sabato 25 giugno 2022

L'ipnosi evocativa nel Ṛgveda


Pratiprasavah 


Storia dell'ipnosi regressiva

di Angelo Bona

È attualmente impossibile stabilire con certezza la data di compilazione del Ṛgveda (1). Si tratta di inni sacri che risalgono probabilmente al secondo millennio a.C., nel periodo compreso tra il 2000 a.C. e il 1700 a.C.(2), con la sua definitiva collocazione nella forma attuale, databile al VII sec. a.C.

La composizione dei Veda è avvenuta mediante canalizzazioni (trance) dei Maestri Spirituali o Rishi che poi hanno tramandato oralmente i messaggi dell'Uno, a quei tempi denominato Eka o Ekam (3).

Da questa sorgente di consapevolezza nacque lo Yoga con le sue pratiche di meditazione e di trance. L'ipnosi è in realtà un termine che interpreta soltanto in parte la fenomenologia di ricongiunzione con il nostro Sè.

L'antico termine sanscrito pratiprasavah significa "riassorbimento", "nascita a ritroso" e coincide con le piu' antiche pratiche yogiche dell'ipnosi regressiva già conosciute dalla tradizione piu' antica dei popoli di tradizione indoeuropea.

Hypnos possiede una radice linguistica indoeuropea. Anche il latino, il sanscrito, l'ittita conservano un ceppo comune. Un antico popolo, gli Arii (o Indoari) stanziatosi tra i Reno e gli Urali si espande nei millenni occupando l'Europa, l'Asia, l'India. La diffusione di questa civiltà è segnata da pietre miliari, i cosidetti kurgani, dolmen, menhir, tumuli che i "padri della parola" hanno eretto lungo il loro cammino.

Hypnos per la antica Grecia è il sonno, ma chi si addormenta, totalmente o in parte è soltanto la coscienza e la percezione razionale, mentre l'anima dell'individuo si risveglia.

L'ipnosi regressiva desta pertanto le esistenze sopite nel nostro archivio spirituale interiore e non determina affatto un "coma cognitivo" come parrebbe valutando il solo significato letterale.

La fede nella reincarnazione è un patrimonio di tutti i popoli antichi e nel Bŗhadāraņyaka Upanişad datata intorno al 700 a.C possiamo leggere:

"Come una ricamatrice presa la materia di un ricamo, tesse un'altra figura più nuova e più bella, così questo ātman allontanatosi dal corpo e resolo o inconscio, foggia un'altra forma più nuova e più bella, quella di uno dei Mani o di un Gandharva o di un dio, o di Prajāpati, o di Brama o di qualche altro essere". (4)

Questa è la prima frase che sancisce chiaramente il credo della reincarnazione, e quindi nelle vite precedenti, ma penso che le sue radici si perdano nella notte dei tempi. E' da notarsi come in questo passo si affermi che dall'incoscienza che sopraggiunge alla morte rinasca una nuova forma di esistenza. Naturalmente l'ātman (spirito) rianima un corpo apportando in esso il karma pregresso. 

Leggo ancora: "L'ātman è il possessore della conoscenza: anche la conoscenza se ne va quindi con lui, e altresì rimangono a lui attaccati il sapere, le opere e l'esperienza del passato".(5)

Non sono soltanto parole, ma una cultura spirituale che volutamente il moderno mondo occidentale ha opportunisticamente rimosso per finalità prettamente commerciali. Eppure anche in Europa, il germoglio dell'Uno era meravigliosamente nato. Infatti, se ci spostiamo dall'India alla Grecia Classica, non possiamo fare a meno di sostare a Delfi che divenne uno dei maggiori centri religiosi del mondo.

Già in età micenea, dal 1500 a.C, responsi e profezie venivano proferti dalla Pizia, Sacerdotessa che in trance profonda pronunciava gli Oracoli di Apollo. Ella rimaneva appollaiata su un tripode ad inalare i fumi emessi dal suolo che la inducevano in trance e priva di coscienza razionale canalizzava per i pellegrini che raggiungevano il tempio la saggezza degli dei.(6)

I grandi saggi e filosofi greci conoscevano l'ipnosi regressiva, il sonno che risvegliava le anime del tempo. Pitagora, Socrate, Platone hanno dedicato molta attenzione durante la loro ricerca filosofica al viaggio dell'anima oltre il confine della morte.

La majeutica socratica o arte della levatrice rappresenta una mirabile educazione a ritrovare se stessi tramite il dialogo che confonde la presunzione di sapere dell’adepto. Mi piace pensare che questa “tecnica di confusione” potesse essere attuata anche in stato di trance.

Il mito platonico di Er è tra i documenti piu' importanti per sancire il credo dei saggi greci nella reincarnazione. Er, eroe della Panfilia muore in battaglia ed il suo corpo viene deposto sul rogo, ma prima che la pira arda si risveglia e racconta il suo sconcertante viaggio nell'aldilà. Le anime che non si erano realizzate in vita dovevano reincarnarsi compiendo un nuovo ciclo evolutivo. 

Spostandoci ancora in India, intorno al 700 a.C, Patanjali, ritenuto il massimo esponente del Raja Yoga compose i suoi Yoga Sutra nei quali riprese l'antico concetto di pratiprasavah (Prati Prasav, rinascita, re-birth, riassorbimento del cuore o nascita a ritroso) considerato come ho detto l'antica definizione dell'ipnosi regressiva. (7),(8).

Con un salto in avanti nel tempo di duemila anni, leggiamo il primo resoconto di una regressione ipnotica a vita precedente. Nel 1862, un principe tedesco, tale Galitzin, indusse in sogno ipnotico una donna che manifestò una spontanea xenoglossia. Senza conoscere affatto il francese iniziò a parlare correttamente in questo idioma, anziché nel proprio dialetto tedesco. 

Rivelò con precisione di un delitto accaduto in un luogo ed in un definito tempo. Galitzin verificò di persona la veridicità del racconto. Le testimonianze dei vecchi contadini locali confermarono l'omicidio.

Ai primi del novecento, Theodore Flournoy professore di psicologia dell'Università di Ginevra e grande primo detrattore dell'ipnosi regressiva teorizzò il riaffiorare , per quanto concerne i vissuti di vite pregresse, di criptoestesie. Con questo "criptico" vocabolo si intendono "ricordi inconsci dimenticati" con cui Flournoy tentò di spiegare il complesso mondo delle memorie delle esistenze pregresse.

Ulteriormente coniò il neologismo "mitopoietico" riferendosi alla capacità dell'inconscio di creare, dal greco poieo e da muzos che intende "racconto favoloso, mito, favola, leggenda". Egli affermò che nei sogni, nella trance ipnotica, medianica o nel delirio, si possono produrre rappresentazioni fantastiche che nulla hanno di reale. (9)

Detrattori e sostenitori dell'ipnosi regressiva e della reincarnazione iniziarono da questo momento a battersi con una sete di dimostratività che esula completamente dal mio intento. Non mi interessa sancire scientificamente contenuti che riguardano la mia fede e la mia spontanea spinta di continua ricerca.

Parlando dell'ipnosi, Milton Erickson, grande psichiatra americano che concepiva l'inconscio come universo creativo affermava:

"...è necessario tramite una serie di suggestioni di stanchezza e di sopore portare il paziente ad una condizione di sonno profondo e riposante.(10) Successivamente si induce il fenomeno chiamato regressione". 

Milton Erickson intendeva con questo termine la capacità dei soggetti che abbiano ricevuto appropriate suggestioni e istruzioni di richiamare in vita ricordi, schemi comportamentali e abitudini di un periodo precedente che può giungere fino all'infanzia.(11) I sostenitori della regressione a vite precedenti affermano invece che si possa retrocedere a tempi antecedenti la vita attuale. La liberazione (abreazione) e la rielaborazione dei contenuti emozionali favorirebbero il riequilibrio psicologico del soggetto.

Ian Stevenson, psichiatra di origine canadese, portò gli studi riguardanti la reincarnazione ad un livello universitario, nell'Ateneo della Virginia University. Fin dagli anni 70 la sua ricerca si estese all'ipnosi regressiva ed allo studio delle retrocognizioni ipnotiche. Stevenson ha analizzato centinaia di casi, specie di bambini, mediante i quali ha accertato, con la cautela ed il rigore che contraddistinsero tutta la sua opera, alcune inconfutabili prove di vite precedenti.

Negli stessi anni molti colleghi in tutto il mondo si sono interessati all'ipnosi regressiva come lo psichiatra inglese Danys Kelsey(12), lo psicologo psicoterapeuta tedesco Thorwald Dethlefsen (13) e gli psichiatri americani Raymond Moody eBrian Weiss(14). A questi ultimi si deve riconoscere il merito dell' enorme divulgazione che la terapia delle vite precedenti ha avuto in tutto il mondo.

Considero Raymond Moody il vero pioniere della moderna ipnosi regressiva, il primo al mondo che ha avuto il coraggio di affermare che la regressione ipnotica permette: "una rivelazione dell'inconscio più profondo, che ci dà la prova di una vita precedente" (15) Perchè esalto l'intuizione di Raymond Moody sull'ipnosi regressiva? Perchè primo al mondo ha innalzato la metodica a pratica terapeutica e non soltanto a modello di ricerca filosofica e scientifica.

Nella mia quotidiana ricerca ripercorro antichissime strade che nascono dalle sorgenti del Gange.

Esiste una memoria che l'acqua conserva, di ciclo in ciclo nel suo eterno ritornare.

La trance regressiva è in grado di svelare vite assopite nel nostro inconscio e le dinamiche karmiche della nostra attuale evoluzione. Il fine non è quello di ritornare, di recidivare le nostre morti, ma di liberarci dal ciclo delle rinascite terrene, dalla dentata ruota del Samsara. 

L'ipnosi regressiva addormenta quindi le pretese del nostro ego e risveglia le facoltà del Sè indicandoci una via di liberazione e di consapevolezza dell'Uno.(16)

Angelo Bona




Riferimenti

1.   Rgveda, Le strofe della sapienza, a cura di Saverio Sani, Letteratura Universale Marsilio, Venezia, 2000.2.   Raimon Panikkar, I Veda, Mantramanjari, BUR I° e II° Vol, Milano, 20013.   Raimon Panikkar, I Veda Mantramanjari, op cit. pag. 899.4.   Upaniṣad Vediche (a cura di Carlo Della Casa). Milano, TEA, 20005.   Upaniṣad Vediche, op. cit.6.   Delcourt Marie, L'Oracolo di Delfi, ECIG, Genova, 1998.7.   Sgaravatti Guido, Patanjali Yogasutra, UNIONTRUST, Abano Terme, 2009.8.   Taimni, I, K. La Scienza dello Yoga, Commento agli yogasutra di Patanjali, Ubaldini Editore, Roma, 1970.9.   F. Flournnoy, Des Indes à la Planate Mars, Ètude sur un cas de sonnamboulisme avec glossolalie( Atar,Parigi e Ginevra 1900. Riferito da H.F Hellenberg op pag 370-373)10. M. H. Erickson, Opere. L'ipnoterapia innovatrice, Vol. IV, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1984, p. 3511. M. H. Erickson, Opere. L'ipnoterapia innovatrice, Vol. IV, pag 38.12. Ian Stevenson, Le prove della reincarnazione, Armenia, Milano 1999.13. Joan Grant, Danys Kelsey, Many Lifetimes,Ariel Press, Atlanta, 1967.14. Torwald Dethflesen, Il destino come scelta, Mediterranee Roma, 2000.15. R. A. Moody, Ricordi di altre vite, Oscar Mondadori, Milano,1996, p. 21016. Angelo Bona, Il Palpito dell'Uno, Oscar Mondadori, Milano, 2009.

venerdì 17 giugno 2022

La Porta Ermetica di G. Kremmerz


The Alchemical Door 


La Porta Ermetica 

di G. Kremmerz


E vi farò innanzi tutto comprendere una cosa che invano cercherete di capire nei libri classici:

che gli antichi conoscevano e praticavano due magie, la eonica e la trasmutatrice, la prima isiaca, cioè lunare; la seconda ammonia, cioè solare.

Per avere un concetto esatto delle due magie, bisogna comprendere che cosa voleva indicare il sole e che cosa la luna, Amun Alzobar e Iside-Astarte.

Amun, dio solare, è dipinto cosi in uno scongiuro magico:

Tu sei il bello e splendente imperatore della terra, hai le corna del maschio caprone che da il latte alle pecore, sei la forza che cangi l'arena in oro, la pietra dura (silice) in gemma, e tutto trasmuti in ceneri, uomini di oro e terra preziosa (sic); tu fai il fulmine e dissipi il fulmine, dai l'acqua ai fiumi e sangue alle vene; tu fai invincibile il leone, tu calmi le tempeste in mare, tu tocchi e generi, tu tocchi e rendi sterile; tu sei il fortissimo trasmutatore che tutte le dee amano e temono.

Si comprende da questa traduzione approssimativa che la forza attiva della natura in tutte le sue trasmutazioni attive era Amun o Sole.

Iside-Astarte è dipinta cosi:

Bella, la più bella dea, utero di oro, che Amun ha baciato (impregnato), le tue poppe innumerevoli sprizzano latte, e ogni goccia del tuo latte è una mutazione di grazia; i tuoi occhi fontana di luce perché Amun il vittorioso vi ha raddolcito (temperato) il suo fuoco...

Nella dea era l'azione della trasmutazione nel periodo gestatorio della sua manifestazione reale, di cui un utero Iside-Astarte o Luna s'incaricava.

Quindi due magie che prendono nome dai due fattori della realizzazione:

  1. Ammonia la magia della forza capronica capace di imporre la trasmutazione nel mago e fuori; 

  2. Isiaca quella che utilizza le forze come le trova e pei fini a cui possono servire.

Alla prima non è possibile pensare per ora, è la magia dei pochissimi che arrivano vivi ad essere dii o numi.

È della seconda magia, magia bianca o lunare, argentea e quasi di forma religiosa, di cui noi ci occuperemo largamente e liberamente: quelli che percorreranno trionfalmente tutta la magia eonica troveranno l'iniziatore ammonio che li aspetta.

(G. Kremmerz, La porta ermetica, 1910, cap. XIV)

sabato 11 giugno 2022

Il Potere del Denaro - Aurobindo e Mère


Money, Get Away 




Il denaro
(Sri Aurobindo e Mère)
«Il denaro è il segno visibile di una forza universale; questa forza, nella sua manifestazione sulla terra, lavora sui piani vitale e fisico ed è indispensabile alla pienezza della vita esteriore. Nella sua origine e nella sua azione reale, essa appartiene al Divino. 
Ma, come le altre potenze del Divino, essa è delegata quaggiù e, nell’ignoranza della Natura inferiore, può essere usata malamente per le soddisfazioni dell’ ego o detenuta dalle influenze asuriche e distolta per i loro fini.

Essa è veramente una delle tre forze (il potere, il denaro e il sesso) che esercitano la più forte attrazione sull’ ego umano e sull’ asura, e che in genere sono mal possedute e male impiegate da coloro che le detengono…

Per questa ragione la maggior parte delle discipline spirituali… dichiarano che una vita di povertà e indigenza è l’unica condizione spirituale. Ma questo è un errore che lascia il potere tra le mani delle forze ostili. Riconquistare il denaro per il Divino, al quale appartiene, e utilizzarlo divinamente per la vita divina, tale è la via supermentale per il sadhaka.».
«…il potere del denaro è ora sotto l’influenza o tra le mani delle forze e degli esseri del mondo vitale. È per via di questa influenza che non si vede mai il denaro confluire, in somme considerevoli, verso la causa della verità. Sempre viene fuorviato, perché è sotto gli artigli delle forze avverse ed è uno dei loro principali mezzi per mantenere il loro dominio sulla terra.
Il controllo delle forze ostili sul potere del denaro è potentemente, totalmente e accuratamente organizzato, ed è un’impresa difficilissima tentare di ottenere una qualsiasi somma da questa organizzazione così compatta. Ogni volta che si cerca di togliere un po’ di denaro ai suoi attuali guardiani, bisogna ingaggiare una feroce battaglia.
( Mère Conversazione del 10 marzo 1929)
“Come sapere se la propria maniera d’impiegare il denaro è conforme alla volontà divina?”


Anzitutto bisogna sapere qual è la volontà divina. Ma c’è un mezzo più sicuro, ed è sottomettere il denaro all’opera divina, se non si è sicuri di sé. «Divinamente» vuol dire al servizio del Divino – vuol dire non utilizzare il denaro per la propria soddisfazione personale, ma metterlo al servizio del Divino.

“Sri Aurobindo parla di un «vincolo di debolezza per le abitudini create dal possesso delle ricchezze».”

Quando si è ricchi, quando si ha molto denaro da spendere, in genere lo si spende per cose piacevoli; si prende l’abitudine a queste cose, ci si attacca ad esse e, se un giorno il denaro ci lascia, se ne sente la mancanza, ci si sente disgraziati e infelici e del tutto smarriti perché non si ha più ciò a cui si era abituati.

È un vincolo, una schiavitù dovuta a debolezza. Per colui che è completamente distaccato, vivere fra queste cose va bene, e va altrettanto bene quando queste cose lo abbandonano, cioè gli è del tutto indifferente. È l’atteggiamento giusto: quando le cose ci sono, lui se ne serve; quando non ci sono, ne fa a meno. E per la sua coscienza interiore ciò non fa alcuna differenza. Questo vi stupisce, ma è così.

“Se si ha il potere di guadagnare molto denaro, vuol forse dire che si ha un certo controllo sulle forze terrestri?”

Dipende da come lo guadagnate. Se lo guadagnate con mezzi disonesti, non si può dire che abbiate un controllo. Ma se una persona fa scrupolosamente il proprio dovere e vede affluire ad essa il denaro, è evidente che esercita un controllo su quelle forze.

Vi sono infatti persone che hanno il potere di attirare il denaro senza aver affatto bisogno di fare cose disoneste. Altre, per guadagnare anche solo pochi soldi, devono trovare ogni sorta di sistemi più o meno puliti. Allora non si può proprio dire…

Quando si vede un uomo ricco, si pensa che senz’altro eserciti un controllo sulle forze del denaro – no, non necessariamente. Ma se un uomo rimane perfettamente onesto e fa ciò che considera essere il suo dovere senza preoccuparsi di guadagnare denaro, e il denaro gli arriva, è evidente che ha una certa affinità con quelle forze.

“Si dice che «non si può fare un mucchio senza fare un buco», che non ci si può arricchire senza impoverire qualcuno. È vero?”

Non è esatto. Se si ‘produce qualcosa, invece di un impoverimento è un arricchimento; semplicemente, si mette in circolazione nel mondo qualcos’altro che ha un valore equivalente a quello del denaro. Dire che «non si può fare un mucchio senza fare un buco», va bene per coloro che speculano, che fanno affari in Borsa o nella finanza; in tal caso il detto è vero, poiché, infatti, è impossibile che una persona abbia un successo finanziario in affari di pura speculazione senza che ciò vada a detrimento di un’altra.

Tutto qui. Altrimenti, un produttore non fa un buco se ammucchia denaro in cambio di ciò che produce. Certamente, c’è la questione del valore della produzione, ma se la produzione è veramente un guadagno per la ricchezza umana in generale, non si fa affatto un buco, anzi si aumenta quella ricchezza. E questo vale non soltanto in campo materiale, ma è la stessa cosa anche per l’arte, per la letteratura o la scienza, e per qualsiasi produzione.

“Quando mi occupavo di import-export avevo sempre l’impressione di derubare il prossimo.”

È vivere a spese degli altri, perché si moltiplicano gli intermediari. Naturalmente, ciò è forse comodo, pratico, ma da un punto di vista generale, e soprattutto per il modo in cui è praticato, è vivere a spese del produttore e dei consumatori Ci si fa intermediari, non certo con l’idea di servire gli altri (infatti, non c’è una persona su un milione che lo faccia con questo intento), ma perché è un modo comodo di guadagnare denaro senza fatica. Tuttavia, fra i modi di guadagnare denaro senza fatica, ve ne sono di peggiori di questo! Essi sono innumerevoli.

”Certi amici di fuori mi hanno spesso posto questa domanda: «Quando si è costretti a guadagnarsi da vivere, si deve semplicemente adeguarsi al codice di onestà corrente oppure si dev’essere ancora più rigorosi?»

Dipende dall’atteggiamento che il vostro amico ha preso nella vita. Se vuole essere un sadhaka, è indispensabile che non dia alcun valore alle regole della morale corrente. Ora, se è un uomo comune che vive la vita comune, è una questione puramente pratica, cioè bisogna che si adegui alle leggi del paese in si vive per non avere noie!

Ma tutte queste cose che nella vita comune hanno un valore molto relativo e che possono essere considerate con una certa indulgenza, cambiano totalmente dall’istante in cui si decide di fare uno yoga e di entrare nella vita divina. In tal caso tutti i valori cambiano totalmente; ciò che è onesto nella vita comune non è più affatto onesto per voi. D’altronde, c’è un tale capovolgimento di valori che non si può più usare il linguaggio comune.

Se ci si vuole dedicare alla vita divina, bisogna farlo veramente, cioè darsi per intero, non fare più nulla nel proprio interesse, dipendere esclusivamente dalla Potenza divina alla quale ci si affida. Tutto cambia totalmente, tutto, tutto, è un capovolgimento. Ciò che ho appena letto in questo libro si applica unicamente a coloro che vogliono fare uno yoga; per gli altri non ha senso, è un linguaggio senza senso, ma per coloro che vogliono fare uno yoga è imperativo.

Si tratta sempre della stessa cosa in tutto ciò che abbiamo letto negli ultimi tempi: bisogna stare attenti a non tenere un piede qua e uno là, a non essere in due barche diverse, ciascuna delle quali segue il proprio percorso. È ciò che diceva Sri Aurobindo: non bisogna condurre una «doppia vita». Bisogna abbandonare una cosa oppure l’altra – non si possono seguire entrambe.

D’altronde, ciò non vuol dire che si sia costretti ad uscire dalle proprie condizioni di vita: solo l’atteggiamento interiore deve cambiare completamente. Si può fare ciò che si ha l’abitudine di fare, ma farlo con un atteggiamento del tutto diverso. Non dico che sia necessario abbandonare tutte le cose della vita e andarsene in un eremo, o necessariamente in un Ashram, per fare lo yoga.

Ora, è vero che se si fa lo yoga nel mondo e nelle circostanze del mondo è più difficile, ma è anche più completo, poiché in ogni minuto bisogna far fronte a problemi che non si presentano a colui che ha lasciato ogni cosa ed è andato a vivere in solitudine; per lui i problemi sono ridotti al minimo.

Invece, nella vita, si incontra ogni sorta di difficoltà, a cominciare dall’incomprensione di coloro che ci circondano e con i quali si ha a che fare; bisogna essere pronti a questo, essere armati di pazienza e di una grande indifferenza. Ma, nello yoga, non ci si deve più preoccupare di ciò che pensa né di ciò che dice la gente; è un punto di partenza assolutamente indispensabile. Bisogna essere del tutto immunizzati contro quello che la gente può dire e pensare e contro il modo in cui si viene trattati.

La comprensione pubblica dev’esserci del tutto indifferente e non deve neppure sfiorarci. È per questo che in genere è molto più difficile rimanere nel proprio ambiente abituale e fare lo yoga, che lasciare tutto e ritirarsi in solitudine; è molto più difficile, ma non siamo qui per fare delle cose facili -le cose facili le lasciamo a coloro che non pensano alla trasformazione.

“Se un uomo ha guadagnato molto denaro con mezzi disonesti, si può chiedergliene per il Divino?”

Sri Aurobindo ha risposto a questa domanda. Egli dice che il denaro in sé è una forza impersonale: il modo in cui guadagnate il denaro conta solo per voi personalmente. Può farvi un male enorme, può far male anche agli altri, ma ciò non cambia nulla alla qualità del denaro, che è una forza del tutto impersonale: il denaro non ha colore, non ha sapore, non ha coscienza psicologica. 
È una forza. È come se diceste che l’aria respirata da un briccone è più guasta dell’aria respirata da un galantuomo- non lo credo! Credo che l’effetto sia lo stesso. 
Si può, per motivi di ordine pratico, rifiutare del denaro rubato, ma è per motivi del tutto pratici, non è per motivi di ordine divino.

È un concetto puramente umano. Possiamo dire praticamente: «Ah, no, il modo in cui avete guadagnato questo denaro mi ripugna, di conseguenza non voglio fame offerta al Divino», perché abbiamo una coscienza umana.

Ma se prendiamo un uomo (pensiamo al peggio), che sia un assassino, che abbia ottenuto del denaro con il suo assassinio ma che, improvvisamente, sia preso da scrupoli e rimorsi spaventosi e dica a se stesso: «Posso fare solo una cosa di questo denaro, cioè darlo perché venga utilizzato nel modo migliore e più impersonale», mi pare che ciò sia preferibile ad utilizzarlo invece per la propria soddisfazione personale.
Ho detto che le ragioni che potrebbero impedire di accettare del denaro male acquisito possono essere ragioni di ordine puramente pratico, ma vi possono essere anche ragioni più profonde, di ordine (non voglio dire morale) spirituale, dal punto di vista della tapasya; si può dire ad un uomo:

«No, non potete davvero acquistarvi dei meriti con quella ricchezza che vi siete procurata in modo così terribile; ciò che potete fare è restituirla»; si può considerare, per esempio, che la restituzione farebbe fare a quell’uomo progressi maggiori che passare semplicemente il denaro a un’opera qualsiasi.

Si possono vedere le cose in questo modo, non si possono stabilire delle regole. È quello che non finirò mai di dirvi: è impossibile stabilire una regola. Per ogni caso le cose sono diverse. Ma non si deve credere che il denaro venga contaminato; in quanto forza terrestre, esso non è contaminato dal modo in cui è stato guadagnato, questo non può in alcun caso contaminarlo.

Il denaro resta lo stesso, la vostra banconota resta la stessa, la vostra moneta d’oro resta la stessa, e in quanto essa contiene la sua forza, la sua forza rimane. Ciò nuoce solo alla persona che ha agito male, è evidente. Allora rimane la domanda: con quale stato d’animo e per quali ragioni l’uomo disonesto vuole dare il suo denaro a un’opera che egli considera divina? È per misura di sicurezza, per prudenza e per mettersi a posto la coscienza?

Evidentemente non è un buon motivo e non lo si può incoraggiare, ma se egli prova una sorta di pentimento e di rimpianto per ciò che ha fatto e ha l’impressione che ci sia un solo modo di agire, cioè privare se stesso di ciò che è stato male acquisito e utilizzarlo, per quanto sia possibile, per il bene comune, non c’è nulla da dire contro questo.

Non si può decidere in modo generale, dipende proprio da caso a caso. Ma, se capisco bene ciò che volete dire, è che nel caso in cui si venga a sapere che un uomo ha guadagnato del denaro con i mezzi più ignobili, allora, evidentemente, non sarebbe bene andare a chiedergli del denaro per u,n’opera divina qualsiasi, poiché sarebbe come riabilitare il suo modo di guadagnare denaro.

Non si può chiederlo, non è possibile. Se, invece, spontaneamente e per una ragione qualsiasi, lui lo dà, non c’è allora motivo di rifiutarlo. Ma è davvero impossibile andare a chiederglielo, perché sarebbe come legittimare il suo modo di guadagnare denaro. 
Questo fa una grande differenza. E in genere, in quei casi, coloro che vanno a chiedere denaro a dei furfanti, si servono di mezzi intimidatori: li spaventano – non fisicamente, ma riguardo la loro vita futura, su ciò che può loro accadere – mettono loro paura. Non è una bella cosa. Sono metodi dei quali non ci si deve servire.

“All’infuori del denaro, quali altri poteri divini sono «delegati» quaggiù?”

Tutti. Tutti i poteri divini sono qui manifestati e qui deformati: la luce, la vita, l’amore, la potenza – tutto – l’ armonia, l’ananda tutto, tutto, non c’è nulla che non sia divino nella sua origine e che non esista qui sotto una forma completamente deformata, camuffata. L’altro giorno abbiamo parlato a lungo del modo in cui l’Amore divino si deforma nella sua manifestazione qui; è la stessa cosa.

“Come riconquistare il denaro per la Madre?”

Ah!… Qui c’è un’indicazione. Tre cose sono interdipendenti (Sri Aurobindo lo dice qui): il potere, il denaro e il sesso. Credo che le tre cose siano interdipendenti e che si dovrebbe aver conquistato tutte e tre per poter essere sicuri di averne una – quando si vuole conquistarne una, bisogna avere le altre due. A meno che non si siano dominate queste tre cose, cioè il desiderio del potere, il desiderio del denaro e il desiderio del sesso, non si può veramente possederne nessuna in modo definitivo e sicuro. 
Ciò che dà tanta importanza al denaro nel mondo qual è attualmente, non è tanto il denaro in sé, poiché (a parte qualche pazzo che ammucchia denaro, felice di poterlo ammucchiare e contare), in genere esso è desiderato e raccolto per le soddisfazioni che procura. 
E praticamente le tre cose sono legate: ognuna di esse non ha soltanto il proprio valore individuale nel mondo dei desideri, ma si appoggia sulle altre due. Vi ho raccontato quella visione di quel grande serpente nero che custodiva le ricchezze del mondo, le ricchezze terrestri: esso chiedeva il dominio dell’impulso sessuale.

Infatti, secondo certe teorie, il bisogno stesso del potere trova la sua realizzazione in quella soddisfazione e se la si dominasse, se la si abolisse dalla coscienza umana, gran parte del bisogno di potere e del desiderio di denaro scomparirebbe automaticamente. È evidente che questi sono i tre grandi ostacoli della vita umana terrestre e, a meno che non vengano superati, non c’è alcuna possibilità che l’umanità cambi.



(Mère Conversazione del 3 maggio 1951)



venerdì 3 giugno 2022

Gli Yugas e la Natura del Tempo




LA NATURA DEL TEMPO
di Humberto Maturana 

Tratto da: I CONTRIBUTI DI HUMBERTO MATURANAALLA SCIENZA DELLA COMPLESSITA' E ALLA PSICOLOGIA di ALFREDO B. RUIZ Istituto di Terapia Cognitiva. Santiago, Chile

Non desidero affrontare tutti gli ambiti in cui entra la parola “tempo” come se questa si riferisse a un aspetto evidente del mondo o dei mondi in cui noi umani viviamo. 

In verità proprio il fatto che il tempo può essere un tema di riflessione ci dimostra che ciò che la parola “tempo” connota cambia a seconda delle circostanze in cui viene utilizzata. 

Questa situazione da sola, tuttavia, non sarebbe un problema perché, se avessimo accettato che il contesto definisce sempre il significato della parola, ci inviterebbe a riflessioni approfondite. 

Ma non lo facciamo, e ci chiediamo “che cosa è il tempo?” come pensando che la parola “tempo”, pur non avendone afferrato l’essenza finale, si riferisca a qualche entità indipendente o dimensione della natura che potrebbe essere correttamente svelata o descritta se ci impegnassimo abbastanza duramente. 

Comunque ritengo che la domanda “che cosa è il tempo?” sia congrua perché implica fin dal principio l'opinione che il tempo possa essere correttamente trattato come una sorta di entità indipendente o dimensione della natura. 

E ritengo che tale visione sia completamente inadeguata perché penso che tutto ciò di cui noi esseri umani parliamo siano relazioni che emergono nel nostro operare nel linguaggio come ambito chiuso di coordinamenti consensuali ricorsive di comportamenti. 

Consentitemi di spiegare quello che intendo con alcune parole sulla vita, il linguaggio e la conoscenza e quindi di rispondere alla domanda “quali distinzioni facciamo o evochiamo quando parliamo di tempo?”.


VIVERE



Il vivere ha luogo nell'adesso, nel momento in cui avviene. Il vivere è una dinamica che scompare mentre si svolge. Il vivere si svolge nel non-tempo, senza passato o futuro. Passato, presente e futuro sono idee che noi esseri umani, noi osservatori, inventiamo quando spieghiamo i nostri accadimenti nell'adesso. 

Inventiamo il passato come “l'origine dell'adesso, dell’ora”,del presente, e inventiamo il futuro come una dimensione che emerge come estrapolazione delle caratteristiche del nostro vivere ora, adesso, nel presente. 

Come il passato, il presente e il futuro, sono invenzioni per spiegare la nostra vita adesso, ora, il tempo è inventato come sfondo in cui passato, presente e futuro possano svolgersi.
Ma la vita, il vivere, si svolge adesso, ora, come flusso di processi di cambiamento. 

Dire questo, naturalmente, è un modo di spiegare l'esperienza dell'essere adesso, ora nel momento in cui ci troviamo mentre chiediamo spiegazione della nostra vita, del tempo...


LINGUAGGIO


Ho sostenuto, e penso illustrato in altre pubblicazioni, che il linguaggio è un modo di fluire nel vivere insieme in coordinamenti consensuali di comportamento ricorsivi, e che linguaggiare consiste nell'operare in una rete di coordinamenti consensuali di coordinamenti consensuali di comportamenti, in una dinamica relazionale di coordinamenti consensuali di comportamenti strutturalmente aperta a infinite ricursioni. 

Inoltre noi siamo, come sistemi viventi, sistemi strutturalmente determinati e nulla di esterno a noi può determinare o specificare cosa accade in noi. Pertanto gli agenti esterni che in qualsiasi istante ci colpiscono possano solo innescare in noi cambiamenti strutturali determinati in noi dalla nostra struttura in quell' istante. 

Di conseguenza, tutto ciò che facciamo in qualsiasi istante emerge in noi determinata dalla nostra struttura in quell'istante o come risultato della nostra interna dinamica strutturale chiusa, oppure come risultato della modulazione di tale dinamica strutturale interna attivata in noi dalle interazioni che partecipiamo. 

In queste circostanze dovremmo dire che siamo costituzionalmente "ciechi" alle caratteristiche intrinseche dell’ambiente come realtà indipendente, se parlare delle caratteristiche intrinseche di una realtà indipendente avesse alcun senso. 

Questa situazione ha le seguenti conseguenze fondamentali per la comprensione di ciò che facciamo e di ciò che accade in noi come esseri linguaggianti.   

 a) Il linguaggio come modalità di fluire in coordinamenti ricorsive consensuali di comportamento, è un modo di vivere nei coordinamenti del fare, non un modo di simbolizzare le caratteristiche di una realtà indipendente. Cioè linguaggiare è una maniera di vivere facendo le cose insieme nel particolare dominio del fare consensuale in cui il linguaggio si sviluppa attraverso il flusso delle interazioni dei partecipanti.Noi esseri umani esistiamo nel linguaggio, e quando linguaggiamo non possiamo dire nulla al di fuori del linguaggio.

b) Il modo in cui partecipiamo al flusso del linguaggio in qualsiasi istante emerge come risultato delle nostre interazioni in quell’istante conformemente alla nostra struttura in quell’istante. Così ciò che facciamo nel linguaggio in qualsiasi momento è determinato dalla nostra struttura in quel momento, indipendentemente dal modo in cui siamo diventati con tale struttura in quel momento.

c) Il risultato principale delle nostre interazioni ricorsive nel linguaggio è che la nostra struttura cambia in modo condizionato dal corso del nostro linguaggiare nel flusso di quelle interazioni. Cioè noi acquisiamo la nostra struttura momento dopo momento conformemente al corso del nostro linguaggiare, e linguaggiamo momento dopo momento conformemente alla nostra struttura in quel momento.

d) Noi esseri umani esistiamo nel linguaggio; cioè noi siamo il tipo di esseri che siamo quando operiamo nel linguaggio e emergiamo nel nostro linguaggiare nel flusso dei nostri ricorsivi coordinamenti consensuali di ricorsivi coordinamenti consensuali di comportamento. O, in altre parole, noi esistiamo nella dinamiche chiusa del linguaggiare e tutto ciò che facciamo come esseri umani si svolge nel nostro linguaggiare come un flusso di consensuali coordinamenti di consensuali coordinamenti di comportamento.

 Così tutto ciò che diciamo o possiamo dire, tutto ciò che noi possiamo distinguere quando facciamo ciò che facciamo come osservatori (come esseri umani linguaggianti), ha luogo come un'operazione all’interno di coordinamenti consensuali di comportamenti senza fare alcun riferimento a qualsiasi cosa al di fuori del nostro linguaggiare. Sia che agiamo come comuni esseri umani, filosofi, biologi, artisti o qualsiasi altra cosa, nello stesso.


e) Gli oggetti nascono con il linguaggio come consensuali coordinamenti di comportamenti che coordinano i comportamenti.

 Come coordinamenti consensuali di comportamenti, i coordinamenti dei comportamenti che costituiscono gli oggetti operano come simboli di coordinamenti di comportamenti e come tali occultano i comportamenti che coordinano.

 Inoltre, nel coordinamento ricorsivo consensuale dei coordinamenti consensuali del comportamento del flusso del linguaggio, molte proprietà degli oggetti emergono come differenti generi di operazioni nei coordinamenti del comportamento diventati simboli di coordinamenti del fare in diversi ambiti di coordinamenti consensuali del fare.


f) Idee, concetti, nozioni,... costituiscono domini degli oggetti che emergono come astrazioni da altre proprietà di oggetti, e danno luogo a proprietà di coordinamenti del fare che definiscono o che sono definiti attraverso di essi. Come i diversi tipi di oggetti corrispondono a diverse operazioni di coordinamenti di comportamenti, gli oggetti astratti (idee, concetti, nozioni) costituiscono le basi per i sistemi astratti che portano i coordinamenti di comportamenti nel dominio di coordinamenti consensuali dei comportamenti di cui essi sono astrazioni.


Nella nostra cultura viviamo la nostra esistenza nel linguaggio come se il linguaggio fosse un sistema simbolico per riferirsi a entità di diversi tipo che esistono indipendentemente da ciò che facciamo, e trattiamo anche noi stessi come se esistessimo al di fuori del linguaggio come entità indipendenti che utilizzano il linguaggio. 

Tempo, materia, energia,... sarebbero alcune di queste entità. Tale atteggiamento ci induce a comportarci come se potessimo caratterizzare tali entità nei termini della loro natura indipendente intrinseca. Io sostengo che questo non possa essere fatto perché appena diciamo qualcosa l'effetto che produciamo ha luogo in un dominio linguistico come un'operazione in coordinamenti ricorsivi consensuali di comportamento.


COGNIZIONE


La principale conseguenza della nostra esistenza nel linguaggio è che non possiamo parlare di ciò che è al di fuori di esso, nemmeno immaginare qualcosa al di fuori del linguaggio in modo abbia qualche senso al di fuori di esso. Possiamo immaginare qualcosa come se esistesse al di fuori del linguaggio, ma appena tentiamo di fare riferimento ad esso, esso emerge nel linguaggio caratterizzato dagli elementi, concetti e nozioni che emergono attraverso ciò che facciamo nel nostro linguaggiare. 

Non esiste nulla nella vita dell'uomo al di fuori del linguaggio perché la vita umana si svolge nel linguaggio, e anche se noi possiamo immaginare una realtà indipendente, obiettiva, quello che immaginiamo non è indipendente dal nostro linguaggiare. Infatti, appena riflettiamo su questa questione diventa evidente che la nozione di realtà è un'assunzione esplicativa che noi umani abbiamo inventato per spiegare che cosa distinguiamo come nostre esperienze negli accadimenti della nostra vita come se essa esistesse indipendentemente da ciò che facciamo.

Mi riferisco a questa situazione dicendo che se anche noi possiamo affermare che una realtà indipendente sembra necessaria per motivi epistemologici per spiegare le esperienze umane, non possiamo dire nulla su di essa. Nemmeno la nozione di una realtà indipendente ha alcun senso al di fuori del linguaggio e se un tale concetto fosse adottato sarebbe irrilevante, o sarebbe utilizzato come un principio esplicativo a priori. 

Ma allo stesso tempo, è evidente che non avere accesso a qualcosa che potrebbe correttamente essere chiamato una realtà indipendente non è una limitazione per la nostra vita o per il nostro fare poiché nulla di ciò che facciamo nel flusso del coordinamento consensuale di comportamenti in cui esistiamo richiede il concetto o la supposizione che c'è una realtà indipendente. Realtà, la nozione di realtà, è un'assunzione esplicativa adottata come un principio esplicativo preso come auto evidente. 

Se una persona non è consapevole di questo, come accade nella nostra cultura, o se non vuole seguire pienamente le implicazioni di tale consapevolezza, come accade nei vari rami della nostra tradizione filosofica occidentale, tratterà la nozione di realtà come se si riferisse a un dominio di entità indipendenti (di qualsiasi tipo) che esiste in modo indipendente da ciò che fa l'osservatore.

Eppure, se comprendiamo il linguaggio nella consapevolezza che come sistemi viventi siamo sistemi dalla struttura determinata e scegliamo di seguire le conseguenze di tale consapevolezza, possiamo diventare consapevoli di diverse condizioni di base che altrimenti non vediamo.

a) Quando ci rendiamo conto che la realtà è un concetto esplicativo o una assunzione, noi abbandoniamo la credenza in essa come un dominio di entità che esistono indipendentemente da ciò che un osservatore fa e diventiamo consapevoli del fatto che ciò che effettivamente facciamo quando spieghiamo le nostre esperienze è utilizzare le nostre esperienze per spiegare le nostre esperienze.

Cioè diventiamo consapevoli che quando spieghiamo utilizziamo la coerenze delle nostre esperienze per proporre un meccanismo (un meccanismo generativo) che, se autorizzato ad operare, genererebbe nell'osservatore l'esperienza di essere spiegato.

b) Diventiamo consapevoli del fatto che ci sono tanti ambiti di spiegazioni quanti ambiti di coerenze esperenziali che noi umani possiamo vivere. Allo stesso tempo, diventiamo consapevoli che la nozione di determinismo strutturale si riferisce alle regolarità delle coerenze delle nostre esperienze, e che noi operiamo nella nostra vita in tanti ambiti di determinismo strutturale quanti ambiti di coerenze esperenziali che viviamo nel flusso delle nostre esperienze.

c) Diventiamo consapevoli che non sperimentiamo le cose come caratteristiche di un mondo indipendente, ma, come ho detto sopra, quello che distinguiamo come accadente a noi mentre operiamo nel linguaggio avendo cura di ciò che ci accade quando viviamo. 

Allo stesso tempo diventiamo consapevoli che quando le esperienze ci accadono, ci accadono fuori dal nulla, da nessun dove, o con l’agio di viverle come parte di un dominio conosciuto di coerenze esperenziali, oppure sorprendendoci perché sembrano aver luogo fuori dalla coerenza delle altre esperienze conosciute. 

In quest’ultimo caso vogliamo spiegarle e le spiegheremo facendo di tali esperienze parte di un ambito già noto di esperienze, altrimenti resteremo spaventati fino a quando non lo avremo fatto.

d) Quando diventiamo consapevoli che ci troviamo già a vivere ciò che distinguiamo come accadente a noi, noi lo distinguiamo, e questa nostra esperienza emerge dal nulla, ci accorgiamo di come spieghiamo la nostra esperienza con le coerenze delle nostre esperienze. 

Cioè diventiamo consapevoli che tutte le nostre spiegazioni hanno luogo in un dominio chiuso, e che la realtà e gli altri concetti esplicativi sono assunzioni a priori che non hanno luogo fuori dagli ambiti esplicativi in cui esistiamo come esseri parlanti.

e) Diventiamo consapevoli che la nozione di determinismo strutturale non è un’assunzione rispetto ad una realtà indipendente, ma che è un’astrazione delle regolarità della nostra esperienza. Inoltre diventiamo consapevoli che poiché il determinismo strutturale è un’astrazione delle regolarità della nostra esperienza noi possiamo usare il determinismo strutturale per spiegare le nostre esperienze con le coerenze delle nostre esperienze.

Infine diventiamo anche consapevoli che viviamo tanti domini di determinismo strutturale quanti domini di coerenze esperenziali, e ogni dominio esplicativo è di fatto un dominio di determinismo strutturale.


In queste circostanze, cos’è “conoscere”? Da quel che ho detto, conoscere non può riferirsi ad una realtà indipendente dal momento che è qualcosa che noi come esseri linguaggianti non possiamo fare.

Eppure se badiamo a quel che facciamo nella vita quotidiana e tecnica, noteremo che affermiamo di conoscere, o che altri esseri conoscono, quando vediamo che noi o altri esseri si comportano adeguatamente in qualche ambito che noi specifichiamo con un argomento, e lo fanno in accordo con alcuni criteri che noi poniamo per cosa sia un comportamento adeguato in quell’ambito. La conoscenza è una relazione interpersonale nell’ambito di coordinamenti consensuali di coordinamenti consensuali di comportamenti.

O, in altre parole, la conoscenza è qualcosa che attribuiamo a noi o ad altri quando consideriamo adeguato il nostro o l’altrui comportamento in un ambito specifico, e spesso attribuiamo la conoscenza per fare qualcosa insieme in alcuni ambiti di coordinamenti di comportamenti. 

Se non siamo consapevoli di questa situazione, agiamo trattando la conoscenza come una maniera di riferirsi a entità che si assume esistano realmente, cioè in un ambito di entità che esistono indipendentemente da quello che noi esseri umani facciamo. In queste circostanze la ricerca della conoscenza diventa una ricerca senza fine della cosa in sé.

Questa conoscenza non è, e non può essere, una maniera di riferirsi ad un dominio di entità che esistono con indipendenza da quello che gli umani come esseri linguaggianti fanno, non è una limitazione o un’insufficienza nel dominio della conoscenza, è una caratteristica costitutiva del fenomeno della conoscenza.

Infatti questa conoscenza dovrebbe essere una maniera di vivere insieme in coordinamenti consensuali di coordinamenti consensuali di comportamenti, in una condizione che fa della conoscenza un dominio sempre aperto alle trasformazioni, e la vita umana aperta a continue trasformazioni attraverso la conoscenza come esperienze emerse nella vita umana dal nulla (chaos).
In queste circostanze, cosa dire sul tempo?


LA NATURA DEL TEMPO


Noi apparteniamo ad una cultura, soprattutto e particolarmente nei domini della scienza della filosofia e della tecnologia, che vive nell’esplicita o implicita accettazione di un qualche genere di realtà indipendente come ultimo riferimento per tutte le spiegazioni.

Questo atteggiamento permea il nostro modo di porre domande e di ascoltare le risposte.
Così nella nostra cultura quando domandiamo cos’è il tempo, ci aspettiamo una risposta nella forma di un riferimento a qualche tipo di entità indipendente, con l’implicito intendimento che tale riferimento darà validità universale alla nostra risposta.

Secondo quanto ho detto nessun riferimento può essere fatto, e non a causa di una limitazione nella nostra capacità di conoscere, ma come caratteristica della natura del fenomeno della cognizione.

Perciò ciò che noi connotiamo con la parola tempo non può essere una cosa in sé. 

Nella nostra cultura la nozione di tempo è usata come nozione esplicativa o principio nello stesso modo in cui viene usata il concetto di realtà.

Ma se noi siamo consapevoli di questa situazione e se siamo consapevoli che la parola tempo non può essere riferita a un’ entità che esiste indipendentemente da ciò che facciamo, dobbiamo porre la nostra domanda in modo diverso da come noi la poniamo quando nella vita quotidiana o tecnica usiamo la parola tempo. Quali caratteristiche di coerenza delle nostre esperienze connotiamo o astraiamo quanto utilizziamo la parola tempo?

a) Noi usiamo l’esperienza per spiegare l’esperienza. Spiegare il tempo, perciò, è un’operazione che dovrò eseguire attraverso l’elemento del dominio delle nostre esperienze. Di conseguenza dovrò utilizzare le caratteristiche della nostra esperienza quotidiana, e non nozioni esterne ad essa, per spigare o descrivere ciò che io penso che facciamo quando usiamo la parola tempo. 

L’esperienza è la nostra condizione di partenza sia per porre la domanda sia per rispondere. Così dovrò partire dal trovare noi stessi che facciamo qualcosa e dalla capacità di fare tutto quello che noi facciamo quotidianamente o nella vita tecnica. 

L’esperienza non è il nostro problema quando vogliamo spiegare quello che facciamo, spiegare questo è il nostro compito.
Similmente il problema non è l’uso della parola tempo o qualsiasi altra parola nella vita quotidiana, ma spiegare o svelare quello che facciamo quando le usiamo, o come noi le viviamo.


b) Io sostengo che la parola tempo connoti un’astrazione dell’accadere di processi in sequenze come noi li distinguiamo nelle coerenze delle nostre esperienze. Come noi distinguiamo le sequenze di processi, così distinguiamo anche la simultaneità di processi come una caratteristica delle nostre coerenze esperienziali che connotiamo con l’espressione “nello stesso tempo”. 

Una tale astrazione è resa possibile soprattutto poiché nell’attività del nostro sistema nervoso le sequenze di attività sono distinte come configurazione di relazioni di attività sulla superficie delle cellule nervose al momento della generazione degli impulsi nervosi. Come risultato quello che dalla prospettiva di un osservatore è un’operazione nel tempo, nella distinzione del tempo come un’astrazione di un processo appare come un’operazione nel presente.

c) Al momento dell’astrazione della relazione sequenziale che da origine a quella distinzione che chiamiamo tempo, il tempo emerge nell’ esperienza dell’osservatore con direzionalità ed irreversibilità. 

Perfino nel caso in cui noi distinguiamo processi ciclicamente reversibili, noi facciamo questa distinzione nel contesto di irreversibilità direzionale del tempo che permette la distinzione della sequenza processuale e il suo inverso come configurazione di un processo che noi chiamiamo tempo reversibile. Così il tempo reversibile è un’astrazione di una particolare esperienza irreversibile e direzionale.

d) Una volta che il tempo è emerso come una distinzione nel dominio delle esperienze di un osservatore diventa un’entità operativa che nella nostra cultura appare come se avesse indipendenza da ciò che l’osservatore fa. 

E questo avviene poiché una volta che il tempo è emerso può essere usato dall’osservatore (da ciascuno di noi in quanto esseri linguaggianti) nella sua riflessione sulle regolarità delle sue esperienze proprio perché emerge come un’astrazione delle regolarità delle sue esperienze.

Con la nozione di tempo, perciò, succede la stessa cosa che con la nozione di determinismo strutturale che è anch’essa un’ astrazione dalle regolarità delle esperienze dell’osservatore, che può essere utilizzata per trattare di regolarità delle coerenze dell’osservatore proprio perché esso emerge come un’astrazione di esse.

e) Ritengo che quanto ho detto sia valido per ogni dominio compreso, ovviamente, la fisica. Il dominio della fisica emerge come un dominio esplicativo di alcuni tipi di coerenze esperienziali dell’osservatore attraverso l’uso di certi tipi di coerenze esperienziali dell’osservatore. 

Così la fisica non è un dominio primario di esistenza, ma è un dominio particolare di spiegazioni di un particolare dominio di coerenze esperienziali di un osservatore. 

Le nozioni teoriche sono astrazioni delle coerenze esperenziali di un osservatore in certi domini, o almeno sono intese così. Data questa condizione, le teorie sono operativamente valide solo nel dominio in cui esse si applicano come astrazioni.

f) Il tempo unidirezionale e il tempo reversibile emergono come nozioni teoriche in fisica come astrazioni che l’osservatore fa delle sue coerenze sperimentali e che denota con le parole tempo e reversibilità. Come nozioni astratte il tempo unidirezionale e il tempo reversibile possono essere trattati come entità che hanno efficacia operativa nel dominio esperenziale del quale esse sono astrazioni. 

Questo appare ovvio. 

Ciò che non è così ovvio, tuttavia, è che spesso dimentichiamo che il tempo unidirezionale e il tempo reversibile sono in realtà astrazioni delle coerenze esperenziali dell’osservatore, come ho indicato prima. 

In quest’ ultimo caso noi trattiamo il tempo unidirezionale e il tempo reversibile come entità esistenti indipendentemente da ciò che facciamo in quanto osservatori, o come se fossero riflessi o rappresentazioni di tali entità indipendenti, e così noi generiamo conflitti concettuali e operativi. 

Quando ciò avviene non vediamo nemmeno che le formulazioni matematiche nelle proposizioni astratte emergono solamente come valide nelle loro coerenze in quanto astrazioni delle coerenze delle esperienze che rappresentano.

Poiché la nozione di tempo è stata generata come astrazione delle nostre esperienze di sequenze di processi nelle molteplici dimensioni e forme dell’esistenza umana, questa nozione viene generata in relazione alla molteplicità di forme nelle quali viviamo. 

Di conseguenza ci sono tante forme di tempo quante sono le forme di astrazione delle regolarità delle esperienze di processi e sequenze di processi. Così noi parliamo di tempo veloce e lento, di passare il tempo, di perdere tempo, di avere o non avere tempo, di coincidenza nel tempo, di reti di tempo, di simultaneità,… in molti ambiti di esperienze, e in tutti i casi noi ci riferiamo allo stesso tipo di astrazione nel dominio di sequenze di processi. 

In realtà ogni dominio ha una sua propria dinamica temporale così come ha una sua propria dinamica processuale. La consapevolezza che la nozione di tempo emerge come astrazione dalle coerenze delle esperienze dell’osservatore che usa come nozione esplicativa non è un problema. 

Ciò che diventa un problema a lungo andare è l’inconsapevole adozione della nozione di tempo come principio esplicativo che è accettato come contenuto certo dandogli uno status ontologico trascendentale.


CONCLUSIONE


Ho risposto alla domanda “quale distinzione connotiamo quando parliamo del tempo?” mostrando 

1) che noi non connotiamo e non possiamo connotare un’entità o dimensione naturale che esiste indipendentemente da quello che noi facciamo in quanto osservatori umani; 

2) e 2) mostrando che noi usiamo nella vita quotidiana la parola tempo per indicare o per connotare un’ astrazione delle nostra esperienze di successione di processi. 

In altre parole ho mostrato che la nascita della nozione di tempo in qualsiasi dominio si fonda sulla biologia dell’osservatore, non nel dominio della fisica che è un dominio di spiegazioni di un particolare tipo di coerenze esperenziali dell’osservatore. 

Inoltre in questo processo ho anche mostrato che appena il tempo emerge come principale astrazione del flusso di esperienze dell’osservatore, esso emerge con direzionalità e irreversibilità, e che il tempo reversibile sorge solo come una collaterale e ulteriore astrazione delle esperienze dell’osservatore che è possibile solo in un dominio di tempo unidirezionale e irreversibile. infine sostengo che la nozione di tempo viene frequentemente usata come un principio esplicativo che gli conferisce uno status ontologico trascendentale.

L’osservatore non è un’entità fisica, l’osservatore è una maniera di operare degli esseri umani nel linguaggio. E’ attraverso le operazioni dell’osservatore che emergono tutti i domini cognitivi, compreso il dominio dell’osservazione. 

La fisica è la modalità con cui l’osservatore spiega attraverso la coerenza della sua esperienza un particolare dominio di esperienze che è denotato con il termine fisica.

In realtà l’osservatore stesso emerge come entità di cui noi osservatori possiamo parlare attraverso l’operazione dell’osservatore che costituisce il fondamento di tutto quello che noi umani facciamo.
Senza dubbio noi ci comportiamo nella nostra vita come se vivessimo in un mondo che esiste indipendentemente da quello che noi facciamo, e che noi chiamiamo realtà.

Ed è soprattutto per questo che ci domandiamo come conosciamo la realtà, o il tempo, come se ci riferissimo proprio a qualcosa che esiste indipendentemente da ciò che facciamo. Il mio intento è stato diverso. La mia domanda non riguarda la realtà del tempo, o di ogni altro tipo di entità, come se la sua esistenza indipendente potesse essere presa per garantita. 

La mia domanda riguarda le esperienze o le operazioni che noi facciamo come osservatori quando usiamo differenti nozioni, concetti o parole che implicano distinzioni di entità o caratteristiche di un mondo indipendente.

L’esperienza che noi distinguiamo come accaduta a noi non è mai un problema a meno che non ci accusiamo l’un l’altro di mentire. È la spiegazione dell’esperienza che costituisce un problema come fonte di conflitti. L’esperienza emerge spontaneamente letteralmente dal nulla, oppure, se vogliamo, dal caos, dal dominio sul quale non possiamo dire nulla che non nasca dalle coerenze della nostra esperienza. 

Ciò che dico è valido per ogni dominio di esperienze, sia questo la vita, la fisica, la fisica quantistica, le relazioni umane … 

Tutti questi differenti domini di esperienza sono domini esperenziali vissuti come domini di spiegazioni delle nostre esperienze attraverso le nostre esperienze. Ma le nostre esperienze non sono disordinate, esse nascono coerentemente in quanto nascono in noi dal niente. 

Così noi esistiamo in questa meravigliosa situazione esperienziale nella quale noi, in quanto osservatori che esistono nel presente, siamo la sorgente di ogni cosa, pesino di ciò che possiamo trattare nelle coerenze delle nostre esperienze come osservatori, come entità che attraverso la loro operazione danno vita all’operazione dell’osservare e di spiegare i loro accadimenti all’interno di un dominio chiuso di spiegazioni.

La grande tentazione è di trasformare l’astrazione delle coerenze che distinguiamo delle nostre esperienze con nozioni come realtà, esistenza, ragione, spazio, coscienza.. oppure tempo, in principi esplicativi.