. 

Il valore della scelta individuale risiede unicamente nel riconoscere o no questo amore quale valore supremo di ogni libertà, di ogni gioia e di ogni sapienza. Chinon conosce l’amore e lo rifiuta teme una tale radicale verità sulla differente capacità di amare quale sola vera differenza fra gli esseri umani, perché essa viene a infrangere il fragile mito dell’uguaglianza  in dignità fra gli umani, dal momento che la sola vera dignità è quella dello spirito e la dignità spirituale deriva a sua volta solo dal grado di anelito all’amore come al senso più alto della propria esistenza. 

Tutte le psicologie del mondo negano o meglio fingono di non considerare il criterio dell’amore per perdersi invece in emozioni e pensieri, che altro non sono se non semplici e mutevoli maschere, rispetto cui le persone umane sono sostanzialmente identiche fra loro. 

Un’eventuale differente dignità spirituale viene riconosciuta dal mondo al massimo solo in relazione alla presenza o meno di principi etici, maanche l’etica è una maschera, mentre solo l’amore è condizione eterna della identità di una persona lungo il cammino della sua esistenza. La centralità dell’amore a imitazione di Cristo nella genesi di una nuova futura sessualità non ha motivazioni religiose fideistiche, scientifico-spirituali, dal momento che è solo l’amore, inteso qua le condizione di estatica compassione irradiante dal cuore fisico, a poter conferire all’uomo e alla donna un cambiamento radicale nella percezione dell’altro sesso e del suo senso rispetto all’idea d Dio. 

La sessualità fra uomo e donna non è una scelta umana, ma divina, è certamente il sommo piacere dal punto di vista umano, ma nella mente di Dio questo sommo piacere corrisponde alla stessa beatitudine del Paradiso. In altre parole, non vi è nulla di esperienzialmente più grande sul piano spirituale dell’amore sessuale fra uomo e donna nello stato di coscienza dell’amore stesso di Cristo in quanto esperienza del Paradiso perché è già vita del Paradiso e nel Paradiso dell’aldilà non vi è un amore più grande, per il semplice fatto che nell’amore in Cristo fra uomo e donna, di cui è simbolo eterno la triade costituita da Gesù Cristo, Giovanni e Maria sul Golgota, già si esprime pienamente il divino, essendo Dio solo che rende possibile l’amore.

In definitiva, “santità del sesso”, nel senso di santità attraverso la relazione sessuale fra uomo e donna, significa vivere sin d’ora anticipatamente per effetto di una infinitamente progressiva espansione del vissuto d’amore del Cristo che è in noi l’idea archetipica in Dio  dell’uomo e della donna nell’Eden prima del peccato originario. 

Vivere sin d’ora non più solo metaforicamente, ma esperienzialmente il medesimo sentire di Adamo nel momento in cui vide Eva per la  prima volta, un sentire incomparabilmente superiore rispetto a ogni altro precedente sentire dinnanzi alle pur perfette armonie del Creato, tanto da esclamare «Carne della mia carne», sentimento, questo, di identificazione assoluta d’amore, che sarà riaffermato poi anche da Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, là ove parla di appartenenza del corpo dell’uomo alla donna e del corpo della donna all’uomo, ove per appartenenza non si deve intendere il possesso, bensì la percezione perfettamente auto-cosciente di essere il corpo della persona amata la carne dell’altra parte di se stessi, per cui in definitiva nessuno è più prossimo della donna amata.

Si parla spesso a livello popolare di legame spirituale fra uomo e donna, ma il più delle volte non si va al di là di una pur nobile emozione psichica, perché l’unione spirituale fra uomo e donna è veramente tale solo nel momento in cui si giunge alla percezione di sentire il corpo della persona amata come il proprio stesso corpo, l’essere se stessa al maschile per la donna e l’essere se stesso al femminile per l’uomo. Finché non si vive un tale stato di coscienza non si può ancora parlare in senso proprio di unità spirituale fra uomo e donna, bensì e soltanto di semplice emozione empatica attrattiva.

Quando ci si interroga su quale mai possa essere stato nella storia del genere umano il complimento più bello fatto da un uomo a una donna, in genere si pensa ad autori quali Dante Alighieri o, più re-
centemente, alle parole di una canzone di un qualche autore moderno, quando invece nessuno fu più grande di Adamo nel decantare la donna in relazione all’idea originaria di Dio. 

Lo stadio supremo della santità in Cristo non è ancora quello pur grande di essere già per effetto del vivere in sé l’amore stesso di Cristo il nuovo Adamo e la nuova Eva, bensì è quello che porta a vivere una nuova relazione d’amore fra uomo e donna, a tal punto da ripresentare nel presente, sancire e vivere percettivamente ed esperienzialmente il medesimo amore fra Cristo e la sua Chiesa irradiata dallo Spirito Santo, riflesso a sua volta dello stesso amore intra-trinitario di Dio, sino quale meta suprema a esperimentare nella propria carne per dono dall’Alto il medesimo stato di essere della divina Trinità. 

Dio non è un essere esteriore a noi, ma è la sorgente della nostra vita, come non lo è l’altro sesso, che è invece carne della propria carne. Se il vero amore infuso al genere umano da Cristo nel momento della sua morte è il sentire l’altro, il prossimo, come un altro se stesso, in relazione all’al- tro sesso si traduce nella percezione dell’altro sesso come l’altra par- te di se stessi. In questa nuova relazione d’amore in Cristo l’uomo è immagine di Cristo e la donna immagine dello Spirito Santo e icona della Chiesa. 

Risulta allora evidente che una simile reinterpretazione della trasformazione in Cristo della sessualità umana presuppone una ricomprensione non solo del significato medesimo dell’opera salvifica di Cristo, ma anche e innanzitutto della Trinità di Dio, identificando infine nello Spirito Santo il principio femminile di Dio, unico modo questo per comprendere finalmente che la sessualità è inscritta dall’eterno nella stessa divina Trinità. 

Il senso ultimo della Passione di Cristo secondo il Vangelo di Giovanni non è che quello di rifondare nel proprio amore quale ul- timo atto supremo prima della morte la comunione sacra fra l’uomo e la donna, ponendola a solo vero fondamento della sua Chiesa; per cui la Chiesa di Cristo non è la semplice somma algebrica degli uo- mini e delle donne credenti in Cristo, bensì in senso cattolicamente ecclesiale è l’insieme delle relazioni fra uomo e donna che si ricono- scono in Cristo quale sorgente stessa del proprio essere. 

Ora la nuova relazione fra uomo e donna nel Cristo d’amore si compie sacramentalmente nel momento della penetrazione vaginale e questo non per motivi né naturalistici, né etico-morali, bensì e solo per il fatto di essere la vagina l’archetipo della comunicazione fra il Cielo e la Terra, in quanto via che le anime percorrono per discen- dere sulla Terra e, di conseguenza, per risalire al Cielo dello spirito eterno, da cui ogni cosa proviene. 

La santità del sesso fra storia ed escatologia Prima di Cristo la sessualità non era sacra e la donna, neppure nella massima espressione della propria affascinante sensualità, non era ancora una vera sacerdotessa. In particolare nella stessa Grecia, ma- dre di ogni filosofia, veniva negata alla sessualità fra uomo e donna una qualsiasi valenza spirituale. 

Questo in Occidente, mentre nell’e- stremo Oriente e in India la sessualità era stata da sempre vissuta come condizione simil-divina, tuttavia il più delle volte soltanto a livello teoretico-intellettualistico, concependola quale espressione dell’unione fra i due principi cosmici maschile e femminile, secon- do quindi una modalità che, di fatto, escludeva o trascendeva la soggettività psicologica e storica sia dell’uomo che della donna. Per quanto invece riguarda il vicino Oriente, certamente unica nel suo genere era la tradizione cananea, che era giunta a elaborare l’idea della donna quale sacerdotessa del sesso. 

Era questo il caso delle co- siddette “prostitute sacre” che presiedevano ai vari templi cananei, contro le quali si scagliava l’indignazione dei profeti dell’antica Isra- ele, che consideravano i riti sacri cananei come una grave forma di idolatria e temevano che questo inquinasse la vocazione alla santità del popolo ebreo. All’opposto, da Cristo in poi, il sesso è santificato e la donna viene elevata alla dignità potenziale di profetessa, quindi non solo più di semplice sacerdotessa. 

Questo solamente da Cristo in poi, ovviamente concependo Cristo non quale semplice maestro di etica, bensì come colui che ha infuso nel genere umano lo spirito stesso di Dio, che è amore. L’opera salvifica di Cristo può pertanto venire ora riformulata in forma più consona per l’uomo moderno in termini di dono all’umanità dell’amore stesso di Dio. 

Cristo è l’amore di Dio, ragion per cui l’avere donato se stesso all’umanità altro non significa che avere donato al genere umano l’amore divi- no. L’umanità prima di Cristo non sapeva, né avrebbe potuto amare Dio, poiché Dio può essere realmente amato solo con il suo stesso amore, che l’umanità non aveva e non conosceva, fino al momento in cui Cristo lo rese carne e genetica della nuova umanità. 

Il fatto che Gesù secondo il Vangelo di Giovanni abbia iniziato la sua vita pubblica a Cana e in occasione di un matrimonio (del quale non sono neppure noti gli sposi, a conferma della valenza chiaramente simbolica della vicenda) non può non fare pensare agli antichi riti erotici della terra di Canahan, da reinterpretare come profetici di quanto Cristo avrebbe poi realizzato, cioè trasmutare la sessualità umana fra uomo e donna in reale esperienza liturgica quale accesso supremo al tempio della vita divina.

Prima dell’evento di Cristo la persona umana era una dualità di cor- po e anima, per cui, come tale, non poteva essere pienamente imma- gine di Dio, essendo Dio uno e trino. Solo da Cristo in poi la persona umana possiede lo spirito, che è amore, essendo Cristo l’amore di Dio, rendendola in questo modo in potenza realmente una e trina a imma- gine di Dio. L’infusione al genere umano dell’amore di Dio da parte di Cristo esigeva la sua Morte per universalizzare Se stesso e questo e solo questo è il senso salvifico della passione e morte di Cristo. 

Ora, se Dio è uno e trino, e se la persona umana è stata resa trinitaria da Cristo attraverso l’effusione del suo spirito d’amore, il rapporto fra uomo e donna assume il crisma della santità solo configurandosi quale unità di una trinità, vale a dire quale triade sequenziale di unione spirituale, unione psichica (o animica) e fisico-sessuale, secondo quindi una sequenza che dai Cieli dello spirito viene a trasfigurare la Terra e, in essa, la storia dell’umanità, per cui non esistono due differenti destini, il destino degli uomini e il destino delle donne, bensì e solo un unico destino, quello del genere umano. 

Al di là di ogni fondamentalismo religioso, in assenza dell’amo- re cristico, che è estasi di compassione, la sessualità resta relegata alla sfera psichico-emozionale e non può in nessun modo diventare esperienza della realtà spirituale. 

Del resto, se così non fosse e se il fare della sessualità un’esperienza dello spirito dipendesse solo sem- plicemente dalle capacità umane, non sarebbe certamente sfuggito ai grandi sapienti della filosofia dell’antica Grecia, che invece non riconobbero mai alla sessualità la dignità della conoscenza spirituale. 

Onde evitare fraintendimenti libertini, conviene allora affermare subito in forma esplicita che qualunque riflessione sull’ipotesi di una reinterpretazione spirituale dell’unione sessuale fra uomo e donna presuppone che uomo e donna (o quanto meno l’uomo) vivano già in loro una tipologia d’amore quanto meno vagamente affine all’a- more vissuto da Cristo, affine all’amore che è Cristo. 

Ora, se per amore cristico intendiamo non una generica filantropia o un’aspeci- fica attenzione al prossimo, bensì e solo uno stato di estasi di com- passione, di estasi in quanto compartecipazione della medesima vita beata di Dio e compassione dinnanzi a un’umanità che ha dimen- ticato di essere stata concepita da Dio, risulta evidente che un tale amore è attualmente vissuto da una percentuale infinitamente bassa rispetto agli oltre sei miliardi di esseri umani. Vivere questo tipo di amore significa essere già nel futuro ed essere il futuro, poiché solo l’amore a imitazione di Cristo è escatologia vivente, ma questo riguarderebbe solo alcune migliaia di uomini e donne rispetto alla vastità del pianeta. 

Si rischierebbe di teorizzare per l’ennesima vol- ta una Chiesa di soli santi ed escludere dalla nuova vita portata da Cristo la quasi totalità del genere umano, limitandosi alla tenue spe- ranza di poter vivere pienamente l’amore stesso di Cristo solo nel dopo morte, il tanto enigmatico aldilà. La Chiesa è invece costituita da santi e peccatori; verità, questa, cui la storia ecclesiale è da sem- pre rimasta fedele, né diversamente avrebbe potuto comportarsi dal momento che è lo stesso Cristo ad avere affermato di essere venuto non per i santi, ma per gli ammalati nello spirito, cioè i peccatori. 

Avviene allora che la partecipazione intima alla vita della Chiesa e ai suoi sacramenti, in particolare all’eucarestia, ha il potere di vicariare la mancanza del vissuto cristico dell’amore, che di fatto accomuna la quasi totalità del genere umano. Di conseguenza, l’ipotesi di una trasfigurazione spirituale della sessualità cessa di essere utopia escatologica e diviene esperienza possibile, ma solo per coloro che vivo- no nel seno della Chiesa amandola come se fosse il vero Se stesso. Infatti, si diventa santi solo ecclesiasticamente, cioè come Chiesa, non singolarmente per effetto di ascetismi o di esperienze simili. 

Quale spiritualità e quale sessualità Preso atto che oggi ormai tutti parlano di spiritualità del sesso, al- cuni in senso simil-religioso e altri, la maggior parte, in senso solo naturalistico, non ha allora più senso chiedersi se esista realmente o no una spiritualità del sesso, ma all’opposto, dando per scontato che esista, la vera domanda – che dovrebbe venire fra l’altro spontanea a coloro che veramente vivono e soffrono a causa del problema del contrasto esistente fra piacere sessuale e mistica spirituale – non può essere che una sola: «A quali condizioni la relazione sessuale fra uomo e donna può essere esperienza dello spirito?» 

È ovvio che la risposta non può essere quella soggettivistica del pensiero personale o delle esperienze personali, dal momento che in ogni cosa, ma soprattutto in ambito sessuale, la mente umana tende sempre a descrivere come più nobile, romantico e simil-spirituale il proprio vissuto sessuale rispetto alla realtà effettiva nella vita di ogni giorno, a tal punto che il più delle volte si chiama momento di estasi un semplice benessere erotico personale. 

La risposta non deve neppure essere morale, né infine religiosa, ma fenomenologico-spi- rituale, partendo da una sincerità assoluta nei confronti di se stessi e del proprio vissuto psichico. Pertanto, senza dover invocare dottrine religiose o ideologie para-filosofiche precostituite rispetto alla reale esperienza, ma sulla base della semplice e sola auto-sincerità, appare evidente che il vissuto psichico durante il rapporto sessuale è profondamente diverso da un momento di estasi spirituale. 

Ovvia- mente, questo presuppone che la persona abbia avuto esperienza sia in ambito sessuale che in ambito mistico-spirituale, o che, quanto meno in relazione al vissuto spirituale, sappia distinguere il senti- mento della devozione da quello della scettica indifferenza, e il sen- timento del ringraziamento da quello del possesso e del ritenere che tutto sia dovuto e non donato. 

Certamente, una condizione di amore sentimentale e di affetto è presente prima del rapporto, ma du- rante il rapporto o comunque nello stato di eccitazione erotica ogni sentimento simil-spirituale sembra svanire in un profondo oblio. Tutto ciò è spiegabile e comprensibile sulla base delle semplici co- noscenze della psicanalisi freudiana, che hanno dimostrato essere la sessualità umana per la gran parte sotto un controllo dell’inconscio. 

Tutto questo ci porta allora a concludere che non esiste nessuna naturalistica spiritualità nel sesso. E questo è un primo errore, vale a dire ritenere che la sessualità nella condizione di natura sia già di per se stessa un’esperienza spirituale e, affinché ciò avvenga, possa essere sufficiente un minimo di affettività amorevole o di dolcezza. Certamente sarebbe meraviglioso che lo fosse, certamente a livello filosofico è bello che lo sia, ma a un’auto-analisi sincera tutto questo viene smentito dall’evidenza esperienziale esistenziale. 

Errore op- posto è quello di rassegnarsi a pensare che la sessualità umana sia destinata a restare tale in eterno, che cioè non esista un’evoluzione nella auto-comprensione della propria sessualità da parte del genere umano rispetto a ogni altro aspetto della vita umana, al quale viene invece riconosciuta un’effettiva e continua evoluzione. 

Esiste una sola possibilità per porre progressivamente fine all’ancestrale separazione e atavica opposizione fra sessualità e spiritua- lità, causa questa di tutti i mali del genere umano in quanto matrice ultima degli stessi: vivere in sé nel proprio cuore fisico l’amore di Cristo, non tanto o non solo l’amore per Cristo, quanto piuttosto l’a- more stesso che Cristo viveva, vivibile in ogni caso a sua volta solo attraverso il medesimo amore per Cristo, effuso nella storia duemila anni fa e donato in eterno per opera dello Spirito Santo a chiun- que lo ricerchi quale senso ultimo della propria esistenza. Infatti, la spiritualità del sesso è vivibile soltanto nella condizione ecclesiale dell’amore di Cristo. 

Una sessualità spiritualizzata non è pertanto un fatto privato, bensì un atto ecclesiale, che agisce come fermento sulla stessa mistica ecclesiale in forza della unicità della Chiesa, non potendo esso andare perso provenendo solamente da Dio quale uni- co stato di essere come tale in grado di ricondurre la creatura a Dio. 

Uomo e donna che si amino con la medesima intensità dell’amore ecclesiale di Cristo non sono allora più una semplice coppia, ma una Chiesa, intendendo per Chiesa una qualsiasi comunione d’amore fraterno fra almeno due o più persone, fondato sul medesimo amore di Cristo e in grado per questo di irradiare a sua volta amore per il semplice fatto di viverlo spiritualmente nel proprio cuore quale uni- co vero tempio esistente. 

Senza questa forma di amore qualunque ipotesi di spiritualità del sesso non è che un’illusione emozionale o una teorizzazione intellettualistica, cui non corrisponde nessuna re- ale esperienza. È ovviamente implicito che la nuova sessualità quale esperienza della vita stessa dello spirito riguardi solamente il rappor- to fra uomo e donna, e questo non perché l’omosessualità sia contro natura o una malattia o comunque una sessualità abnorme e meno piacevole, bensì per il semplice fatto che ad avere valenza spirituale è solamente la Trinità costituita dall’uomo, dalla donna e da Dio stesso, come in origine nell’Eden di ogni sogno di gioia. 

Secondo quanto già affermato in un testo cristiano anonimo siriano del III secolo, l’uomo è immagine di Cristo, la donna è immagine dello Spirito Santo e nella loro relazione si manifesta il Padre di ogni paternità, ovviamente non un uomo comune e una donna comune, bensì ed esclusivamente un uomo e una donna che si siano liberamente posti a imitazione di Cri- sto a servizio dell’evoluzione spirituale del genere umano, quindi in definitiva un diacono e una diaconessa, non essendo in sintesi il dia- conato che il libero servizio al volere di Dio. 

E ciò che Dio vuole per il genere umano è la gioia, la libertà e, in ultima analisi, la vita stessa. La veridicità di una reale spiritualità del sesso, oltre che da un corretto modo di porsi la domanda su quali siano le condizioni che la rendano realmente e non solo intellettualisticamente possibile, è pure deducibile dagli stessi frutti derivanti da un’ipotetica esperienza di sessualità spirituale. In altre parole, la seconda domanda da porsi dopo avere meditato assiduamente e compreso quali siano le condi- zioni per fare dell’atto sessuale un’esperienza dello spirito, è quella su quali siano gli effetti di una vera esperienza spirituale attraverso l’amore sessuale fra uomo e donna su di sé e nella relazione con la società, con il mondo e la storia. Tali effetti sono sintetizzabili in almeno quattro eventi: 

1. l’amplificazione dell’amore universale; 
2. il verificarsi di fenomeni extra-sensoriali fra l’uomo e la donna, quali la telepatia e la percezione a distanza del vissuto animico della persona amata; 
3. l’espansione della coscienza e della comprensione dell’anima umana, quindi in definitiva della medesima conoscenza umana- mente conseguibile; 
4. il servire l’evoluzione del genere umano come se fosse vita della propria vita, rinunciando a ogni personale conoscenza, a ogni privatistico potere, a ogni personale carrierismo e, in definitiva, perfino alla propria privata evoluzione spirituale, anche perché l’evoluzione spirituale non dipende da meriti e capacità personali, ma all’opposto è un dono dello spirito dall’Alto, che a sua volta si dona solo a coloro che si pongono a servizio dell’umanità nel modo in cui Cristo servì il suo prossimo, senza avere da parte umana nessun secondo fine interessato che non sia la medesima felicità nella libertà della verità del genere umano. 

In assenza di simili frutti carismatici e santi occorre fortemente duitare che la supposta esperienza di sessualità spirituale sia effetti- vamente tale e non virtualmente astratta in senso intellettualistico. 

In altre parole, il vero amore fra uomo e donna deve riconciliare la persona umana sia nei confronti di Dio sopra ogni cosa che con il genere umano nei suoi due sessi, quindi innanzitutto con l’altro sesso, non più percepito come altro ed estraneo, ma come l’altra identità di se stessi. Spiacente per gli intellettuali, i filosofi e i teologi, spiacente per gli ebrei, i buddisti, gli induisti e gli animisti, spiacente infine per gli stessi psicologi, ma il sogno di una nuova sessualità fra uomo e donna quale compimento di ogni esperienza spirituale è condizione esclusiva della Chiesa di Cristo: non per razzismo elita- rio, ma per il semplice fatto che l’amore richiesto per trasmutare la pulsione sessuale in dimensione della beata vita divina non appartie- ne già per natura alla specie umana prima che fosse effuso da Cristo quale spirito di Dio nel momento della sua morte. 

Solo all’uomo che ha amato realmente sopra ogni cosa e fin dall’infanzia la Chiesa di Cristo, soffrendo a causa di questo, sarà dato e donato dallo Spirito Santo di amare la donna come se fosse la stessa mistica anima della totalità universale della Chiesa. Rispetto alla vera spiritualità del sesso, due sono gli errori fonda- mentali presenti in filosofie simili, ma in realtà assolutamente diverse: 1. considerare un bene sia la spiritualità che la sessualità, ma in forma separata fra loro e non unitiva, quindi semplicemente come accostate fra loro, a tal punto che il vissuto di un tipo esclude quello dell’altro tipo; 2. considerare sessualità e spiritualità come un vissuto unitario, secondo tuttavia una visione naturalistica della sessualità e non Cristo-centrica, tale per cui è la spiritualità a venire abbassata a livello della emotività pulsionale del sesso anziché essere la sessualità a venire innalzata alla dimensione di esperienza dello spirito. 

La difficoltà maggiore che si oppone al nuovo modo di concepire l’unione amorosa fra uomo e donna è quella del superamento della riduzione della relazione sessuale a semplice storia personale, indi- pendente di fatto dalla ricerca di Dio o addirittura antitetica a essa, come è stato sino a ora per l’Occidente. Ma a partire dall’alba del III millennio non ha più senso che l’ane- lito a essere amato da una donna da parte dell’uomo e di essere ama- ta da un uomo da parte di una donna e la ricerca di Dio o comunque di una dimensione spirituale siano due realtà diverse o addirittura alternative l’una all’altra, dal momento che uno è l’amore come uno è Dio nella trinitaria sussistenza ipostatica di Padre, Figlio e Spirito Santo, perché la sfera più alta della spiritualità deve essere trovata proprio nella relazione con l’altro sesso nella misura in cui essa non escluda più il divino e cessi di essere solamente una pur lieta storia personale, diversamente il desiderio solo pulsionale della donna co- stituisce adulterio verso Dio per il semplice fatto che nel momento in cui si desidera una donna, Dio in quell’attimo non esiste più, è divenuto un Altro. Ora, per vivere l’identità nell’amore fra attrazione per l’altro sesso e anelito a Dio in forma solo anticipatoria sintetica è sufficiente che almeno l’uomo abbia già in sé il vissuto cristico dell’amore. 

Ma, per vivere stabilmente una tale condizione di espe- rienza di Dio proprio attraverso l’amore per l’altro sesso, occorrono due ben precise condizioni: 1. che entrambi, uomo e donna, abbiano già quanto meno un’a- pertura alla percezione dell’amore di Cristo, cioè un’apertura del centro energetico, o chakra, del cuore, secondo la termino- logia della tradizione vedhica. 

Per questo l’archetipo supremo ed eterno della santità del sesso è rappresentato dall’unione fra Maria, madre di Cristo, e Giovanni ai piedi della Croce, a testi- monianza del fatto che la santità del sesso è possibile solo in una condizione simile a quella fra Giovanni, il discepolo amato, e Maria quale Immacolata Concezione, che rappresentavano l’uomo e la donna più santi viventi allora sulla Terra, posti per questo a nuove colonne del tempio della Chiesa vivente, l’uo- mo più santo in quanto rinato nell’amore di Cristo e la donna più santa in quanto nata senza nessuna opposizione a Dio fin nel profondo della sua psiche; 2. che entrambi esprimano già coscientemente l’altra parte di sé, la parte femminile l’uomo e la parte maschile la donna, quindi che ognuno dei due sia già uno nei due principi maschile e fem- minile, come affermato da Cristo stesso nel ventiduesimo Det- to del Vangelo di Tommaso: «Se farete del maschio e della fem- mina in voi un solo essere, allora entrerete nel Regno dei Cieli». All’opposto, la tanto decantata unità di due metà, il maschio e la femmina, non porta a nessuna vera comunione spirituale, ma lascia che restino metà le due metà. Nella comunione spirituale fra uomo e donna già viventi in se stessi l’unità dei due principi maschile e femminile, l’uomo diviene maestro della donna nella dimensione dello spirito e la donna diviene maestra dell’uomo nella dimensione dell’anima. 

L’uomo amerà nella donna l’uni- versalità della vita, sola vera Chiesa nell’idea originaria di Dio, e la donna percepirà se stessa come Chiesa, amando nell’uomo che ama il Cristo che vive in lui. Ora, una teorizzazione non psicologica né etica, ma ontologica della sessualità presuppone una rivisitazione teologica dell’identità iposta- tica dello Spirito Santo e in definitiva della medesima Trinità di Dio, solo modo questo per rifondare la relazione fra uomo e donna non più su una generica imitazione della Sacra Famiglia di Gesù, Giusep- pe e Maria, ma sulla stessa divina Trinità






venerdì 15 luglio 2022

Biopsicologia nel Tantra Yoga



Shrii Prabhat Ranjan Sarkar, conosciuto in India e nel mondo anche come Shrii Shrii Anandamurti, tenne un discorso pubblico introducendo per la prima volta il concetto e la pratica della biopsicologia applicata nel Tantra Yoga.

Come la maggior parte dei lettori sa, la definizione più vecchia e accreditata di Yoga è:“Samyoga yoga yuktah jivat Paramatmanah” (Yajinavalkya Yoga – Sutra 1.45).

 

Biopsicologia nel Tantra Yoga 

Lo Yoga più completo è l’unione della Coscienza Individuale con la Coscienza Suprema.
Lo Yoga completo è la riunificazione del microcosmo con il macrocosmo, inteso come 1+1=1.

Nella filosofia tantrica quest’idea ontologica è chiamata monismo assoluto, cioè anche se diviso internamente in infiniti macrocosmi, l’Uno rimane sempre uno, visto che tutto l’universo è la sua proiezione macropsichica.

La coscienza individuale è sempre all’interno della Coscienza Cosmica, come una goccia è sempre dentro il suo oceano. E’ solo che la goccia si dimentica di essere dentro l’infinito, per il fatto che il suo potenziale mentale (samskara) personale, distorce la percezione di questa sua origine indivisibile. 

Per rimuovere questa distorsione mentale microcosmica l’essere umano deve applicare uno sforzo costante, per liberarsi dai legami di tempo, spazio e persona.

Solo liberandosi da queste distorsioni psichiche ottiene, con la sua purezza interiore, la riunificazione con il Sè Supremo. Questo sforzo nel Tantra Yoga è chiamato sadhana. Sadh sta per meta e sadh-ana è lo sforzo costante per raggiungere la meta più alta (Samyoga).



La parola italiana che si avvicina maggiormente al termine sadhana è misticismo, così come lo definisce P.R. Sarkar nel suo libro Psicologia dello Yoga: 

“Il misticismo è lo sforzo senza fine di scoprire il legame tra il finito e l’infinito. È uno sforzo senza fine per scoprire un collegamento tra il sé e il Super-Sé, khud e Khudá. Questo è il misticismo.”

Se questa super-meta è chiara, qual è la via, il processo, la pratica per ottenere la riunificazione? La via o il processo per raggiungere la super-meta è definito come Tantra; ta o tan hanno due significati, mentre tra ne ha uno solo: liberare. Ta è la radice acustica (biija mantra) della staticità o dell’inerzia e corrisponde alla propensione mentale (vrtti) della pigrizia, della letargia, del procrastinare.

Cosi Tantra significa quello che libera dall’inerzia, dall’ignoranza e porta alla realizzazione finale. Mentre il suono tan significa espandere, così Tantra significa quello che ci libera facendoci espandere e rompere tutti i limiti. Il Tantra è la principale scienza spirituale, la via che porta allo Yoga finale (Samyoga).

        Per sintetizzare diciamo che il Tantra è la via e lo Yoga è la meta. 

Nel Tantra c’è 99% di pratica quel po’ di teoria che esiste serve per capire come e perché praticare. Le tante pratiche cosiddette yogiche sono un approccio concreto alla liberazione dai blocchi nella sfera fisica, mentale e spirituale. Per blocchi qui si intendono limiti, malattie, imperfezioni, disturbi, distorsioni, dogmi, ecc.

Per liberarsi da questi limiti nelle tre dimensioni (fisico, psichico, spirituale) l’applicazione della volontà e della forza è fondamentale. Se usiamo il termine disciplina ci viene in mente ordine, sforzo, pratica costante. Così il Tantra può essere definito come il processo che ha come meta lo Samyoga. 



La Kundalini

Per esempio nel Tantra è fondamentale il risveglio dell’energia arrotolata (Kundalini) tre volte e mezzo alla base (Kula) della colonna vertebrale; questo risveglio della Kula Kundalinii avviene con un processo scientifico definito come tantrika Diiksa (iniziazione tantrica).

In Diiksa l’aspirante spirituale riceveva, dal Guru o dal suo Acarya, un mantra personale ed un chakra (plesso) personale per attivare la sua Kula Kundalinii.

Una volta attivata la Kula Kundalinii l’aspirante Yogi/ini deve continuare la pratica con costanza, sincerità e amore. Il processo per raggiungere la riunificazione (Samyoga) è pieno di ostacoli, principalmente interni, personali. 

Certamente ci sono inizialmente anche ostacoli sociali che distraggono gli aspiranti Yogi/ini; essi sono ancora legati al piacere eccessivo dei sensi o alla stravaganza intellettuale del mondo psichico, ma sono ostacolati anche dall’opera di dissuasione dei familiari o dei partner che non comprendono il nuovo stile di vita dei loro conviventi tantrici.

Come già detto, il Tantra è pieno di spirito di lotta, di conquista, di dinamismo e questo in tutte le sfere della vita sia personale che collettiva. Infatti il Tantra è caratterizzato anche da una componente fortemente sociale, che include la lotta allo sfruttamento socio- economico, culturale e religioso chiamato Gana Tantra.

Non entriamo ora nello specifico dei vari Tantra che sono Shakti Tantra, Vaesnava Tantra, Shaeva Tantra, Saora Tantra e Gana Tantra, ma tutti questi approcci si occupano della liberazione del microcosmo in tutte le sue espressioni mondane e spirituali.

Tornando alla pratica essenziale della biopsicologia tantrica, lo scopo principale di questo nuovo approccio alla liberazione dell’individuo è collegato al concetto della biopsicologia pratica e il suo effetto sul sistema neuroendocrino e psichico umano. Shrii P.R. Sarkar elenca quattro sistemi o processi nella biospicologia della liberazione.

  1. Yoga asana con il suo metodo corretto di eseguire le posizioni.
  2. Concentrazione ed ideazione (Dharana e Dhyana) sui Chakra o plessi.
  3. Stile di vita senziente, per rendere ogni cellula fisica e mentale (citta) sottile.
  4. La grazia del Guru.




Le asana nella biopsicologia tantrica

Le asana vengono da molti confuse con lo Yoga (riunificazione), ma lo scopo principale nel Tantra è di usare l’esercizio fisico per influenzare principalmente il sistema neuroendocrino e l’energia vitale (Pranah*). 

Il fine è quello di rendere il corpo biologico del mammifero umano adatto alle esperienze mistiche più elevate. Le nostre attività mentali (Vrtti) determinano le nostre azione primarie, che a loro volta determinano le nostre reazioni alle azioni primarie.

Ciò significa che il nostro comportamento determina il nostro futuro e se la nostra condotta morale non è appropriata o degna di un essere umano creerà sofferenza futura. Le nostri azioni dipendono dalla nostra costituzione fisica, da quella mentale (samskara) e dall’ambiente circostante, che ci influenza costantemente.

Alcuni esseri umani sono fortemente caratterizzati da espressioni biopsicologiche grezze, tipiche anche degli animali, come l’invidia, la crudeltà, l’odio, la rabbia, la paura, la sete di acquisire, l’infatuazione, ecc.; essi faticano ad uscire da questi atteggiamenti grezzi innati.

Ecco perché Shrii P.R. Sarkar si rifà alla tradizione yogica\tantrica delle asana, posizioni che fatte con un certo sistema o metodo regolano la secrezione ghiandolare endocrina, che dal punto di vista fisiologico e biochimico è responsabile di certi atteggiamenti o di certe tendenze mentali.

Negli esseri viventi evoluti, fra cui anche il corpo (mammifero) dell’essere umano esistono decine di tendenze animali, ma anche tendenze umane e spirituali. Le Vrtti o tendenze mentali sono localizzate nei Chakra o plessi biopsicologici.

Conoscendo bene il sistema neuroendocrino e la sua interazione fondamentale fra soma e psiche gli yogi del passato hanno studiato molti animali e piante con caratteristiche fisiche e psichiche particolari, adattando poi la loro postura fisica al corpo umano; ecco perché molte posizioni hanno il nome di animali o piante. 

Adattando la postura animale al corpo umano, chiamandola poi in sanscrito asana, si ottengono benefici fisici e caratteristiche psichiche tipiche di quell’animale.

Per esempio: la locusta vive in grandi colonie, e perciò si adatta bene ad un numero enorme di altre locuste; adattando la posizione tipica della parte posteriore della locusta al corpo umano si ottiene una pressione sui Chakra bassi; se una persona misantropa, che fatica a stare in compagnia di altri esseri umani pratica la locusta (Shalabhasana) regolarmente riesce ad essere spontaneamente più socievole e vive meglio la condivisione di spazio fisco e mentale con gli altri esseri umani.

Ovviamente la posizione della locusta dà molti benefici anche a livello fisico, specialmente nei tre Chakra (plessi) bassi, curando le emorroidi, le fistole anali, il prolasso degli organi genitali e del retto, la dismenorrea e molto altro, è però controindicata a chi ha cardio-patologie visto che esercita una pressione maggiore sul cuore. Dal punto di vista posturale viene utilizzata per evitare o alleviare il problema della cifosi, collegandola a posizioni antagoniste come la pinza (Pashimottanasana).

Diciamo che nel Tantra l’effetto puramente fisico dell’asana non è di grande importanza, serve principalmente per stare più a lungo in salute, ma alla fine per quanto ci si curi di questo corpo, finirà prima o poi nel crematorio. Più interessante è invece l’effetto psichico che hanno le asana, visto che ci aiutano poi a gestirci un futuro migliore e di riflesso un buon karma.

In biopsicologia si esercita, con le varie posizioni, una regolare pressione sulle varie ghiandole endocrine e si ottiene così un cambiamento nella secrezione ormonale. Questa regolazione ormonale, a sua volta, attraverso la biomeccanica postulare cambia lo stato psichico e il nostro comportamento futuro, sia all’esterno che all’interno di noi.

Le peculiarità dell’esecuzione delle asana biopsicologiche sono diverse: in primis la ripetizione della stessa asana per 3\4 o 8 volte, con delle brevi pause; questo è importante per dare uno stimolo appropriato alla ghiandola o ghiandole bersaglio, come per esempio il plesso tiroideo, o il plesso riproduttivo con le gonadi. Uno stimolo ripetuto per un numero preciso di volte è una caratteristica fondamentale nelle yogasana della biopsicologia tantrica.

Un altro punto fondamentale è la durata dell’asana, che può variare da asana ad asana; la durata dell’asana può essere di 5 minuti per 3 volte, 30 secondi per quattro volte ecc. l’esecuzione dell’asana deve essere adatta all’effetto post endocrino che si vuole ottenere; in alcune asana si trattiene il respiro (Kumbhaka) sia con polmoni pieni (Puraka) come nella posizione del cobra, o a polmoni vuoti (Rechaka) come in Yogamudra o Yogasana. 

Il tempo della pausa a polmoni pieni o vuoti dura normalmente 8 secondi.

Si ottiene così una forzatura o concentrazione maggiore dell’energia vitale nei vari plessi e una maggiore vitalità e controllo nel tempo. Oltre a queste regole fondamentali è importante eseguire le asana con la narice sinistra (Ida o Chandra Nadi) attiva; significa che la respirazione, obbligatoriamente nasale nello Yoga, è dominante sia nell’entrata che nell’uscita sempre dalla narice sinistra; ciò stimola a sua volta il sistema nervoso parasimpatico che controlla il movimento introverso del flusso mentale.

Avere il sistema parasimpatico attivo durante le asana è molto importante visto che mette le ghiandole endocrine superiori (epifisi ed ipofisi) in una condizione di maggior controllo su quelle basse (tiroide, timo, pancreas, surrene, gonadi..); in fisiologia è risaputo che nel corpo umano c’è un sistema a cascata ormonale, che parte dall’alto (epifisi, ipofisi, ipotalamo) e influenza, con gli ormoni secreti, la parte inferiore del corpo.

Con l’attivazione di Ida Nadi (canale) la mente ed il corpo diventano più sottili nella percezione ed espressione biopsicologica. Un altro fattore importante per l’esecuzione appropriata della asana nella biopsicologia tantrica è il raffreddare, prima delle asana, le parti più calde del corpo, come i genitali, le mani, le gambe il viso e gli organi di senso; questo per ottenere a priori un effetto parasimpatico imposto.

L’uso dell’acqua fresca toglie il calore in eccesso dagli organi di movimento e di fatto rallenta così il battito cardiaco e la respirazione. Con un respiro lento si ottengono molto velocemente calma e tranquillità nell’esecuzione delle posizioni.

La biopsicologia tantrica è una scienza tramandata da Sadashiva 7000 anni fa nella scena di Shiva Svarodhaya; fu poi dimenticata e distorta nel tempo.

Shrii Shrii Anandamurti l’ha rivitalizzata, nel suo libro Caryacarya parte 3, prescrivendo come pratica circa 40 asana, 15 mudra e 10 bandha oltre a circa 9 tipi di pranayama; egli ha messo al centro della pratica delle asana l’effetto neuroendocrino, così vitale ed importante per lo sviluppo, fisico-psico-spirituale personale e di riflesso sociale. 

Le asana secondo il tantra esistono per aiutarci ad essere più morali con qualità mentali divine. Le pratiche della meditazione risultano molto difficili se la mente è occupata con attività mondane, grezze e di basso livello. All’autorealizzazione si accede principalmente con una mente pura e sagace.

Concentrazione mentale sui plessi biopsicologici

Per liberarsi dei blocchi fisici e biopsicologici le asana sono sicuramente uno strumento semplice, pratico e molto efficiente; ma non bastano per portare la coscienza umana all’apice delle sue possibilità, allo Yoga. L’essere umano in sanscrito è chiamato manusha o manava, l’essere in cui domina la dimensione mentale, non quella fisica come negli animali (che pure hanno una mente).

L’uomo aspira all’infinito, non si accontenta di poco, questa è la sua natura divina, e non si dà pace finché non immerge il proprio sè nell’origine cosmica primordiale. L’uso della mente è fondamentale nella vita umana ed anche per il progresso personale. Nella biopsicologia tantrica esistono pratiche di concentrazione (dharana) e meditazione (dhyana) specifiche per i 9 plessi (Chakra) principali.

A questi punti o nuclei nervosi e psichici vengono imposti, con l’aiuto della concentrazione interiore, suoni, forme, idee che elevano la loro capacità di controllo delle tendenze mentali che emergono dai loro nuclei (bindhu). Se l’approccio delle asana è bottom up, dal basso o fisico verso l’alto o mentale, il secondo approccio della biopsicologia è top down, dall’alto verso il basso, cioè l’imposizione ideativa psico-spirituale sui plessi nervosi ed endocrini. Idee sottili concentrate sui chakra influenzano a loro volta la secrezione ormonale.

Questo è in sintesi il secondo approccio, che normalmente viene sempre insegnato di persona, a quattr’occhi, vista la sottigliezza e delicatezza di tale pratica.

Stile di vita senziente

In questo approccio alla biopsicologia si mira a circondarsi dentro e fuori di noi dell’energia più sottile che esiste nell’universo, quella senziente o Sattva guna: l’energia che ci fa percepire il sottile, mentre Raja guna o Tama guna sono più legati al dinamismo e alla staticità. Cosa mangiamo e beviamo, con chi stiamo, che musica ascoltiamo, che video guardiamo, ecc. influenza enormemente le cellule nervose e la nostra sostanza mentale o ectoplasma.

Utilizziamo la psiche per mantenere l’equilibrio in questo mondo in continuo cambiamento ed è fondamentale avere la percezione più corretta della realtà relativa in cui viviamo e agiamo. Anche qui Shrii P.R. Sarkar indica tutta una serie di pratiche giornaliere per mantenere predominante la forza senziente nel corpo e nella mente.

Grazia del Guru 

Questa è la parte più difficile e complessa da spiegare in poche parole, visto il limite di testo per un articolo in una rivista. Tutti coloro che hanno avuto un genitore, un mentore, un/a brava/o insegnante o maestra/a sanno quanto del nostro progresso personale dipenda da una guida competente.

Nel Tantra una persona che eleva la propria Kula Kundalinii dal primo all’ultimo Chakra è chiamato Kaola Guru, ma un Guru che oltre a innalzare la propria Kundalini all’ultimo Chakra riesce ad alzarla all’ultimo Chakra anche negli altri, anche a distanza, anche se è morto da decenni o secoli è chiamato Mahakaola, grande Kaola. Questi Mahakaola guidano i loro discepoli anche a distanza avendo ottenuto con lo stato di Samyoga una mente che coincide con quella Cosmica; i Mahakaola guidano ed operano attraverso la loro mente universale il progresso dei loro aspiranti yogi\ini.

Fortunati sono coloro che hanno tale guida immortale e la sua grazia. Esiste una scienza che spiega e dimostra questa relazione sottile fra grazia, macrocosmo e microcosmo in cerca di riunione: la scienza della Microvita, introdotta dallo stesso P.R. Sarkar in una serie di 25 discorsi a partire dal 1996.

La biopsicologia è una branca della scienza del Tantra Yoga che ha come scopo di ridurre il prima possibile il divario che c’è fra il piccolo e il Grande; la vita umana è breve e va utilizzata con tutto il suo potenziale nascosto. Il futuro dell’umanità sta nella ricerca, comprensione e pratica della scienza spirituale, cosi come introdotta già 7000 anni fa dal Mahakaola Sadashiva e dopo di lui da numerosi altri Kaola e Mahakaola





venerdì 8 luglio 2022

Sahaja Maithuna e Rituale Segreto


Cabinet de reflexion - Sahaja Maithuna 


Pancatattva, il rituale segreto

di Julius Evola

Pancatattva è, nel tantrismo induista e civaita, il nome del cosidetto «rituale segreto» riservato ai vîra. 

Ad esso viene data una tale importanza che in alcuni testi si afferma che senza il suo impiego nell’una o nell’altra forma il «culto» della Çakti è impossibile. Per il fatto che il pancatattva comprende l’uso di bevande inebrianti e di donne, ad esso è stato attribuito un carattere orgiastico e dissoluto il quale presso alcuni Occidentali è valso a mettere in cattiva luce tutto il tantrismo. L’impiego del sesso a fini iniziatico-estatici e magici, peraltro, non è proprio al solo tantrismo induista. 

Esso è attestato anche nel tantrismo buddhista e in varietà tantriche del vishnuismo, nella cosidetta scuola Sahajiyâ, fra i Nâta Siddha, ecc. Consideriamo a parte l’uso della sessualità a livello yoghico

Letteralmente pancatattva vuol dire «i cinque elementi». Ci si riferisce a cinque sostanze da usare le quali sono state messe in relazione coi cinque «grandi elementi» in questa guisa: alla partecipazione della donna (maithuna) si fa riferimento all’etere; al vino o analoga bevanda inebriante (madya) l’aria; alla carne (mamsa) il fuoco; al pesce (matsya) l’acqua; infine a certe sostanze cereali (mudrâ) la terra. 

Poiché i nomi di tutte e cinque le sostanze cominciano con la lettera m, il rituale segreto tantrico è stato anche chiamato «delle cinque m» (pancamakâra).

Il rituale riveste significati diversi a seconda del piano nel quale viene praticato. Nella sua assunzione più estrema, secondo la quale può rientrare nella stessa Via della Mano Destra, esso mira alla sacralizzazione delle funzioni naturali legate alla nutrizione e al sesso. L’idea di fondo è che il rito non deve non deve essere una cerimonia sofisticata sovrapposta all’esistenza reale, ma deve incidere su questa stessa esistenza, deve compenetrarne anche le forme più concrete. 

Tutto ciò che il pacu, l’uomo animalesco, compie ottusamente, nella forma tamasica del bisogno e del desiderio, dal vira deve essere vissuto con un animo ampio e liberato, appunto nel senso di un rito e di una offerta, perfino con uno sfondo cosmico. Peraltro, tutto ciò non ha un carattere specificamente tantrico: la sacralizzazione e la ritualizzazione della vita è stata, in effetti, una caratteristica della civiltà indù in genere, così come di ogni altra civiltà tradizionale: a prescindere da certe forme strettamente ascetiche. 



Anche nel cristianesimo si è potuto dire: «Mangia e bevi in gloria di Dio», mentre l’Occidente precristiano conobbe pasti sacrali e le stesseepulae romane ebbero fino a tempi relativamente tardi una controparte religiosa e simbolica; vi fu presente un riflesso dell’antica concezione di un incontro fra uomini e dèi. Una difficoltà può nascere solo quando oltre ai cibi entrano in quistione la donna e le bevande inebrianti – però unicamente dal punto di vista della religione venuta a predominare in Occidente, la quale è stata dominata da un complesso sessuofobo, ha considerato come impuro e insuscettibile di sacralizzazione l’atto sessuale. 

Ma questo atteggiamento può venire considerato come anomalo, dato che la sacralizzazione dello stesso sesso, la concezione del sacrum sessuale, fu propria a molteplici civiltà tradizionali. Essa è senz’altro attestata nell’India. Era già idea vèdica che l’unione sessuale può essere innalzata al livello di un connubio sacrale e di un atto religioso, e che in tali termini essa può avere perfino un potere spiritualmente propiziatore. 

Nelle Upanishad essa viene assimilata con un’azione sacrificale (la donna e il suo organo sessuale sono il fuoco in cui si sacrifica) e sono date formule per la ritualizzazione cosmica di un amplesso cosciente, non torbidamente lascivo, l’uomo unendosi alla donna come «Cielo» a «Terra».


Anche la Tradizione delle bevande sacre e delle libagioni rituali è antichissima e attestata in civiltà molteplici. Per l’India, si sa la parte che nel periodo vèdico ebbe il soma, il quale era una bevanda inebriante ricavata dall’asclepia acida e assimilata ad una «bevanda dell’immortalità». Solo che nell’uso di simili bevande, come diremo, il livello rituale delle pratiche va distinto dal livello iniziatico e operativo, sul quale viene considerato uno speciale impiego degli effetti di esse. 

Così, nel complesso, in questo primo suo grado il cosidetto «rituale segreto» tantrico non presenta nulla di allarmante. Non dal punto di vista di un Occidentale, per il quale è normale fare succulenti pasti a base di carne con vini e liquori, ma solo da quello indù il rituale tantrico ha qualcosa di poco normale in quanto l’India è prevalentemente vegetariana e l’uso delle bevande inebrianti è estremamente limitato. Passiamo ora ad un secondo livello del pancatattva, dove esso ha già in una certa misura un significato operativo e fa entrare in giuoco elementi sottili. 

Da un lato, viene data l’immagine di un seme che, se gettato in una fessura di roccia, non può germogliare e svilupparsi. In questo stesso senso il vîra fruisce delle cinque sostanze, i pancatattva, per assorbirne e trasformarne le forze. D’altro lato, vengono considerate le possibilità offerte dal pancatattva in relazione alle già indicate corrispondenze delle cinque sostanze con i cinque «grandi elementi» ed anche con i cinque vâyu o prânadi – con le correnti del soffio vitale – di cui si è già parlato.

Si sa che il prâna appartiene al piano delle forze sottili, non di quelle materiali e organiche. Ogni funzione organica, tuttavia, ha per controparte una forma di questa forza. In particolare, quando l’organismo ingerisce una data sostanza, l’una o l’altra corrente del soffio verrebbe in una certa misura dinamizzata e si verificherebbe una specie di momentaneo affiorare o lampeggiare di forme sottili di coscienza nella massa opaca della subcoscienza organica. 




Chi, grazie a preeedenti discipline sul tipo di quelle a suo tempo riferite, disponga già di un certo grado di sensibilità sottile tanto da poter sorprendere tali affioramenti o lampeggiamenti, avrebbe modo di realizzare dei contatti coi poteri o «grandi elementi» corrispondenti alle cinque sostanze. Simili esperienze sarebbero agevolate se si utilizzano stati in cui le «masse di potenza» chiuse nel corpo sono portate ad un certo grado di instabilità per mezzo di un’adeguata eccitazione. 

Le corrispondenze, in genere, sono date nei seguenti termini: l’etere corrisponde alla partecipazione della donna e al soffio come prâna nel senso specifico di forza aspirante, assorbitrice, che come corrente sottile «solare» dalle narici scende fino all’altezza del cuore; l’aria alle bevande inebrianti e al soffio comeapâna, corrente che dal cuore scende in basso, con un’azione opposta ad una unificazione, come un disciogliersi; il fuoco alla carne e al soffio come samâna, corrente delle assimilazioni organiche che agisce alterando e fondendo; l’acqua al pesce e al soffio come udâna, il soffio «fluido» delle emissioni; la terra al cibo farinaceo e al soffio comevyana, corrente fissativa, incorporativa, avvertita come una sensazione sottile di «peso» dell’intero organismo. 

Usando il pancatattva, a questo livello occorrerebbe dunque essere già capaci di avvertire e di distinguere tali effetti, le modificazioni sottili determinate dalle cinque sostanze. Secondo coloro che si danno a pratiche del genere, nel rapporto con la donna la percezione sarebbe come di qualcosa che si spezza e si stacca; per le bevande inebrianti, senso di dilatarsi e volatilizzarsi, vissuto disgregativamente; per il nutrimento in genere, senso di essere feriti. Si tratta, per lo più, di sensazioni negative da trasformare in stati attivi. 

Si sa che nel campo ascetico, spesso anche iniziatico, non solo si raccomanda la continenza sessuale ma si ritiene sfavorevole per lo sviluppo spirituale l’uso della carne e soprattutto delle bevande inebrianti. 

Ma tutto dipende dall’orientamento. La veduta propria alla Via della Mano Sinistra è: trasformare il negativo in positivo.

Normalmente l’indulgere al sesso e alle beevande inebrianti ha, dal punto di vista spirituale ed anche psichico, effetti dissolventi. Senonchè, nel presupposto che si possegga il principio di una forza pura e distaccata, della vyria, proprio gli stati dissolutivi possono «sciogliere» e favorire un trascendimento, con riduzione dei residui tamasici. Quando, dal punto di vista spirituale, si sconsiglia l’uso della carne si prospetta il pericolo di «infezioni» poiché l’assimilazione di tali cibi da parte dell’organismo umano avrebbe come controparte l’assimilazione anche di eleementi sottili e psichici del piano subumano e animale. 


Rari sono i casi nei quali un tale pericolo possa venir superato; i casi in cui si possegga una sensibilità affinata capace di accorgersi di queste infezioni e quando si sia acceso un «fuoco» abbastanza energico per trasmutarle e assorbirle. Il pancatattva viene considerato un rituale segreto, riservato ai soli vira, da non far conoscere ai profani e ai pacu, essenzialmente in relazione a due deitattva, alle bevande inebrianti e alla donna, e che lo stesso vale per le corrispondenti varietà buddhiste e vishnuite di tali riti. L’impiego sacro delle bevande inebrianti è antichissimo e molteplicemente attestato: ricordiamo in particolare la parte che nella Tradizione ha avuto il soma (equivalente all’haoma iranico). 

Il soma è stato considerato come una «bevanda d’immortalità», come armta, termine che etimologicamente è identico al greco «ambrosia» (entrambi i termini vogliono dire. Letteralmente, «non-morte»). In realtà, si può parlare di un «somaceleste», immateriale. Le cose sempbrano presentarsi nei seguenti termini: a partire da un certo periodo, il «somaceleste non fu più conosciuto», l’uomo per giungere a quegli stati di trasporto e di «entusiasmo divino», in senso platonico, ebbe bisogno dell’aiuto del «soma terrestre», cioè della bevanda ricavata dall’asclepia acida. 

Quando sia presente il giusto orientamento interno, la corrispondente ebrezza può avere effetti estatici e in una certa misura iniziatici: donde il carattere «sacro» delle bevande. Non diverso significato ebbe il vino nel dionisismo, tanto che il termine «orgia sacra» è una espressione tecnica ricorrente nell’antica letteratura mistèrica; non diverso quello che ebbe nella mistica persiana, dove il vino e l’ebrezza hanno avuto un significato sia reale, sia simbolico – e si può giungere, per tal via, fino a certi aspetti della stessa tradizione templare, il Guénon avendo rilevato che il detto boire comme un Templier può aver avuto un significato segreto, operativo, diverso da quello grossolano poi prevalso. Infine negli stessi Yoga-sûtra (IV,1) l’accenno a certe sostanze o «semplici» associati al samadhi può riferirsi all’uso di analoghi coadiuvanti. 

A un non diverso contesto si deve riportare l’uso delle bevande inebrianti e l’orgiasmo nel tantrismo. Il vino qui viene chiamato «acqua causale», kâranavâri, e «acqua di sapienza», jnânâmrta. «La forma (rûpa) del Brahman – si legge nel Kulârnavantra – è chiusa nel corpo. Il vino può rivelarla – ecco perché gli yogî lo usano. Coloro che usano il vino per proprio piacere, anziché per la conoscenza del Brahman (Brahmâ-jnâna), commettono colpa e vanno in perdizione». 



Un altro testo tantrico vede in sostanze del genere la «forma liquida» della Çakti stessa, intesa come colei che salva (lett. «la salvatrice in forma liquida»); in tale forma essa è datrice sia di liberazione, sia di fruimento, brucia ogni colpa. Il vino «viene sempre bevuto da coloro che hanno conosciuto l’ultima liberazione e da coloro che sono divenuti degli adepti e che si sforzano di divenirlo». In vista della liberazione vanno dunque bevute le bevande inebrianti a questo livello del pancatattva: i mortali che ne usano dominando il loro animo e seguendo la legge di Civa vengono descritti come degli dèi, come degli immortali sulla terra. 

Il riferimento alla legge di Civa, il Dio della trascendenza attiva, qui è significativo. Da un lato viene detto di bere soltanto «finchè la mente e la vista non siano turbate», dall’altro si incontra, nei Tantra, questa frase, che è stata motivo di scandalo: «Avendo bevuto e poi di nuovo bevuto, essendo caduti per terra ed essendosi rialzati per bere ancora, si raggiunge la liberazione». A questo detto, è vero, alcuni scrittori hanno voluto dare un significato esoterico-simbolico, da riportarsi al piano delkundalinî-yoga, dove non è affatto questione di bevande inebrianti: si alluderebbe ai successivi sforzi per portar sempre di nuovo verso l’alto la kundalini svegliata. 

Ma, come in tanti altri casi, la frase può essere polivalente e non escludere un’interpretazione concreta: portarsi fino a un limite, poter riaffermarsi e andare oltre di là da ogni collasso, mantenendo la coscienza e la direzione fondamentale dell’esperienza. Il rituale può avere un carattere collettivo, quindi l’aspetto di un’«orgia». Viene eseguito in un circolo o catena (cakra) di praticanti, anche dei due sessi, nel qual caso è verosimile l’associazione dell’uso del vino con quello del sesso. Tuttavia, qui gli aspetti di sfrenatezza evocati comunemente dalla parola «orgia» appaiono contemperati dalla presenza di precise strutture rituali. 

Se non importa la sostanza da cui la bevanda inebriante è ricavata (il vino indiano non è, come quello occidentale, di uva), una condizione essenziale a che essa abbia l’effetto previsto è che sia «purificata». «Bere vino non purificato – viene detto – è come prendere un veleno». Il vino non purificato abbrutisce e va sempre evitato daikaula. Esso non dà risultati e il devatâ – la divinità o çakti – che vi risiede non viene propiziata. La «purificazione» di cui qui si tratta può comprendere un procedimento complesso, contemplativo e rituale, inteso a condurre fino ad uno stato nel quale l’uso della bevanda propizia effettivamente dei contatti ed agisce in modo estatico e «sacro». 

È un processo, quasi, di transustanziazione nel quale interviene di nuovo la immaginazione magica e sono usati varimantra, ad esempio HRIM, il mûla-mantra, che è quello della potenza primordiale, o il cosidetto «mantra della spada» (PHAT) spesso impiegato quando si vuole separare il «sottile» dallo «spesso» e dal materiale. Anche l’operazione preliminare di purificazione ha carattere collettivo, viene compiuta in un circolo (cakra) sotto la guida del «signore del circolo» - cakrecvara – che si mette al centro di esso ed ha davanti a sé gli elementi da purificare. Ecco alcuni dettagli. Il cakrecvara pronuncia la formula tradizionale, già da noi citata, dell’identità del sacrificante, del sacrificio e di colui a cui si sacrifica.

Dopo di che, segna per terra alla sua sinistra in rosso vivo un simbolo grafico costituito da due triangoletti intrecciati, rappresentanti la diade metafisica, il dio e la deaa, con al centro il segno del «vuoto» (un circoletto) o un altro triangolo rovesciato; il secondo triangolo con il vertice in basso rappresentando Paraçakti, esso equivale allo stesso «vuoto» metafisico, rappresenta ciò che sta di là da quella diade, la trascendenza. 



Sull’esagramma viene posato uno speciale vaso rituale (kalaca) contenente la bevanda inebriante. Il «signore del circolo» evoca quindi la presenza della dea. Vengono usate varie formule rituali. Per una visualizzazione atta a dirigere il processo, la più importante è quella che evoca il principio vitale – l’hamsah – come una forza solare radiante «in mezzo a un cielo puro», come una forza che risiede nella regione intermedia situata, come l’aria, fra la «terra» e i «cieli», il che indica che si tende a far si che l’operazione, pur avendo una base fisica, si sposti verso un piano superfisico. 

Un dettaglio è il rito del «coprire» associato ad un determinato gesto: il recipiente viene «velato», ricoperto con un velo, a significare che la bevanda materiale «copre» quella sacra. Nello sviluppo del rito questo velo che ricopre la dea dormente nella bevanda (Devî Sudhâ) viene rimosso, con il che il vino contenuto nella giara diviene appunto una «bevanda celeste». 

La dea viene invocata come amrta (=ambrosia, elemento privo di morte). L’azione di purificazione si completa con la rimozione della «maledizione» che pesa su bevande del genere, con riferimento a miti simbolici dove figurano maledizioni cheavrebbero colpito le bevande inebrianti per aver propiziato l’una o l’altra azione colpevole. Di là dall’allegoria, si può pensare ad una neutralizzazione rituale degli effetti negativi che l’uso delle bevande in questione potrebbe avere. 

Infine, il «signore del circolo» pensa che il dio e la dea si congiungono nella bevanda inebriante e che questa si satura dell’elemento non-morte (ambrosia) generato da tale congiungimento. In questa guisa vengono realizzate le condizioni interiori e sottili a che il rito con la bevanda inebriante possa agire nel senso voluto. 

Compiuto in un circolo o catena, l’efficacia del rito è verosimilmente accresciuta dal vortice fluidico alimentato dalle coppie che circondano il cakrecvara, le quali evocano le stesse immagini e compiono gli stessi atti spirituali. Viene detto che solo chi è iniziato beve la bevanda inebriante e che soli chi ha ricevuto una piena iniziazione può fungere da «signore del circolo», dirigere il rito e distribuire la bevanda. La catena o circolo dovrebbe assumere il carattere di una catena divina (divya-cakra). 

Sono «qualificati per farvi parte solamente coloro che hanno un cuore puro» e non sono toccati dal mondo esterno, solamente coloro che «possedendo la conoscenza di ciò che è reale considerano questa esistenza, sia negli apsetti mutevoli che in quelli immutabili, come facente una sola cosa col Brahman».

l Rudrayamala giunge a dire che non si deve affatto bere vino fuor dal rito. Con tutto questo, ve ne è abbastanza per togliere al pancatattva il carattere di un’orgia nel senso volgare, come un puro scatenamento.

Ciò, almeno, in via di principio, se si hanno in vista i principî, ben formulati nei testi, prescindendo da forme degradate e marginali, peraltro sempre possibili. Dopo l’uso delle sostanze inebrianti tentiamo di considerare quello del sesso che, essendo stato fatto corrispondere all’etere, nel pancatattva occupa il posto gerarchicamente più alto. Nella prassi corrispondente si debbono distinguere piani o livelli. In primo luogo sono attestate visibili sopravvivenze di pratiche di carattere oscuro e più stregonico che magico. 

Di ciò è il caso, ad esempio, in riti nei quali l’uomo, per conseguire certi poteri, cerca di captare alcune entità femminili, fascinandole e assoggettandole per mezzo di incantamenti nella persona di una donna reale e possedendo questa donna in un luogo selvaggio, come una foresta o un cimitero. È da rilevare però che come struttura queste stesse pratiche oscure hanno una certa analogia con le pratiche sessuali a fondo iniziatico, tanto che in queste si potrebbe vedere un’assunzione delle prime su un piano superiore, ovvero che in quei riti oscuti si potrebbe vedere una specie di facsimile degradato e demonizzato delle seconde. Inoltre, sono da considerare cerimonie orgiastiche collettive. 

Vi è chi in esse ha voluto riconoscere sopravvivenze o continuazioni di antichi «riti stagionali» della fecondità. Si sa che le interpretazioni agrarie, stagionali e simili sono una specie di idea fissa dell’etnologia e di una certa storia delle religioni. Come essenziale nell’esperienza orgiastica collettiva e come elemento costituente il presupposto di tutto il resto, è da considerarsi invece una specie di selvaggia decondizionalizzazione dell’essere. Con la promiscuità, con la rimozione momentanea di ogni limite, con la rievocazione o riattivazione orgiastica del caos primordiale certe forme oscure di estasi sono propiziate. 

È degno di nota il fatto che in alcune cerimonie collettive orgiastiche attestate nel tantrismo sembra venire in rilievo una spersonalizzazione e una completa rimozione di ogni interdizione. Infatti, oltre ale orge nelle quali ogni uomo si sceglie la donna con cui unirsi, è stato riferito che ve ne sarebbero altre in cui la scelta personale è interdetta, in cui deve essere il caso a decidere quale sarà la donna di ogni partecipante. 

Le donne mettono in un mucchio i loro corpetti (jacket), ogni uomo ne prende uno dal mucchio e la sua compagna sessuale sarà la donna a cui esso corrisponde: che essa, eventualmente, risulti essere la propria figlia o la propria sorella non muta la regola; soltanto questa donna potrà venire usata. Tuttavia, nel tantrismo sono anche attestate ritualizzazioni dell’orgiasmo sessuale, sulla stessa linea di quelle che abbiamo indicato per l’uso delle bevande inebrianti.

Di nuovo, si tratta di riti praticati da un circolo costituito da coppie. La norma, di usare soltanto la propria moglie, formulata per i gradi inferiori, è revocata nel caso del vero vîra: questi può avere il rapporto con qualsiasi donna. Viene anche considerato il cosidetto «matrimonio di Civa» (dio che prende volentieri sotto la sua protezione tutto ciò che esce dalle regole). Si tratta di una unione temporanea, sebbene rinnovabile, con una giovane da usare nelcakra, presa con sé senza i riti del matrimonio tradizionale indù. 

Soltanto i pacu sono esclusi, qualunque sia la casta a cui appartengono. Già una ritualizzazione è da supporsi con riferimento al numero delle coppie – cinquanta -, questo essendo il numero delle lettere dell’alfabeto sanscrito le quali, a loro volta, come si è visto, vengono messe in relazione con poteri cosmici. Le coppie formano un cerchio al centro del quale si trova il «signore del circolo», ilcakrecvara, cno la sua compagna. Risponde parimenti a un simbolismo e ad un ritualismo il fatto che mentre le donne dei partecipanti sono discinte, quella del «signore del circolo» è completamente nuda. 

Come ogni donna corrisponde alla Çakti o a prakrti, così la donna del tutto nuda è immagine della Çakti o di prakrti libera da ogni forma, ossia allo stato elementare. Purtroppo non sono noti testi con dettagli sullo sviluppo della cerimonia orgiastica. Come nel caso delle bevande inebrianti, è da supporsi che si formi un clima magico-estatico collettivo e una specie di vortice fluidico avente il centro nella coppia in mezzo al circolo. Questa supposizione potrebbe essere convalidata dal fatto che sono attestati casi di cakra del genere convocati a fini puramente operativi: ad esempio, per propiziare l’esito positivo di spedizioni progettate da un sovrano. 

Allora si tratterebbe del suscitamento di uno stato atto a rendere efficace un’azione magica avente, in questo caso, un fine estrinseco e del tutto profano. Se invece il fine è immanente e spirituale, per le stesse cerimonie collettive orgiastiche sessuali del pancatattva il quadro è lo stesso di quello considerato per l’amplesso di una singola coppia. Ogni uomo incarna il principio Civa opurusha, ogni donna il principio Çakti o prakrti.

Nel rito, l’uomo si identifica con l’un principio, la donna con l’altro principio. La loro unione riproduce quella della coppia divina; i due principî, civaico-maschile e çaktico-femminile, che nel mondo manifestato e condizionato appaiono separati secondo la dualità della quale quella dei sessi, di uomo e donna, è una espressione precisa, vanno per un istante – in quello dell’orgasmo sessuale – a ricongiungersi evocando «Civa androgino» e l’unità del Principio. Dal punto di vista dell’esperienza, in questi termini l’unione sessuale avrebbe un potere liberatore, sospenderebbe la legge della dualità, produrrebbe un’apertura estatica, porterebbe per un istante di là dalla coscienza individuale e samsârica. 

L’uomo e la donna divenendo momentaneamente identici ai loro rispettivi principi ontologici, a Civa e alla Devî, presenti nel loro essere e nel loro corpo, ed essendo sospesa la legge dualistica, in ciò che viene chiamato samarasa, ossia nella simultaneità dell’ebrezza, dell’orgasmo e del rapimento che nell’amplesso unisce i due esseri, si ritiene che si possa suscitare lo stesso samatâ, lo stato di «identità» e di trascendenza, ilsahaja, ovvero che si ottenga una forma speciale di paicere esaltato e trasfigurato, presentimento della stessasambhodi, ossia dell’illuminazione assoluta, e del sahaja, l’incondizionato. 

A questa stregua, il Kulârnavatantragiunge a dire che solamente per mezzo dell’unione sessuale l’unione suprema può essere raggiunta. Tutto ciò porta evidentemente ad un piano assai più differenziato di quello delle pratiche a carattere orgiastico collettivo. In effetti, alle esperienze sessuali a carattere più o meno estatico vanno distinte quelle di tipo propriamente iniziatico e yoghico, per le quali l’unione sessuale deve seguire uno speciale regime, viene applicata una tecnica precisa, viene accentuato il processo della ritualizzazione e delle evocazioni. 

Ciò sta dunque a definire un livello ulteriore del rapporto tantrico con la donna, e entrano in questione soltanto pratiche compiute da una singola coppia. Intanto alcuni dettagli potranno offrire un certo interesse. In primo luogo, oltre a çakti, la giovane donna che partecipa alpancatattva e a riti analoghi viene chiamata ratî. Questa denominazione vuol dire «il principio di rasa», e rasa, a sua volta, significa rapimento, emozione intensa e anche orgasmo. A tale riguardo vi è da rilevare che l’antica tradizione indù aveva già associato il principio dell’ebrezza alla Grande Dea. È stato osservato che una delle forme di essa era Varunanî. 

Ma, nella lingua pâli, Vârunî designa una bevanda inebriante e anche una donna inebriata. Non vi è dubbio circa la relazione fra Vârunî e le bevande inebrianti, tanto che in certi testi «bere Devî Vârunî (la dea Vârunî)» significa bere tali bevande. Perfino negli inni del severo Cankara la dea è associata ad esse, tiene una coppa o è presa dall’ebrezza. Così, in questo archetipo o immagine divina viene sottolineato l’aspetto della donna quale incarnazione del rapimento e dell’ebrezza, tanto da condurre all’associazione del rapporto con la donna con quello delle bevande inebrianti nel rituale segreto della Via Della Mano Sinistra. Concludendo, il nome di ratî per la compagna del vîra, designa «colei la cui sotanza è l’ebrezza».

La scuola Sahajiyâ ha elaborato tutta una classificazione quasi scolastica delle ratî, indicando il tipo più adatto per le pratiche a finalità iniziatica, definito vicesha-ratî e presentato come un tipo eccezionale. Sempre a livello iniziatico vien detto che mentre il vîra dei gradi inferiori dovrebbe usare soltanto la propria donna, per il vero siddha questa restrizione cessa di valere, egli può usare nel rito qualsiasi donna; non sono poste nemmeno restrizioni di casta, anzi spesso nei testi sia del Vajrayâna che tantrico-vishnuiti come compagne del vîra vengono presentati tipi di giovani donne che dal punto di vista occidentale forse verrebbero chiamate dissolute. 

In effetti qui non si tratta più dell’unione-rito tradizionale delle caste superiori arie ma, in fondo, di una operazione tecnica a carattere magico e yoghico nella quale la donna non ha valore come una particolare donna ma in relazione alla forza elementare di cui essa dispone o può ricevere, al suo essere una specie di combustibile fluidico per un processo di arsione. 

Nel tantrismo vishnuita viene in fondo ratificata l’irregolarità già per il fatto che come la coppia divina, che l’uomo e la donna dovrebbro incarnare unendosi, viene indicata quella di Krshna e Râdhâ, coppia che viola il vincolo matrimoniale, e che il tipo dell’amore veramente intenso e utile non è visto nell’amore coniugale, ma nell’amoreparakîyâ, che non è l’amore per la propria moglie, o è l’amore per una ragazza giovanissima. In certi testi viene considerata una specie di graduazione della nudità della donna quando essa viene usata. 

Abbiamo già detto che nei riti collettivi in catena soltanto il «signore del circolo» usa la compagna completamente nuda. Un uso del genre non verrebbe ammesso per tutti, ma solo per i vîra dei gradi superiori. Le implicazioni ritualistico- simboliche di questa norma sono evidenti: la nudità completa della donna, incarnazione di Çakti, evoca lo stato nudo, elementare della stessa Çakti.


Ora, ad un livello superiore, dove al ritualismo e al simbolismo si associa l’evocazione magica, alla completa nudità fisica può far da controparte la donna che si sveste della sua particolarità, del suo elemento umano-personale e che diviene una incarnazione della «Donna assoluta», dunque di un potere che può essere pericoloso, tanto da imporre l’anzidetta restrizione dell’uso della donna completamente nuda (nel duplice senso) a coloro che hanno una qualificazione (una qualificaziione civaica) tale, che esperienze del genere non siano pericolose. 

Nell’ermetismo alchemico si può forse raccogliere una corrispondente idea del detto: «Beati gli Atteoni che possono vedere la Diana nuda senza perire» - Diana invulnerabile e mortale. Sul piano di pratiche individuali a carattere iniziatico, viene detto che la giovane, prima di essere usata, va consacrata: essa deve essere anche iniziata e istruita nell’arte dellemudrâ, delle posizioni magico-rituali, il suo corpo deve essere reso vivente con la tecnica del nyâsa. È così che la donna, oltre che ratî e çakti, talvolta viene chiamata essa stessa mudrâ, parola che designa le posizioni rituali yoghiche tenute a provocare un determinato stato fluidico. 

Qusto stesso termine designa dunque la giovane non solo come riferimento alle posture che assumerà nell’atto di amore ma anche all’evocazione di una forza in lei che l’assimila ed una forma magica della divinità o a un attributo divino. Ancora una designazione della donna è lâta, e un nome della pratica sessuale è latâ-sâdhana. Lâta significa pianta rampicante. Si allude ad una posizione in cui la donna si avvinghia all’uomo seduto, ed è lei ad avere la parte attiva nell’amplesso, tanto da sensibilizzare e riprodurre su questo stesso piano i significati metafisici del maschile e del feminile. 

Peraltro nei testi si fa spesso cenno ad una fase preliminare o dhyâna preliminare avente per oggetto la visione degli âsana (delle posizioni rituali) della coppia divina, di Civa unito a Çakti o Kâlî. La giovane va amata «secondo il rito» - nâtikâ-mayet striyam. Prima essa deve essere pûiyâ e poi bhogyâ, ossia prima «adorata» e poi posseduta e goduta.

Il senso dell’adorazione varia a seconda dei livelli; al livello magico- iniziatico, essa equivale alla già detta animazione e proiezione di una immagine per mezzo della fantasia magica, fino ad una evocazione, alla «chiamata» del devatânella persona, nel corpo e nella carne della giovane. Per designare questo procedimento è stato usato il termine tecnico dropa, che significa «l’imposizione di una natura diversa» all’oggetto, benchè la forma, le sembianze sensibili restino la stesse: nel senso di una integrazione del fisico nel superfisico. 

Nel presente caso, si tratta appunto del processo di momentanea transmutazione della donna, suscitante in lei una «presenza reale», la «donna assoluta». L’âropa viene considerato come una condizione imprescindibile. Oltre a ratî, çakti, mudrâ e latâ, alle donne usate in queste pratiche sessuali viene dato il nome di vidyâ, parola che vuol dire conoscenza, sapienza, ma non in senso astratto e intellettualistico ma come potere che risveglia e trasfigura. 

Ciò ha relazione con un aspetto del feminile a cui si possono probabilmente associare le allusioni di alcuni testi alla donna quale guru, alla «donna iniziatrice», o «matrice della conoscenza trascendente». Non è escluso che, in parte, simili accenni riportino ad un’era ginecocratica (specie quando si afferma la superiorità dell’iniziazione conferita da una donna), a quei ‘Misteri della Donna’ che sono attestati anche nell’antico

Occidente e che non sono privi di relazione con la stessa prostituzione sacra esercitata nel segno di una divinità feminile, della Grande Dea. 

Qui l’uomo soltanto attraverso la donna e l’unione con lei partecipa al sacrum. Ma è legittimo pensare che tutto ciò cada in margine deltantrismo, che nel caso del tantrismo ci si debba riferire soprattutto al principio generale, che Civa (di cui l’uomo incarna il principio) non è capace di azione se non è vivificato dalla Çakti. In questi termini alla yoginî, alla compagna del vîra, viene attribuito il potere di ‘liberare l’essenza dell’Io’.

Già di Durgâ in un inno Vicvasâra-tantra è detto, che essa è ‘la dispensatrice di buddhi’ significando l’intelletto trascendente. In un suo altro aspetto, la donna contiene dunque potenzialmente questo principio che essa lascia agire insieme all’ebrezza e all’estasi che procura. Così nei Tantra buddhisti, nei quali prajnâ ha lo stesso significato di vidyâ, vengono presentate figure poco ortodosse di buddha i quali conseguono l’illuminazione grazie al congiungimento con una giovane donna, mentre sul piano metafisico come stato supremo viene indicato quello delmahâsukha-kâya, che sta al di là del semplice nirvâna; in esso il Buddha è ‘abbracciato’ dalla Çakti, da Târâ: inseparabile da lei, grazie all’estasi di cui essa è la fonte e alla potenza creatrice di cui è l’origine, solo in esso i buddha si trovano nel pieno possesso del buddhatva. 

Sempre nel Vajrayâna, porta allo stesso punto l’applicazione sul piano operativo sessuale del principio del Mahâyâna, che la realizzazione richiede l’unione, presentata simbolicamente come un amplesso, di prajnâ e upâya, vale a dire della conoscenza illuminante (concepita come femminile) e del potere operante (concepito come maschile). Di nuovo, il simbolo qui viene tradotto in una realtà: la donna incorpora prajnâ, l’uomo upâya, l’unione sessuale viene chiamata vajrapadmasamskâra (samskâra = azione, sacramento o operazione magica; vajra e padma designazioni, nel linguaggio cifrato, dell’organo sessuale maschile e di quello femminile). 

Questa distribuzione delle parti da uomo e da donna sembra escludere una iniziazione a fondo ginecocratico, ossia con preminenza del principio femminile, e il tema dell’incesto ci riporta allo stesso punto. Come si è detto, in quanto generatrice dell’esaltazione e dell’estasi che rende vivente e illumina il principio ‘Io’ dell’uomo, potenziale portatore del diamante-folgore (‘la matrice del vajra’). 

Ma questa madre è anche la donna con cui ci si congiunge, che si possiede, nel quadro di una unione la quale, alla stregua di tale simbolismo, riveste dunque un carattere incestuoso, ed è da ritenersi che il punto del nascere o del ridestarsi del vajra sia anche quello in cui la çakti viene posseduta e assorbita. 

Si può presumere perciò, che dal punto di vista interno, l’amplesso comprenda due fasi, il senso delle quali forse è dato nel miglior modo dall’ermetismo alchemico europeo per mezzo del simbolismo della femmina lunare che dapprima acquista il sopravvento sul maschio solare, lo assorbe e lo fa sparire in sé; poi è il maschio ad affermarsi, a montare sulla femina e a ridurla alla propria natura – altro corrispondente simbolismo essendo quello della madre che genera il figlio e del figlio che successivamente genera la madre. 



In termini tantrici, ciò significa che la Çakti passa nella forma di Civa, che essa diviene la cidrûpinî-çakti, trasmutazione da noi già conosciuta sul piano cosmologico come il senso della seconda fase – della fase ascendente – della manifestazione. Peraltro, secondo questo particolare aspetto, nella compagna del vira entrerebbe in questione la qualità puramente çaktica, la ‘Donna assoluta’ portata da un desiderio elementare, presa dalla stessa forza scatenata che nell’amplesso cerca il vajra-sattva, il principio maschio che la placa, che ne risolve la tensione e la fiamma in fredda, pura luce nel segno dell’Uno magico. 

Per l’efficienza della pratica tantrica sembra dunque che la feminilità sia da ridestare appunto secondo la pura qualità çaktica, che essa debba agire come qualcosa di pericoloso e di disgregatore (così nel suggestivo simbolismo ermetico-alchemico l’uso della donna viene annoverato fra le cosidette ‘acque corrosive’): perché appunto questa è l’essenza della Via della Mano Sinistra: cercare situazioni dissolutive, ‘tossiche’, per trarne un esito di liberazione. Appunto per queste valenze della donna e per la natura degli stati suscitati dal congiungersi con lei, a chi segue la pura via ascetica e contemplativa in senso stretto il tenersi lontani da essa è precetto categorico.

Nel campo opposto, quando si richiede che la giovane da usare, a parte la qualificazione naturale, sia iniziata e adeguatamente addestrata, è verosimile che questo addestramento si estenda anche all’arte dell’amore fisico e a controparti magiche di essa. Già fisiologicamente, come vedremo, al livello puramente yoghico sembra essere presupposta, nelal giovane, una speciale padronanza del suo organo sessuale, del suo yoni. Del resto, chi conosce i trattati di erotica indù già sul piano profano trova indicate posizioni per l’amplesso che per le donne europee in nessun modo potrebbero entrare in questione perché presuppongono un vero e proprio non facile addestramento corporeo. 

Che il vîra non debba abbandonarsi e farsi soverchiare dall’esperienza, che dunque l’interpretazione sopra accennata del decorso di essa, nei termini delle due fasi alle quali si riferisce il simbolismo operativo ermetico-alchemico, sia adeguata, ciò risulta fuor da ogni possibilità di dubbio da dati molteplici. In genere, basterebbe riandare a quanto dicemmo sulla purificazione della volontà. «Coi sensi dominati, distaccato, impassibile di fronte alle coppie degli opposti, saldo nel puro principio della sua forza», con tale disposizione, viene detto, il vira pratica ilpancatattva. 

Il Kulârnava- tantra ripete che egli deve esser fermo di mente e di volontà, i suoi sensi debbono esser purificati e soggiogati e un altro testo specifica che questa padronanza va mantenuta in tutti gli stadi della «passione» (rasa), cioè in tutti gli stati suscitati dall’amplesso. La tendenza congenita del pacu a perdersi nel piacere fisico, nel piacere bramoso, ossia in ciò che volgarmente viene chiamato «voluttà», deve essere neutralizzata, e probabilmente nel senso più profondo è in questi termini che va intesa la «purità dei sensi», di cui si parla. 

Diffide contro l’abuso delle pratiche col sesso si trovano egualmente nei testi del Vajrayâna i quali chiamano «bestie a due gambe» non aventi nulla a che fare con gli iniziati, coloro che se ne rendono colpevoli. Ci sembra anche rivestire una particolare importanza la norma che il vira deve essere refrattario all’ipnosi, deve essere insuscettibile ad essere ipnotizzato. È assai verosimile che qui si abbia in vista il pericolo di subire una fascinazione deleteria nell’incontro con la donna çaktizzata e la possibilità di una corrispondente caduta. 

Viene anche detto che il corpo deve essere perfetto, deve essere reso forte, eventualmente ricorrendo all’hatha-yoga fisico, altrimetni l’esperienza cruciale può risolversi in un tramortimento o in uno svenimento. «Senza un corpo perfetto il sahaja non può essere realizzato». In relazione al principio che la padronanza di sé deve essere mantenuta in tutte le fasi in cui si sviluppa l’esperienza nell’amplesso, talvolta è stata considerata una precisa, corrispondente disciplina preliminare. 

Un rituale della scuola Sahajiyâ prescrive che l’uomo dovrebbe trovarsi insieme alla giovane che intende usare, e dovrebbe dormire dove lei dorme, senza toccarla, occupando un giaciglio separato, per ben quattro mesi; poi dovrebbe dormire insieme a lei standole a sinistra, egualmente per quattro mesi, e per ancora quattro mesi stando alla sua destra, sempre senza contatti carnali. Solo dopo di ciò dovrebbe aver luogo il congiungimento magico con la donna nuda, iniziando la fase operativa.

Verosimilmente, forme più semplificate di un’analoga disciplina preliminare sono state considerate. 
Il loro scopo non è certo di creare una consuetudine di vicinanza che spegnerebbe il desiderio, abituandosi nel contempo a padroneggiarlo. Non è escluso che siano state contemplate due fasi: l’una di un amplesso «sottile» e senza contatto (platonico) con la donna-dea fatta oggetto di «adorazione», fase che si continua in una seconda, in cui l’unione si sviluppa anche sul piano corporeo con l’amplesso «conforme al rito», che la presuppone. 

Una tale supposizione è resa verosimile dal fatto che proprio questa duplice fase viene considerata in certi insegnamenti di una magia sessuale ancor praticata in Occidente ai nostri giorni. Comunque, quell’addestramento preliminare alla padronanza di sé stando vicino alla donna appare avere una precisa ragion d’essere anche per il carattere della tecnica da seguire al livello yoghico, per prevenire il normale esito di una unione sessuale, come fra breve diremo. 

Su quest’ultimo grado facente parte dell’hatha-yoga vero e proprio dobbiamo ora portare l’attenzione. Non è facile raccogliere dai testi dettagli perché in genere viene usato un linguaggio cifrato polivalente; così accade che stessi termini ora abbiano un significato simbolico e alludano a principî ontologici e a operazioni spirituali, ora abbiano un significato concreto e operativo e si riferiscano ad organi, a sostanze corporee, ad azioni fisiche. 

Ad esempio, bindu, il «punto», termine della metafisica tantrica, può anche significare il seme maschile, lo sperma; il vajra può significare l’organo sessuale maschile, rajas il fluido femminile, mudrâ la donna, padma il suo sesso, lo yoni, e via dicendo. È da considerarsi, tuttavia, il caso che l’un significato non escluda l’altro, non solo perché ci si riferisce a piani diversi ma anche perché i significati o elementi materiali e perfino fisiologici, tutte le operazioni svolgendosi su un doppio piano, fisiologico e trasfisiologico. Comunque un punto sembra risultare in modo sufficientemente chiaro. Nell’hatha-yoga il congiungimento sessuale viene considerato come un mezzo per provocare una rottura violenta di livello della coscienza e un’apertura effettiva sulla trascendenza quando l’amplesso segue un particolare regime. 

L’essenza di tale regime è l’inibizione dell’eiaculazione da parte dell’uomo, del versamento del suo seme dentro la donna.. Il seme non deve essere emesso: bodhicittan notsrjet. In correlazione, l’orgasmo viene staccato dalle sue condizionalità fisiologiche e l’apice di esso, che abitualmente nell’uomo coincide con la crisi eiaculativa, si trasforma, da luogo alla folgorazione che spezza il limite della coscienza finita e conduce alla realizzazione dell’Uno.


A tanto, alcuni testi, come l’Hathayogapradipika, fanno intervenire anche procedimenti ausiliari, come la sospensione del soffio, anzi nella sua forma integrale, chiamata khecarî-mudrâ (qui mudrâ non significa la donna ma ha il senso normale di operazione – gesto- sigillo). Praticando la khecarî-mudrâ – viene detto - «l’emissione del seme non avviene anche se abbracciati da una giovane ardente femmina». Si parla anche di una speciale mudrâ la quale, in fondo, corrisponde al punto essenziale: solo che non bisogna lasciarsi fuorviare dalla lettera dei testi, secondo la quale il procedimento sembrerebbe essere soltanto fisiologico. 

«Anche se il fluido è disceso nell’organo sessuale – viene detto – egli [lo yogî] può farlo riascendere e riportarlo al luogo suo mediante la yoni-mudrâ». E ancora: «Ilbindu che sta per versarsi nella donna, mediante uno sforzo estremo deve essere costretto a riascendere... Lo yogî che in tal guisa rattiene il seme vince la morte, perché come il bindu versato conduce alla morte, così il bindutrattenuto conduce alla vita». A tale riguardo, un aiuto potrebbe essere dato da una donna adeguatamente addestrata con lo stringere col proprio organo sessuale, lo yoni, l’organo maschile, il lingam, quasi a strozzarlo, al preannunciarsi della crisi eiaculativa. 

Però non è facile immaginarsi la cosa: dato lo stato di turgescenza dell’organo maschile, anche nel caso di muscoli eccezionalmente sviluppati dello yoni, cioè della vagina (il constrictor cunni), non è verosimile che una tale iniziativa abbia una grande efficacia, anzi si potrebbe pensare che essa porti proprio al risultato opposto, perché solitamente essa aumenta l’eccitazione maschile provocando, rendendo incontenibile, l’eiaculazione. 

Comunque, a noi sembra che la tecnica riceva il suo giusto senso solamente nel contesto con altri testi dove l’inibizione della emissione del seme viene messa in relazione con la realizzazione della bindhu-siddhi, ossia con l’impadronirsi dell’energia che vi è contenuta, ed anche con la dottrina occulta circa l’elemento senza- morte, o ambrosia, che scende dal centro della fronte e viene divorato e arso sotto specie di seme, dal che deriverebbe la corruttibilità dell’organismo umano. 

Allora non si tratterebbe del procedimento meccanico di trattenere una sostanza organica e di dirigerne il movimento negli organi fisici, ma di un’azione essenzialmente interiore avente per oggetto la forza che si traduce, o «precipita» e degrada, in seme; azione, questa, il cui scopo sarebbe appunto sospendere tale precipitazione, portare ad agire la forza già in moto su un piano diverso, transfisiologico. A tale stregua si può capire che possa essere eventualmente d’aiuto l’accennata mudrâ della sospensione del soffio, evidentemente nell’apice dell’amplesso quando tutte le condizioni materiali e emozionali per la precipitazione del bindu già in moto e per la crisi della eiaculazione spermatica sarebbero presenti. 

Del resto, questa interpretazione potrebbe essere convalidata dalle indicazioni relative ad un’altra mudrâ, ad un altro gesto, l’amarolî-mudrâ, che è l’equivalente della vajroli-mudrâ maschile per la donna; alla donna si prescrive di operare un’analoga sospensione ed un’analoga ritenzione di un qualcosa, la designazione del quale nei testi è equivoca ma che è difficilmente interpretabile in termini puramente materiali, come nel caso del seme maschile.

Sempre in ordine alla non-emissione del seme, praticamente potrebbero venire considerati anche due fattori. Il primo è che nello stesso campo dell’amore sessuale profano in certi casi di un desiderio per la donna estremamente intenso l’effetto può essere appunto il non raggiungimento della eiaculazione. Il secondo fattore è che tutti i procedimenti evocatori provocano in via naturale uno spostamento della coscienza sul piano sottile in una specie di transe, e questo spostamento provoca a sua volta un distacco delle energie dal piano fisico e fisiologico, il che, di nuovo, può impedire l’eiaculazione (del resto, l’incapacità di raggiungere la crisi eiaculatoria orgastica è spesso attestata sul piano profano nel caso dell’uso di stupefacenti e di droghe – perché una tale uso provoca parimenti, sebbene in forma passiva, uno spostamento della coscienza sul piano sottile). 

Anche senza gli accennati, crudi procedimenti yoghici, questi due fattori, certamente presenti, non possono non agevolare l’operazione fondamentale, la vajroli-mudrâ. Arrestata la caduta del seme-bindu, verrebbe anche stabilizzato, in una forma esaltata e trasfigurata, in uno stato di transe attiva, ciò che abitualmente corrisponde al fugace punto culminante della crisi orgastica (stato «immobile», in cui trapassa quello «agitato» - samvrta – ossia orgastico nel senso comune). 

E si parla di una «unione che non ha fine», ossia di uno stato che dura assai a lungo, perché ci si rifà ad una teoria analoga a quella già riferita, ad esempio, circa il fuoco e gli altri elementi: come vi è un fuoco non-generato e sempre presente che si manifesta nell’una o nell’altra combustione, così esisterebbe una voluttà non generata,, corrispondente a quella dell’amplesso della coppia divina, di Civa e Çakti, della quale la voluttà provata dagli uomini e dalle donne che si uniscono sarebbe solo una manifestazione parziale momentanea, ridotta e contingente. 

Ebbene, si presume che l’amplesso magico soddisfacente alle condizioni dianzi indicate attivi, attiri e fissi un tale piacere nella sua forma trascendente, «priva di inizio e di fine». Donde il vertice orgastico che si protrae («che non ha fine»), in luogo del cadere, l’uomo e la donna, come abbattuti, dopo la breve crisi dell’orgasmo quale è abitualmente vissuto. Così nello stato chiamato samarasa, che è «identità di godimento» o estasi unitiva, fusione e assorbimento dissolutivo e esaltativo del principio maschile nella çakti della donna usata, al livello yoghico, di là dalle anticipazioni che possono aversi nelle stesse forme orgiastiche del rituale tantrico, si mira a vivere l’elemento folgore, ciò che è primordiale, «non generato», «non condizionato». 

Il termine «non generato», sahaja che ha dato il nome ad una corrispondente scuola, da Kânha (tarda scuola madhyâmika) viene usato, in fondo, come sinonimo di ‘vuoto’, ossia di trascendenza. Si parla di un «immobilizzare il re dello spirito mediante l’identità di godimento nello stato del non-generato», il che avrebbe per conseguenza l’immediata conquista del principio di goni magia, il superamento del tempo e della morte. L’unione sessuale trapassa nell’unione
di padma (simboleggiante la conoscenza illuminante ma, nella trasposizione del termine, anche l’organo e il fluido femminili) e di vajra (che è il principio spirituale attivo e l’organo maschile) avente per risultato lo stato di «vuoto».

Un testo ermetico kabbalistico, l’Asch Mezareph (V), indica il procedimento essenziale con una interpretazione esoterica dell’episodio biblico del colpo di lancia di Fineo che «trafisse insieme, al momento del loro congiungimento sessuale, in locis genitalibus, l’Israelita solare e la Madianita lunare» - aggiungendo: «Il dente e la forza del Ferro, agendo sulla materia, la purga di tutte le impurità, ... la lancia di Fineo non solo sgozza il Solfo maschio ma uccide anche la sua femmina ed essi muoiono mescolando il loro sangue in una stessa generazione. Allora hanno inizio i prodigi di Fineo». Da questo testo, anch’esso cifrato, si può raccogliere un analogo insegnamento di magia sessuale al livello iniziatico. 

È significativo che venga detto che in pratiche del genere si passa attraverso la morte per giungere alla vita, si conosce «la morte nell’amore». L’associazione di amore e morte, peraltro, è un noto tema ricorrente in molte tradizioni e nella stessa letteratura, tema che, di là da un romanticismo stereotipo, può essere portato su un piano operativo oggettivo. In fondo si tratta di far agire in pieno quella dimensione della trascendenza che si cela anche in ogni forma di amore sessuale profano intenso. 

Nel momento in cui, unito ad una donna, ilpacuI, l’uomo volgare, subisce il piacere vive l’affioramento di quella trascendenza come uno spasimo che lede, violenta e dissolve l’essere interiore (appunto questo è il significato effettivo della «voluttà» comune, nel suo aspetto più profondo), l’iniziato è supremamente attivo, provoca una specie di corto circuito folgorativo. 

L’arresto del seme specie se vi si associa quello del soffio «uccide il manas». Subentra lo stato di transe attiva col flusso «che risale la corrente» di là dalla condizionalità umana; in effetti, procedimento a ritroso, risali-corrente è una designazione della pratica. Conoscere questo procedimento – viene detto – è la cosa essenziale. 

Come un esempio di esposizioni cifrate, riferiamo un passo che è un commento di Shahidullah a Kânha e ai Dohâ-koca: «Il supremo, grande godimento – paramahâsukha – è la soppressione del pensiero affinchè il pensiero sia non-pensiero nello stato del non- generato. Quando il soffio e il pensiero sono soppressi nell’identità del godimento – samarasa – si raggiunge la suprema, grande gioia, il vero annientamento. Questa gioia dell’annientamento dell’Io la si può raggiungere nell’unione sessuale, nello stato di identità del godimento quando il cakra e il rajas vengono immobilizzati». 

Secondo questi insegnamenti, il rituale col sesso provocherebbe, come nell’hatha- yoga, l’arresto delle due correnti idâ epingalâ, di cui diremo più oltre, e l’ascesa della forza lungo la direzione mediana. La pratica dovrebbe venire eseguita soltanto nel cuore della notte, cosa che ha le sue ragioni analogiche e sottili. Anche mantra e immagini sembrano avere una parte nello sviluppo dell’operazione. Il mantra prevalentemente dato dai testi induisti è quello di Kâlî – KRIM. Si presuppone ovviamente che esso sia stato, in una certa misura, «svegliato». Ad esso associata, l’imagine-base nella pratica è quella della dea che si manifesta nella ratî – nella «donna ebrezza» - ed è questa donna. 

Circa le particolarità di tale immagine, esse rimandano a figure culturali, così sono tali che il loro potere suggestivo e suscitativo è strettamente legato a tutta la tradizione locale, indù o indo-tibetana. L’immagine di Kâlî – nuda, contornata in fiamme, con la chioma sciolta, con la collana delle teste recise, che danza selvaggiamente sul corpo immobile di Civa – probabilmente evoca qualcosa di ardente e di scatenato. Alcuni dettagli sono dati dalPrapancasâra-tantra (XVIII, 27 sgg.); in questo stesso testo è detto che la donna deve essere realizzata come fuoco – yoshâam agnim dhyâyîta.

Per le fasi successive dell’esperienza si fa riferimento al fuoco che, una volta consumato il  combustibile, passa allo stato sottile, sciolto dalla forma manifestata; allora la Çakti che abbraccia Civa si fa una sola cosa con lui – ciò corrisponderebbe al punto di rottura, alla trasformazione e allo sviluppo nel senza tempo del climax sessuale e orgastico, dalla eiaculazione del seme entro la donna. 

Data la costante, fedele riproduzione sul piano umano e concreto delle strutture simbolico-rituali e metafisiche, è verosimile che per le pratiche yoghico-sessuali ora descritte venga scelto il viparîtamaithuna, nel quale nell’iconografia viene sempre ritratto l’amplesso della coppia divina; come si è accennato, si tratta di una unione sessuale in cui è la donna, avvinghiata all’uomo immobile seduto (immobilità rituale e simbolo della natura di Civa), a compiere i movimenti. Da ciò si potrebbe passare al problema riguardante l’esperienza specifica vissuta dalla donna. 

È ovvio che al livello di un orgiasmo collettivo, sia promiscuo, sia ritualizzato, può venire supposta una uguale partecipazione dell’uomo e della donna. Al livello propriamente yoghico la situazione è poco chiara, anche se per l’uso del linguaggio cifrato e polivalente. Alcuni testi sembrano considerare, per la donna, una speciale mudrâ (qui nel senso di operazione o gesto), l’amaroli-mudrâ, quale controparte della vajroli-mudrâ, designazione dell’atto con cui l’uomo arresta il processo della precipitazione del seme e della sua eiaculazione. 

Nei testi sahajivâ la fissazione e l’immobilizzazione parrebbero sempre contemplare sia pel «seme» maschile (cukra) che per quello feminile e che le due operaioni debbano essere simultanee nell’uomo e nella donna al sollevarsi dell’onda orgastica. Ora, non si vede bene che cosa significhi il «seme» feminile. Si parla del «rajas della donna», ma rajas ha diversi significati, fra l’altro quelli di mestrui e di secrezioni vaginali.

Ora, i mestrui non possono di certo entrare in merito, ed è anche poco probabile che ci si riferisca alle secrezioni vaginali quando si parla di una ritenzione o immobilizzazione da parte della donna: tali secrezioni, in effetti, di solito accompagnano già i primi stadi dell’eccitazione femminile, del resto, in alcune donne possono anche quasi mancare. Meno che mai si può pensare all’ovulo della donna, il quale non scende affatto nell’utero al momento dell’orgasmo sessuale. 

Così si sarebbe portati ad una interpretazione non materiale e non fisiologica del «seme» della donna: si tratterebbe di una forza da arrestare nel punto in cui si degraderebbe e si perderebbe in un orgasmo sboccante nel piacere volgare. Non vedendosi come, altrimenti, si possa immaginare nella donna l’amarolî-mudrâ, da ciò risulterebbe confermata l’analoga interpretazione non fisiologica da noi data alla vajroli-mudrâ, ossia all’arresto del «seme» maschile. 

In ogni caso è ovvio che l’iniziativa della donna non deve pregiudicare quello che noi abbiamo chiamato il suo «potenziale di combustione», quindi la sua parte fondamentale. Infatti non si può pensare che le cose vadano altrimenti se viene detto che nell’amplesso il vira, attestato il suo seme, assorbe il rajas della donna di cui ha provocato l’emissione e se ne nutre. 

Il rajas femminile è dunque presente come la forza fluidica o magica che alimenta in tutto il suo sviluppo lo stato di samarasa, il quale, probabilmente, risulterebbe sincopato qualora la donna si tirasse indietro, non meno che nel caso in cui essa venisse meno, stroncata dalla crisi di un orgasmo nel modo sessuale. Infine, accenneremo ad una strana pratica sessuale del Vajrayâna il cui fine è la rigenerazione in un senso quasi letterale. Essa ha il nome di mahâyoga o di mahâsâdhana. È difficile definire il piano sul quale essa si svolge. Comunque, ad avere la parte principale sembrano essere immagini «realizzate».

L’uomo deve immaginarsi di essere morto all’esistenza presente e che, come una specie di seme fecondatore, ora penetri nella «matrice sovrannaturale», nel garbhadhâtu. In via preliminare, in una contemplazione, o dhyâna, avrà rievocato il processo che conduce ad una nascita umana. L’uomo evoca il cosidetto antarâbhava, ente che, secondo la conceduzione indù, è necessario, oltre al padre e alla madre che si uniscono, per la fecondazione. 

Nel contempo, si deve visualizzare il congiungersi del dio con la dea, e si deve suscitare in sé una brama intensa per la seconda, per Târâ. Allo stesso nodo che, secondo l’accennata concezione, il processo segreto di ogni concepimento è questo: l’antarâbhava, quando un uomo si accoppia con una donna, desidera la donna, si identifica con colui che sarà il padre e nella crisi orgastica entra il lei convogliandosi nel seme – così pure un processo analogo viene immaginato, all’antarâbhava, col quale lo yogî si è identificato sostituendosi però il vajra o «principio Buddha» portato dal dio che si unisce con Tarâ. 

Questo è il dhyâna preliminare inteso a creare, per così dire, lo scenario per l’unione sessuale che gli farà séguito oltre che ad evocare ed orientare forze interiori. Anche questa pratica comporta l’uso di mantrae la vivificazione del corpo della giovane per mezzo di un nyâsa. Seguono riti varî di consacrazione e di conferma. Questa pratica del tantrismo buddhista ha dunque un carattere complesso. È interessante, in essa, l’idea di fondo, che è quella di una regressione nello stato prenatale e di una rigenerazione de realizzare con le stesse forze che intervengono nella congiuntura che dà luogo al concepimento e ad una nascita fisica umana. 

Il praticante cerca di riprender contatto con tali forze e, dopo averle legate ad immagini trasformatrici, ripete l’atto procreativo però per una generazione che sarà trascendente e spirituale; è un distruggere la propria nascita ripetendo il «dramma» che l’ha determinata in un atto in cui all’antarâbhava samsârico si costituisce un principio avente la qualità Buddha o Civa e in cui nella donna terrestre che si possiede si evoca e si fa vivere la donna divina, 

Târâ. È in questi termini che, complessivamente e approssimativamente, si può raccogliere ciò che nel tantrismo riguarda l’uso del sesso, cercando di orientarsi nel meandro delle illusioni, del linguaggio cifrato e polivalente, delle immagini culturali e dei simboli. Nello yoga tantrico del sesso trova la sua applicazione più tipica il principio di suscitare ed assumere le forze del «desiderio» al fine di renderle autoconsuntive, di usarle in un modo che porti a trasformarne ed anzi a distruggerne la natura originaria. 

È così che proprio alla pratica che usa e esaspera la forza elementare della brama, cioè la sessualità, viene associato il mito di Civa quale asceta delle altezze montane che fulmina col suo occhio frontale Kâma, il dio dell’amore bramoso – mitologizzazione questo atto, di ciò che nella tecnica corrisponde alla vajroli-mudrâ. 

Infatti viene detto che il praticante che suscita la forza del desiderio e nell’amplesso fa japa (è il procedimento che risveglia i mantra) con una giovane çakti (= una donna) nuda diviene in terra il distruttore del dio dell’amore (smârahâra) egli «diviene lo stesso Civa che annienta Smâra, il dio della brama, col fuoco del suo occhio frontale quando questo dio, cercando di suscitare in lui il desiderio, tentò di farlo venir meno al suo yoga». 

Secondo testi civaiti, siffatte pratiche avrebbero un potere catartico; in virtù di esse, il kaula si libererebbe da ogni colpa. Questa sarebbe una via per realizzare la juvanmukti, ossia la liberazione già da vivi. L’apologetica tantrica finisce col presentare il kaula maestro nel pancatattva come un essere che assoggetta ogni potere innalzandosi su ogni sovrano e apparendo, in terra, come un veggente. Il punto di vista del tantrismo buddhista non è diverso. 

Si giunge a concepire un Buddha che avrebbe vinto Mâra (= Smâra), il dio della terra e del desiderio, che avrebbe conquistato la conoscenza trascendente e, con essa, forze magiche, per aver praticato i riti tantrici facenti uso della donna. 

A differenza di quanto è proprio ai vîra dei gradi inferiori e all’esperienza orgiastica promiscua dei «circoli», al livello dello yoga è possibile, tuttavia, che l’operazione di magia sessuale abbia un carattere eccezionale.

Il fine essendo la dischiusura iniziatica della coscienza, un’apertura quasi traumatica sull’incondizionato, una volta che si sia giunti a tanto usando donne si può andar oltre, abbandonando la pratica o ripetendola solo in determinate circostanze.