sabato 29 aprile 2023

Alchimia e Chimica dell’estasi artificiale


Alchimia e Chimica dell’estasi artificiale 



La magia delle droghe. Chimica e alchimia dell’estasi artificiale
di R. N. - Airesis


L’utilizzo di piante e sostanze psicoattive all’interno della ricerca di stati alterati di coscienza, dalle remote rituarie religiose fino alle moderne frontiere della cultura psichedelica, costituisce uno degli argomenti di attualità più scottanti e complessi da affrontare. 

Su tale argomento la disinformazione, spesso legata a tabù culturali di difficile rimozione, regna sovrana, nonostante l’evidenza della diffusione sociale di comportamenti che denunciano una sempre crescente ricerca di stati percettivi alterati, soprattutto da parte delle giovani generazione. 

Al saggista Roberto Negrini, solitamente attento ed esaustivo nel trattare argomenti così delicati, si deve il presente ampio excursus storico-antropologico sugli psicoattivi usati con fini estatici.



Amanita muscaria.
I veleni divini

Tra i principali reperti archeologici ritrovati in Messico a Guatemala, nelle terre che furono delle civiltà maya a azteca, i più enigmatici furono indubbiamente alcune statuette raffiguranti figure totemiche umane o animali sormontate da un’ampia cappella di fungo e risalenti in alcuni casi, a 3000 anni fa[1].

Dalla decifrazione degli antichi codici aztechi e dalle tradizioni magico-religiose degli Zapotechi e dei Mazatechi del Messico meridionale, già registrate dai conquistatori spagnoli, risultava l’esistenza di una misteriosa triade di piante-dee: il fungo teonanacatl, il cactus peyotl e i semi vegetali ololiuhqui, Divinità-cibo attraverso la cui consumazione e mediazione sacerdoti a sciamani raggiungevano il diretto contatto con il soprannaturale a la comunione con gli Dei[2].

All’epoca della prima conquista di Cortés, nel XVI secolo, il missionario francescano Bernardino de Sahagun aveva descritto con pio orrore cerimonie durante le quali gli indigeni si inebriavano con una bevanda intossicante e “diabolica” che procurava loro visioni ed ebbrezze “infernali” e che veniva estratta da un fungo velenoso chiamato appunto teonanacatl[3](che in lingua Nahuatl significava “carne della divinità”).

Le crudeli e sistematiche persecuzioni perpetrate dalla Chiesa Cattolica a dalla monarchia spagnola contro ogni forma di religiosità magica locale, pur lontane dall’estinguere il culto dei funghi a delle piante sacre e il loro utilizzo sciamanico, ne causarono successivamente la quasi assoluta clandestinità e per più di 300 anni sui segreti vegetali messicani gli Europei non ne seppero molto più del devoto francescano al seguito degli sterninatori.

Il mistero del teonanacatl a delle millenarie statuette degli uomini-animali-fungo fu infatti definitivamente svelato solo tra la prima a la seconda metà del nostro secolo. L’etnobotanico americano Richard Evans Schultes, direttore del museo botanico dell’università di Harvard, fu tra i primi ricercatori contemporanei a compiere estese ricerche sulle piante psicoattive, trascorrendo ben 12 anni della sua vita, dal 1941 al 1953, in Amazzonia, Ande e Sudamerica.

Il lavoro di Schulte svolto già fino dal 1936 in un’ottica interdisciplinare tra botanica, etnologia e antropologia fu supportato dal contatto diretto con sciamani, stregoni e ritualità tribali e portò, nel corso di pochi decenni, il numero delle piante allucinogene conosciute e classificate da una mezza dozzina a più di 80, dimostrando nel contempo la strettissima connessione tra uso di droghe sacre, religione e magia[4].

Nel 1954 il banchiere e micologo autodidatta R. Gordon Wasson, trasferitosi con la moglie nella regione di Oaxaca, nel Messico meridionale, alla ricerca dei funghi sacri, scoprì che l’azteco teonanacatl era il nome sacrale collettivo di una peculiare categoria di funghi allucinogeni della famiglia Psilocybe mexicana la cui utilizzazione cultuale e magica risultava ancora ampiamente diffusa tra le popolazioni locali.

Grazie all’amicizia stretta con Maria Sabina, una curandera mazateca, Wasson, sua moglie e altri collaboratori qualificati furono ammessi a una serie di cerimonie sacre segrete che comprendevano la consumazione sacramentale del teonanacatle sperimentarono così gli sconvolgenti a meravigliosi effetti estatici di visione ed espansione della coscienza ben noti alla tradizione sciamanica[5].


Fu come se i muri della nostra casa si fossero dissolti – dichiarò Wasson nella relazione – e il mio spirito volato in alto, e io mi trovavo sospeso a mezz’ària […] Sentii che ora stavo vedendo […] vedevo gli archetipi, le idee platoniche che sono alla base delle imperfette immagini della realtà di ogni giorno[6].

In quel momento l’audace ricercatore americano aveva sfiorato il segreto di una delle più antiche forme universali di comunione col sacro. “Ora voi siete il Fungo”[7] fu detto agli Europei mentre stavano sperimentando qualcosa che alla perseguitata saggezza degli Indios era noto da millenni. 

Le antichissime ed enigmatiche statuette dell’Uomo-Dio-Fungo rivelavano così il loro sconvolgente significato: l’Uomo che si fa Dio attraverso la comunione con la pianta sacra. “Possibile che il Fungo Divino”, scrisse ancona Wasson, “fosse il segreto nascosto dietro gli antichi Misters?”[8].

Fu sulla traccia di questa intuizione che Wasson negli anni successivi strinse un’intima e continuativa collaborazione con il dottor Albert Hofmann dei laboratori di ricerca Sandoz di Basilea, che solo pochi anni prima, nel 1943, analizzando le caratteristiche biochimiche della segale cornuta (un fungo tossico parassitario delle graminacee e particolarmente della segale), aveva isolato a analizzato il più potente allucinogeno di sintesi mai conosciuto: la dietilamide dell’acido D-lisergico (Lysergsäure-Diäthylamid) o LSD[9].

Hofmann sottopose ad accurate analisi i vari tipi di funghi a semi di piante magiche raccolte da Wasson e nel 1958 isolò il principio neuroattivo del teonanacatl: la psylocibina. Parallelamente Hofmann, che coltivava anche interessi etno-antropologici a filosofico-esoterici, scoprì che un’altra mitica droga messicana chiamata ololiuhqui (“il fiore della vergine”)[10] conteneva alcaloidi estremamente simili all’LSD presente nella segale cornuta[11].

Il Tradizionalmente l’ololiuhqui veniva utilizzata per il contatto con gli Dei e per la visione del futuro ed era ottenuta dai semi di una pianta di convolvolo (rivea coryrnbosa)[12], che Wasson aveva identificato e trasportato nelle sue spedizioni.

Su sollecitazioni del noto mitologo a storico delle religioni Kàroly Kerényi, amico di Hofmann, furono constatate notevoli affinità strutturali tra alcune cerimonie rituali indigene messicane e le pratiche misteriche a base estatica della Grecia classica. Si giunse così a ipotizzare che la bevanda sacra offerta agli iniziati nel corso dei Msteri Eleusini per celebrare la loro mistica unione con la Dea Madre Demetra, Signora del grano, il kykeon – citato da Eraclito a da altre fonti – la cui composizione era a base di graminacee, contenesse principi psicoattivi affini a quelli dell’ololiuhqui e della segale cornuta[13] e fosse quindi sostanzialmente a base di LSD[14].

Dal canto suo Wasson estese le sue ricerche medico-etnologiche ad altri funghi psichedelici e soprattutto dedicò la sua attenzione al velenosisssmo “ovulo malefico”, l’amanita muscaria, che assunta con gli opportuni accorgimenti quantitativi e cerimoniali, rappresentava uno dei più antichi, potenti e diffusi allucinogeni naturali utilizzati per scopi sacri dai guerrieri vichinghi e dagli sciamani siberiani[15].

Data l’ampia diffusione dell’ amanita, con la sua caratteristica forma di fallo in erezione, nelle regioni nordiche originarie dei popoli indoeuropei, oltre che nelle zone del medio a vicino Oriente, Wasson ipotizzò, con un largo margine di sicurezza, che il micidiale fungo fallico costituisse l’ingrediente segreto del mitico soma, bevanda sacra dei sacerdoti vedici e delle loro divinità nell’induismo arcaico, dispensatrice di salute, coraggio, longevità, intuizione e immortalità, sia dell’haoma, analoga bevanda sacra della tradizione iranica, utilizzata per ottenere visioni divine già molto prima della riforma monoteista di Zoroastro[16].

Insieme al fimgo teonanacatl e ai semi ololiuhqui la terza e più importante pianta-dea della tradizione azteca, e poi indio-messicana, fu e resta ancora oggi il piccolo cactus lophophora williamsii, meglio conosciuto come peyotl, diffuso sugli altopiani del Messico settentrionale, che il mito identifica con la carne di una divinità cornuta, il Daino Celeste e le cui proprietà furono rivelate in sogno a una donna[17].

Allucinazioni visive, auditive a olfattive, visioni colorate a geometriche, sovreccitazione sensoriale, distorsione percettiva, dilatazione generale della coscienza sono i principali effetti – simili peraltro a quelli di LSD e psilocybina – ottenuti attraverso l’ingestione rituale dei bottoni vegetali del peyotl, chiamati dagli indigeni mescal e dai quali, nei primi anni del secolo, fu isolato chimicamente il principio attivo principale responsabile dei poteri del cactus: la mescalina, un alcaloide derivato dall’ammoniaca[18].

Belladonna.

Dalle Americhe all’Europa, dall’Asia all’Africa fino ai più remoti angoli del mondo, in stretta connessione con le tra dizioni sciamaniche a misteriche, magiche o religiose di diversi popoli a razze, ritroviamo questa intima simbiosi tra l’universo simbolico del divino, i misteri del mondo vegetale e la ricerca del sacro nell’uomo a nella donna. 

La scienza spagirica tradizionale di sacerdoti, magi a sciamani – che spesso furono di sesso femminile data la maggiore connessione della donna con le più nascoste energie della natura – ha fornito per millenni una serie di tecniche codificate sull’utilizzo delle sostanze divine o “cibo degli Dèi” come pane della sapienza a dell’esperienza magica.

Nell’autentica, primordiale celebrazione di un’Eucaristia, o cannibalizzazione della Carne di Dio, di cui la nota cerimonia cristiana non fu che la degradazione pallida e riduttiva, le droghe sacre sono state mangiate, masticate, bevute, inalate, fiutate, fumate o spalmate sui corpi, in ogni tempo e sotto ogni latitudine. Esse hanno rappresentato uno dei propellenti primari per la reale conquista del Divino, una conquista tanto spirituale quanto bio-chimica e fisio-psichica.

Unite inestricabilmente e ritualmente a una corretta disciplina dell’emozione e della psiche, queste sostanze hanno suscitato a possono suscitare l’esplorazione dei mondi interiori e l’espansione della coscienza e dei sensi umani, fino all’incremento apparentemente sovrannaturale delle facoltà fisiche di vista, udito, forza muscolare, velocità e resistenza a calore, gelo, fame, sete, sonno, fatica.

La pianta della coca era già sacra presso gli Incas nella preistoria della loro cultura a la masticazione delle sue foglie psicoattive, a scopi rigenerativi ed euforizzanti, è rimasta una pratica comune tra le popolazioni locali in Perù, Bolivia e Argentina, dove ancora oggi la coca viene confidenzialmente appellata come “madre”: Mama Cuca[19]. Nella seconda metà del secolo scorso fu isolato chimicamente un alcaloide che risultò essere il principio attivo di questa pianta: la cocaina[20].

In Australia la “pianta madre” dell’ebbrezza e delle visioni è invece il pituri[21], una solanacea che cresce soprattutto nella parte centrale del Queensland. Tradizionalmente le sue foglie vengono disseccate, mescolate con cenere d’acacia in forma di piccole polpette a quindi masticate lungamente con effetti allucinatori ed estatici.

Effetti simili a quelli della coca derivano poi dalla masticazione del katt[22], arbusto originario dell’Abissinia coltivato in Arabia a in Etiopia. L’uso, cerimoniale e non, delle sue foglie per indurre visioni divine, alterare la comune percezione a annullare fatica, sonno e fame è ampiamente diffuso soprattutto nello Yemen, in Arabia, in Somalia e in Etiopia, data anche la relativa tolleranza che questa tradizione ha trovato da parte dell’Islam.

All’interno delle antichissime fratellanze magico-religiose dell’Oceania, soprattutto in Polinesia, Nuova Guinea e Melanesia, l’iniziazione ai Misteri della morte e le varie fasi dei riti tribali di passaggio venivano a vengono ancora accompagnate dall’uso del kawa, una bevanda estratta dalle radici di un pepe inebriante[23]. Il kawa produce vari stadi di narcosi allucinatoria che le società iniziatiche tribali utilizzano per collegarsi con i mondi invisibili.

Tra le piante psicoattive a effetto estatico di utilizzazione più ampia e più antica risulta certamente la cannabis sativa e particolarmente la sue variante cannabis indica (canapa indiana), originaria dell’Asia e diffusasi attraverso i secoli in gran parte del mondo. Dai suoi fiori a foglie disseccati e tritati si ottiene la marijuana, che può essere fumata, inalata o bevuta in decotto, mentre la resina della pianta femmina è generalmente conosciuta con il nome arabo di haschis e, oltre che fumata, può essere masticata a mangiata[24].

L’uso cerimoniale, magico e misterico della cannabis è attestato già nell’Egitto faraonico, nella Cina del II millennio a.C., nell’India vedica a nell’Impero assiro, come risulta da una tavoletta di Assurbanipal dell’VIII secolo, dove la pianta droga è denominate qunnapu[25].

Erodoto nel IV libro delle Storie racconta che gli Sciti, nomadi del Mar Nero, usavano le fumigazioni prodotte dai semi di cannabis, gettati su appositi bracieri, per raggiungere stati di ebbrezza e voluttà e per purificare il corpo[26].
Il giardino profanato

Ogni cultura tradizionale ha amministrato il proprio “giardino magico” traendone il massimo dei vantaggi e il minimo dei rischi. Le piante dee e i loro prodotti sono sempre stati venerati a utilizzati secondo criteri a ritualità precisi a opportunamente circoscritti, anche se le cronache storiche registrano segmenti di tempo e cicli storici nel corso dei quali l’estasi e l’ebbrezza artificiale sono tracimati oltre i confini del sacro, pervadendo di sé anche la vita profane, ricreativa a sensuale.

Ma pur in queste circostanze restarono sconosciute ai popoli pre-moderni, e quindi non condizionati dal dualismo schizoide di matrice giudeo-cristiana, la devastante assuefazione e successive dipendenza psichica e fisica come fenomeni di masse generati dalla diffusione di alcune tra queste sostanze all’interno della civiltà a della culture moderne.

Non va dimenticato che tra i prodotti del giardino incantato ve ne sono un certo numero la cui utilizzazione non controllata, o scorporata dal contesto culturale e sacrale originario, risulta particolarmente pericolosa e il cui abuso tende a produrre gravissimi danni psichici a fisiologici culminanti in una suicide a inesorabile dipendenza.

Emblematicamente tra gli innumerevoli a millenari frutti di questo Giardino degli Dei furono proprio tre fra i maggiormente insidiosi ad avere le più strette e ambivalenti connessioni con le culture succedutesi dalla caduta del mondo pagano ai giorni nostri. Una triade di sostanze sacre, utilizzate fin dalla più remote antichità, ma il cui incanto corrode l’anima e il corpo di coloro che ne consumano la profanazione: alcol, tabacco e oppio.

La diffusione sempre più indiscriminate dell’alcol nelle sue varie forme, la “scoperta” del tabacco e la riscoperta dell’oppio da parte dei mercanti inglesi e dei medici tedeschi, con la conseguente sintesi dei suoi derivati, hanno interessato, coinvolto a sconvolto i cosiddetti governi civilizzati del mondo cristiano e islamico, i quali, pur tramite controversie, anatemi, esaltazioni, divieti a persecuzioni, hanno finito col demonizzarne l’uso o, all’opposto e più spesso, col monopolizzarne economicamente il commercio soprattutto per quanto riguarda alcol e tabacco , provocando così l’esplosione incontrollabile del mercato clandestino gestito dalle mafie dei vari paesi e la conseguente amplificazione degli abusi più perniciosi.


Psilocybe mexicana.

Sia l’alcol che il tabacco e l’oppio, ben prima di essere trasformate in droghe sociali di massa, furono retaggio sacrale e culturale di intere civiltà. Molto ampia sarebbe la lista delle bevande fermentate il cui principio attivo è l’alcol etilico utilizzate fin dai tempi preistorici dai popoli più diversi allo scopo di indurre un’ebbrezza sacra e profana al tempo stesso. 

Un’ebbrezza capace tra l’altro, negli opportuni contesti cultuali, di rimuovere la barriera che divide uomini e donne dagli Dèi (o dalle profondità arche tipiche dell’inconscio), generando una profonda e totalizzante comunione collettiva col Sacro.

Basti ricordare le più note a diffuse: il vino, prodotto dalla fermentazione dell’uva e collegato dai Traci, e poi dai Greci, ai Misteri di Dioniso; e la birra, ottenuta dalla fermentazione dei cereali (orzo, mais, ecc.), la cui origine fu attribuita dai Celti al potere di Cernunno, il Dio Cornuto dell’estasi a della fertilità[27].

Il tabacco, originario delle Americhe nelle sue due specie principali (Nicotiana tabacum L. a N. rustica L.) , fu considerato già dagli Aztechi come il corpo della Dea Cihuacohatl[28] e trovò una diffusissima utilizzazione sacramentale da parte degli sciamani sia amerindi che pellerossa, i quali usavano fiutarlo o fumarlo, in quantità anche enormi, allo scopo di indurre trance estatiche o allucinatorie.

La “scoperta” delle popolazioni amerinde, delle loro terre a dei loro culti psico-vegetali da parte di Colombo, alla fine del XV secolo, portò la sacra pianta del tabacco a contatto con la cultura occidentale, che attraverso il consueto, paranoico balletto tra proibizione a monopolio, è riuscita a trasformarla in una droga di massa, intossicante e cancerogena, molto lucrosa per i suoi legalizzati spacciatori, ma ormai priva di qualsiasi facoltà psicoattiva.

Quanto all’oppio, le sue elevate qualità sia terapeutiche che psico-neurologiche, nonché la pericolosità a l’ambivalenza del suo utilizzo, erano già note ai Collegi sacerdotali egizi (che lo denominarono shepen) e babilonesi, nonché tra i Sumeri (presso i quali era conosciuto come hul gil, “la pianta della gioia”)[29] e tra i Greci, come certificato da Omero che ne cita l’uso nel IV Libro dell’Odissea celandolo sotto il nome di nepente[30].

L’estrazione del succo lattiginoso di oppio dalle capsule non maturate del papaver somniferum, o papavero da oppio, ben descritta da Dioscoride, medico di Nerone, fu sempre nota agli Arabi come agli Europei fino al Cinquecento, quando il medico, mago e alchimista Paracelso ne ottenne, per primo, il laudano (tintura di oppio in alcol), utilizzato come medicinale e come droga psicoattiva fino a tutto il XIX secolo.

La catastrofica dipendenza fisica causata da un utilizzo non controllato e sovraddosato dell’oppio fu poi l’elemento scatenante della sua strumentalizzazione da parte delle Compagnie commerciali inglesi in Asia. 

In particolare la Compagnia delle Indie Orientali monopolizzò il tra sporto e il commercio indiscriminato dell’oppio in Cina – dove fino a quel momento il suo uso era stato limitato ai circoli filosofici taoisti e ad alcuni ambienti aristocratici – causando le premesse dello scatenarsi, nel 1839 e nel 1856, di ben due guerre tra Gran Bretagna e Impero cinese.

Le autorità del Celeste Impero, per salvaguardare la salute delle popolazioni, tentavano infatti di limitare con ogni mezzo l’esportazione della sostanza nel proprio territorio da pane degli Inglesi che lo coltivavano a importavano dall’India. La Guerra dell’oppio (1839-42) fu vinta dalla cristianissima regina Vittoria e, oltre a dover aprire i suoi scali all’oppio inglese, la Cina dovette cedere il territorio di Hong Kong che è rimasto fino al 1997 in mani britanniche[31].

Nel 1805 Friedrich Sertürner, un chimico tedesco, isolò uno dei principali alcaloidi contenuti nell’oppio, la morfina e nel 1898, sempre in Germania, venne prodotto un suo derivato, la diacetilmorfìna, meglio conosciuta come eroina. 

Le proprietà narcotiche a psicoattive della morfina, del suo etere metilico (codeina) a soprattutto dell’eroina sono sproporzionatamente squilibranti e tossiche a hanno la principale caratteristica di indurre in breve tempo, nella generalità degli individui psichicamente a culturalmente impreparati al loro utilizzo, un’assoluta dipendenza sia psicologica che fisica.

La grande diffusione clandestina di queste sostanze, seguita alla loro proibizione legale, è divenuta il principale alibi per la sistematica persecuzione legislativa e morale di ogni frutto del Giardino Magico, con l’unica eccezione, almeno nei paesi di cultura occidentale, di alcol e tabacco, il cui business non vuole essere intaccato più di tanto.

Una persecuzione che in realtà, dietro il pretesto di una difesa della salute, risulta essere una Guerra Santa contro ogni ricerca sperimentale di modificazione della coscienza estranea ai canoni religiosi e medici accettati dalla cultura dominante. Come ha scritto nel 1974 il medico americano Thomas S. Szasz[32], uno dei massimi esponenti mondiali del pensiero libertario in materia di droghe,


ciò che chiamiamo “guerra contro l’abuso di droga” è in realtà una guerra per eliminare, se possibile dovunque, l’uso di droghe che disapproviamo e nello stesso tempo per incoraggiare dovunque l’uso di droghe che approviamo[33].

Mentre sul fronte della psichiatria non dovrebbero essere dimenticate le illuminanti considerazioni dello psichiatra americano Lawrence Le Shan, specialista nello studio degli stati alterati di coscienza, quando già negli anni ’60 affermava che:


Lo stato normale della nostra coscienza è semplicemente un prodotto provinciale della nostra civiltà meccanizzata occidentale. Possiamo benissimo considerarlo come il tipo di coscienza in cui la nostra cultura ammaestra gli individui, ma esistono altri tipi di coscienza altrettanto validi, ognuno con i suoi vantaggi ed i suoi svantaggi […] 

Quando si parla di stati di coscienza alterati si intende alterati rispetto al normale, al giusto, al corretto stato di coscienza. Ma non esiste alcuna dimostrazione che lo stato normale è quello giusto. Ogni tipo di coscienza ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, e – per quanto ne sappiamo – nessuno rivela la verità.

E ancora:

Dato che noi consideriamo normale e sano lo stato di coscienza non alterato, non ci succede per caso di considerare patologici gli altri stati e malati coloro che percepiscano la realtà in modo diverso? Tornando all’esempio dei chiaroveggenti, che possono vedere in due modi, non li consideriamo forse dei fenomeni patologici? Nel paese degli orbi quello che ha due occhi viene accompagnato dallo psichiatra[34].


Dai frutti proibiti ai rivoluzionari della coscienza



Cannabis.

Dal tempo in cui Eva e Adamo vennero puniti a maledetti dal dio semita per avere mangiato una “sostanza proibita” che, secondo i saggi consigli del Serpente, sarebbe stata capace di aprire i loro occhi[35], l’uso sacro delle piante psicoattive, così come ogni altro aspetto dell’approccio magico al sacro, venne brutalmente perseguitato dalle religioni monoteiste e particolarmente dalla Chiesa Cattolica Romana. 

Che, imitata ben presto dalle autorità protestanti e successivamente dai poteri politici a scientifici “laici”, fu la prima e principale responsabile di quell’ottusa ostilità verso ogni possibile modificazione libera e volontaria della coscienza, che ha caratterizzato e caratterizza le gerarchie culturali dominanti dell’Occidente.

Anche in questo caso la Cristianità non ha smentito il proprio ruolo repressivo e invasivo rispetto a ogni alternativa spirituale, confermando ancora una volta ciò che acutamente ha ricordato il premio Nobel per la letteratura Elias Canetti nel suo Massa e potere (1960):

Paragonato alla chiesa, ogni despota fa la figura di un inesperto[36].

Nella metà del XVI secolo il secondo Concilio di Lima condannò il consumo di coca tra gli Indios come blasfemo e “superstizioso” e i missionari al seguito dei conquistatori spagnoli usarono ogni mezzo per sradicare nelle popolazioni locali amerinde il culto del peyotl, defìnito come “radice diabolica”, mentre papa Urbano VIII, più o meno nello stesso periodo in cui fece processare e condannare Galileo, proclamò in tutto il mondo cristiano la proibizione dell’uso del tabacco, “degradante per l’anima”, sotto pena di scomunica.

Le strane facoltà dimostrate dalle piante psicoattive vennero attribuite al potere del Diavolo e ancora una volta l’oscurantismo ignorante fece di “Satana” il grande patrono di una scienza o saggezza rifiutata. Infatti la tragica guerra tra gli eredi del dio biblico a gli estimatori e le estimatrici del “frutto proibito” risultò particolarmente evidente nella lotta contro la stregoneria, un culto le cui profonde radici sciamaniche, legate a forme di religiosità precristiana, sono state ormai accertate dalle ricerche storiche a antropologiche più avanzate.

La sanguinosa persecuzione contro le “streghe” fu in realtà una crociata cristiana contro l’inaspettato diffondersi di un’antichissima religione magica lunare[37], i cui adepti e, soprattutto, adepte praticavano antiche “arti”, tra cui la manipolazione a l’uso di erbe e piante “magiche” – cioè psicoattive – capaci di indurre visioni a “incantamenti” sotto l’egida della dea Diana a dei suoi totem cornuti[38].

I “voli” nell’aria, i sabba, le orge mistiche e sensuali, i filtri incantatori, le “trasformazioni” in bestie, tutto nella documentazione sul culto delle streghe trasmessaci dagli stessi persecutori attraverso i verbali dei processi ci parla di un uso, forse solo in parte consapevole, di sostanze, erbe, radici e funghi atti a modificare e dilatare la percezione a la coscienza sino a favorire il raggiungimento di un’intima comunione con la natura e i suoi misteri siderali, vegetali a animali.

Giambattista della Porta, letterato ed “esoterista” napoletano, dopo aver direttamente osservato numerose adepte del culto durante i loro “viaggi” rituali concluse nel suo Magia naturalis (1589) che l’illusione del volo, le visioni eroto-magiche dei “demoni” e le apparenti metamorfosi licantropiche venivano indotte dagli unguenti con cui queste donne si cospargevano il corpo[39].

Tra le principali piante psicotrope il cui uso è attestato da parte delle streghe possono essere registrate: mandragola, cicucta virosa, belladonna (conosciuta appunto come “erba delle streghe”), hyoscyamus niger o giusquiamo (capace di produrre visioni profetiche e già utilizzato dalle pitonesse del tempio di Delfi), datura stramonium e datura innoxia(emblematicamente chiamate “erbe del diavolo”[40] e tuttora utilizzate come “piante-alleato” dagli sciamani sudamericani) e, non sorprendentemente, amanita muscaria, il fungo delle visioni dei sacerdoti vedici e iranici[41].

Va inoltre ricordata la frequente presenza nelle misture rituali di varie parti organiche della più comune specie di rospo, il bufo vulgaris, nelle cui ghiandole è contenuta una sostanza dall’alto potere allucinogeno: la bufotenina[42].

Appare quindi evidente che, sia pure indirettamente, il genocidio perpetrato da cattolici e protestanti contro i membri del “culto di Diana” fu anche, se non soprattutto, una reazione persecutoria contro l’ennesimo tentativo, da parte di uomini e soprattutto di donne diverse a ribelli, di conoscere e assaporare i “frutti proibiti” del Giardino Magico.

Ma nessuna persecuzione poteva spegnere il grande anelito umano verso la conoscenza, il piacere e la libertà dello spirito. Tra le pieghe più segrete delle varie tradizioni “eretiche”, magiche a alchemiche, che nonostante i roghi di corpi e di libri mai hanno cessato di percorrere i sotterranei culturali dell’Occidente, i misteri psico-vegetali sono stati amorevolmente trasmessi attraverso il tempo.

Già nel Medioevo, per esempio, l’uso medico e ricreativo della cannabis era giunto in Europa dal Medio Oriente attraverso la mediazione dei crociati a probabilmente in forza di quella strana forma di “alleanza virtuale” che, secondo alcuni storici, sembra aver collegato l’eretico ordine dei Templari con la setta iniziatica islarnica degli Hashishin (o mangiatori di haschis), fondata e guidata net XII-XIII secolo dallo sceicco fatimide Hassan ben Sabbah – ricordato da Marco Polo come il Veglio della Montagna – il cui motto sembra fosse: “la verità non esiste e tutto è permesso”.

Nella prima metà del XVI secolo il medico e libero pensatore François Rabelais nei suoi romanzi ermetici, nascosti sotto il velo della satira, cantò per primo in Occidente le lodi della canapa Indiana e dei suoi effetti, celandola sotto il nome di erba pantagruelion. Le prime ricerche scientifiche e mediche sulla cannabis iniziarono soltanto alla fine del Settecento, quando i medici di Napoleone la riportarono in Francia dopo la Campagna d’Egitto.


Claviceps purpurea o segale cornuta.

La libera diffusione della cannabis a dell’oppio in Francia durante tutto il XIX secolo influenzò profondamente l’atmosfera spirituale romantica e l’uso di sostanze psicoattive come stimolanti della creatività individuate e artistica si diffuse rapidamente tra tutte le personalità più sensibili a geniali dell’epoca.

Nel 1844 a Parigi Théophile Gautier (il teorico dell’arte per l’arte), insieme ai pittori Fernand Boissard e F.B. de Boisdenier, fondò l’esclusivo club letterario degli Hachischins, riallacciandosi in qualche modo alla tradizione un po’ magica e un po’ romantica degli adepti ismailiti del Vecchio della Montagna.

All’interno di questo circolo la crema intellettuale e artistica francese, in gran parte costituita da massoni, celebrava una sorte di convegni rituali dove si mangiava haschis e si fumava oppio, sia a scopo ricreativo che con il preciso intento di stimolare oltre il consueto le facoltà artistiche e immaginative alla ricerca di nuove forme di espressione estetica.

Le esperienze individuali e di gruppo degli Hachischins coinvolsero, tra gli altri, Victor Hugo, Gérard de Nerval, Eugéne Delacroix, Alexandre Dumas (padre), Honoré de Balzac e il giovane Charles Baudelaire che, in positivo e in negativo, descrisse mirabilmente i risultati delle proprie esperienze con oppio a haschis nei Paradisi artificiali (1860)[43].

La ricerca chimicoestetica del circolo di Gautier aveva avuto i suoi precedenti – soprattutto attraverso l’uso di oppio e laudano – tra alcuni dei principali esponenti del Romanticismo inglese, come Samuel Coleridge, John Keats a particolar mente Thomas de Quincey, che nel 1822 pubblicò le Confessioni di un mangiatore di oppio, opera che proprio Baudelaire tradusse a fece circolare in Francia[44].

De Quincey aveva vissuto con l’oppio un’intimità totalizzante e la sue creatività artistica ne era stata enormemente amplificata. Ma alla fine era caduto prigioniero dell’assuefazione a della dipendenza, dalle quali riuscì poi a liberarsi grazie a una tenace autodisciplina e a una ferrea quanto progressiva riduzione delle dosi.

Un’analisi interdisciplinare fra antropologia, biochimica, filosofia e letteratura darebbe probabilmente risultati sorprendenti a proposito del reale influsso che l’uso sistematico e a volte rituale di sostanze psicoattive ha avuto sullo sviluppo della dimensione estetica, filosofica e letteraria occidentale e, di riflesso, sulla rivoluzione dei costumi e sul mutato atteggiamento verso la vita a verso il sacro che ha introdotto e accompagnato il nostro secolo[45].

Dai citati pionieri del primo Romanticismo ottocentesco, cui non va dimenticato di aggiungere E.A. Poe, i cui fantastici viaggi nel soprannaturale non furono estranei all’uso dell’oppio, passando attraverso gli ineffabili “mangiatori di haschis” di Gautier fino attraverso gli ineffabili “mangiatori di haschis” di Gautier fino a Flaubert, Maupassant, Apollinaire, Rimbaud e proseguendo con Proust e decine di altri, si può dire non vi sia stato quasi alcun talento letterario o poetico, soprattutto tra i romantici e i decadentisti a cavallo tra i due secoli, non coinvolto nell’uso delle antiche, sacre sostanze.

Tra il 1888 e il 1896 il farmacologo tedesco Louis Lewin isolò l’alcaloide della mescaline dal peyotl, pubblicando poi uno studio dettagliato sugli aspetti biochimici, etnologici e religiosi del cactus messicano, che da quel momento negli ambienti scientifici assunse il nome di anhalonium Lewinii. 

Le potenzialità enormi della mescalina come chiave di liberazione degli universi interiori furono accolte dagli artisti a dagli sperimentatori della coscienza con un entusiasmo ancora superiore a quello che era stato riservato all’oppio e ai suoi derivati morfinici, la cui sgradevole tendenza a creare assuefazione aveva causato problemi a molti.

Allo stesso modo di quello dell’haschis il principio attivo del peyotl poteva essere pilotato a piacimento senza indurre alcuna forma di dipendenza fisica, come ebbero a sperimentare lo scrittore, regista teatrale ed esoterista Antonin Artaud (uno dei massimi esponenti del Surrealismo) e più di ogni altro l’eclettico inglese Aldous Huxley, che sotto la guida dello psichiatra Humphry Osmond – inventore dell’aggettivo “psichedelico” – sperimentò a largo la mescalina con intenti filosofico-conoscitivi, pubblicando nel 1954 le proprie osservazioni illuminanti in quella che probabilmente resta la sue opera più importante: 


Le porte della percezione [46].

La sinergia tra scienziati, letterati e artisti nell’ambito delle ricerche sulle alterazioni artificiali della coscienza era state inaugurate dallo psichiatra francese Jacques Joseph Moreau de Tours che, dopo essersi occupato a lungo della chimica del cervello, aveva sperimentato l’uso della cannabis per la cure di alcune forme di malattia mentale.

De Tours, nella sue veste di sperimentatore, era stato l’autentico ispiratore di Gautier e degli Hachischins e forniva lui stesso l’haschis al gruppo seguendo i risultati delle “sedate”. 

Dal canto suo Havelock Ellis, uno dei fondatori della moderna sessuologia, dopo avere personalmente sperimentato e autoanalizzato gli effetti del peyotl, persuase diversi artisti suoi amici a sottoporsi a una serie di sedate psichedeliche, registrandone accuratamente le esperienze.



Lophophora Williamsii meglio conosciuta come peyotl

La convergenza tra lucida analisi scientifica, avventura spirituale estetica e analisi antropologica delle antiche culture religiose portava sempre, e ha portato fino ai giorni nostri, a una sola, rivoluzionaria conclusione, che sconfina nella magia: l’estasi chimica, la pratica mistica a la “visione” sciamanica si rivelano simili fino ad apparire come una sole, identica esperienza.

Le piante magiche e i loro derivati continuano a essere quello che sempre sono state: una chiave di accesso alla dimensione del sacro. Carne a Spirito dissolvono e confondono i propri confini attraverso il pasto eucaristico dei Cibi Divini.





Psiconautica e nuova gnosi

Non c’è Dio, Bibbia o Vangelo, non ci sono parole che fermino lo spirito […] Noi abbiamo messo la mano su una bestia nuova […] Abbandonate le caverne dell’essere. Venite […] Cedete al pensiero integrale[47].

Così scriveva nella Révolution surrèaliste del 1925 Antonin Artaud, “apostolo” del peyotl e propugnatore di una rivoluzione “magica” dell’arte, della religione e della cultura

La riscoperta, sia biochimica che antropologica e artistica, del Giardirio Magico e del suo possibile utilizzo corse di pari passo con la rinascenza magico-esoterica che fiorì a partire dalla seconda metà del XIX secolo, coagulandosi in una costellazione di Logge occulte a Ordini iniziatici, spesso derivati dalla Massoneria.

In tali organizzazioni il principale filo conduttore era una nuova a appassionata forma di paganesimo e tra i loro membri figuravano, nella comune ricerca, poeti, scrittori, medici, filosofi e ricercatori degli antichi Misteri. 

All’interno di alcuni di questi Ordini le pratiche teurgiche e la ricerca alchemica costituivano la base di un graduale processo di autoconoscenza radicale, il cui sviluppo implicava tecniche di proiezione fuori dal corpo, esplorazioni mentali di altre dimensioni, contatti con poteri extra umani a soprattutto la sistematica trasmutazione della coscienza di veglia, mutevole a transitoria, verso un più profondo, stabile e divino stato dell’Essere.

I propellenti tecnici atti a scatenare tali processi potevano essere differenziati, ma i più potenti a veloci – spesso anche combinati fra loro – furono l’uso magico dell’erotismo, o magia sessuale e l’assunzione controllata di droghe.

In Italia questo particolare tipo di ricerca magica fu ampiamente praticato dal Gruppo di UR, una “catena” di studiosi ed esoteristi provenienti da diverse tradizioni a guidati negli anni ’20 da Julius Evola, che nel suo saggio sull’uso delle droghe a scopo iniziatico, pubblicato nei fascicoli di UR tra il 1927 a il 1928, analizzò i vari tipi di sostanze naturali e di sintesi che potevano essere utilizzate come alchemiche “acque corrosive” (acidi corrosivi per le concrezioni dell’Io), dimostrando particolare interesse per la mescaline e soprattutto per l’etere etilico[48].

L’Ordine magico-iniziatico che più di ogni altro sviluppò al proprio interno una sistematica utilizzazione rituale, sia individuale che collettiva, di sostanze psicoattive, spesso combinata con pratiche magico-sessuali, fu l’Ordo Templi Orientis (O.T.O.), fondato nel 1904 da massoni tedeschi depositari di tradizioni rosacruciane, sufiche a tantriche e stabilmente consolidato a tutt’oggi in vane forme e filiazioni, sia in Europa che negli Stati Uniti[49].

Nel Grado Operativo interno detto “Concilio dei Principi”, durante una cerimonia di contatto collettivo con la radice sensuale dell’Essere, definita con il nome mitico di Babalon gli iniziati dell’Ordine assumevano ritualmente dosi controllate di laudano(indicato con la cifra kabbalistica “31”), all’epoca legalmente commercializzato in tutta Europa, raggiungendo suo tramite una sorta di coscienza illuminata di gruppo[50].

Nel 1922 divenne Gran Maestro dell’O.T.O. il magista, esploratore e poeta inglese Aleister Crowley, che con i suoi libri, ricerche ed esperienze ha contribuito forse più di ogni altro in Occidente a stabilire un ponte di collegamento tra pratiche magiche, stregoneria sciamanica e uso di sostanze atte a modificare la coscienza[51].

Crowley sperimentò in forma radicale praticamente tutti i tipi di droga conosciuti alla sue epoca, rivolgendo una parti colare attenzione all’hashish, all’anhalonium Lewinii (peyotl) e all’etere. 

L’eclettico magista ingaggiò altresì una titanica lotta, conclusasi vittoriosamente, contro l’assuefazione all’eroina e alla morfina, che aveva iniziato ad assumere a scopo terapeutico secondo le prescrizioni mediche del tempo e alla cui schiavitù era giunto a sottoporsi volontaria mente per “esplorarne i meccanismi”, come testimoniato nel The diary of drug fiend pubblicato nel 1922[52].




Papaver somniferum.

La filosofia magico-sperimentale sulle droghe sviluppata dai magisti neopagani, da Crowley, dall’O.T.O. a da tutte le moderne organizzazioni e correnti di pensiero magico, neo-gnostico e neo-stregonico che ne sono derivate costituisce di fatto lo sfondo su cui si sono sviluppate tutte le più illuminate forme contemporanee di approccio al problema[53].

Secondo queste premesse i frutti del Giardino Magico vanno avvicinati tenendo conto della propria vocazione e qualificazione personale, equipaggiandosi con una precise conoscenza scientifica delle singole sostanze a dei loro diversi effetti bio-chimici e mentali. 

Uso e pratica vanno inoltre finalizzati, guidati e limitati con estrema tecnica e precisione nel contesto di un atteggiamento sacramentale in cui si realizzi un’autentica simbiosi tra mente, corpo, natura a cosmo.

La “via delle droghe” non è che una delle diverse opzioni che si presentano al magista come strumenti autorealizzativi. Qualora venga fatta questa scelta, l’utilizzazione dei “cibi sacri” per essere efficacemente creativa non potrà che essere circoscritta entro spazi e tempi definiti e comunque considerata temporanea poiché gradualmente il corpo stesso del “viaggiatore” o operatore psico-magico deve raggiungere attraverso questi stimoli la capacità di produrre i medesimi effetti senza l’ausilio di sostanze esterne.

Le moderne ricerche mediche sulla produzione biochimica delle endorfine all’interno dell’organismo prefigurano questa possibilità e rendono credibili le affermazioni dell’antropologo americano Carlos Castaneda, recentemente scomparso, che, dopo essere stato iniziato dagli stregoni Yaqui attraverso l’uso della “pianta alleato”(datura innoxia), del Piccolo Fungo (il fungo psilocybe) e del “maestro protettore Mescalito” (peyotl) proseguì le proprie esperienze meta- corporee ed extrasensoriali e concluse il proprio iter sciamanico senza più utilizzare alcuna sostanza “propulsive”[54].

E non devono peraltro essere dimenticate le numerose sperimentazioni effettuate sul fronte della moderna Parapsicologia da coraggiosi ricercatori come l’americano Charles T. Tart, il farmacologo spagnolo Bascompte-Lakanal, la coppia di psicologi Masters e Houston, a ancora Andrija Puharich e Leonid Vassiliev dai cui risultati sembrerebbe che la fenomenologia paranormale in genere subisca sensibili accentuazioni in presenza di assunzione di sostanze psicoattive da parte dei soggetti 
studiati[55].



Statuetta di uomo-animale-fungo.

Sia le filiazioni contemporanee dell’O.T.O. (operanti anche in Italia) che i liberi gruppi di ricerca sulla Psiconautica – come ormai viene definita questa scienza – sono oggi orientati verso un prudente rifiuto nei confronti degli oppiacei (soprattutto morfina ed eroina) per la loro devastante pericolosità e sono piuttosto interessati ad approfondire sia le possibilità delle tradizionali sostanze psichedeliche, libere da ogni rischio biologico di assuefazione (piante varie, cannabis, funghi, mescalina, LSD…), che a elaborare l’utilizzazione e la sintesi di nuove sostanze psicoattive, naturali o composte, non facenti parte delle inique liste di proscrizione del proibizionismo a quindi legalmente utilizzabili.

Interessante è, a questo proposito, il nuovo termine di alchimia enteogenica, cioè l’arte di manipolare a produrre sostanze enteogene – ovvero rivelatrici della divinità interiore – proposto in Italia dal Società Italiana per lo Studio degli stati di Coscienza (S.I.S.S.C.)[56], un’associazione scientifica di medici, botanici, psichiatri, esoteristi e “psiconauti enteogenici” collegata ad analoghe associazioni straniere, che pubblica periodicamente la rivista Altrove a nel cui comitato scientifico spiccano i nomi di Richard Evans Schultes, il già citato direttore del museo botanico di Harvard, e di Albert Hofmann, scopritore dell’LSD a propugnatore di una cultura enteogenica, gnostica a neo-eleusina[57].

Hofmann, che nel 1951 condusse una serie di sedute enteogeniche a base di LSD con Ernst jünger (che ha da poco celebrato il suo 100° compleanno) e che negli anni ’60 collaborò intimamente con Huxley[58], fu anche uno dei principali ispiratori del rivoluzionario professore di Harvard Timoty Leary, i cui interessi magico-esoterici per le tematiche sviluppate dall’O.T.O. sono ben noti e che all’alba della rivoluzione culturale giovanile dell’ultimo trentennio si fece profeta, sulla base delle proprie esperienze con LSD, di una nuova formula culturale neo-gnostica e psichedelica[59].

E con le parole di Leary, pubblicate nel 1970 come “i due comandamenti dell’era molecolare”, che potremmo chiosare ogni manifesto di una nuova, possibile Era del corpo e della mente:

1. Non alterare la coscienza dei tuoi simili. 
2. Non impedire che i tuoi simili alterino la loro coscienza[60].

Frasi da non dimenticare.






Note

[1] Cfr. Daniel S. Worthon, Conoscere le piante allucinogene, Savelli, 1980, p. 60-63.
[2] Cfr. Robert S. de Ropp, Le droghe a la mente, Roma, Cesco Ciapanna, 1980, p. 147.
[3] Cfr. Philippe de Fèlice, Le droghe degli dei, Genova, ECIG, 1990, p. 158-159.
[4] Cfr. Cesco Ciapanna, Marijuana e altre storie, 1979, p. 195-196.
[5] Ivi, p. 197-199.
[6] De Ropp, Le droghe… cit., p. 148.
[7] Cfr. Ciapanna, Marijuana… cit., p. 198.
[8] De Ropp, Le droghe… cit., p. 148.
[9] Cfr. Albert Hofmann, LSD: il mio bambino difficile, Milano, Urra, 1995.
[10] Cfr. de Ropp, Le droghe… cit., p. 147.
[11] Sull’opera e sulle ricerche di Wasson e sui suoi stretti rapporti con Hofmann vedi anche: Worthon, Conoscere le piante allucinogene… cit., p. 67-69, nonché le dettagliate descrizioni dello stesso Hofmann al cap. 9 della sua opera fondamentale (Hofmann, LSD… cit., p. 101-126.)
[12] Cfr. de Ropp, Le droghe… cit., p. 150.
[13] Sulle connessioni tra i Misteri Eleusini e il probabile utilizzo di sostanze psicoattive estratte da qualche fungo psilocibinico vedi il pregevole saggio dello psicanalista Gilberto Camilla, direttore scientifico della rivista Altrove pubblicata dalla Società Italiana per to studio degli stati di coscienza, Ritorno ad Eleusi (“Altrove”, Torino, Nautilus, n. 3 – 1996, p. 13-27).
[14] Va ricordato che le ricerche che portarono a formulare l’ipotesi di un preparato estratto dalla segale cornuta come sostanza psicoattiva utilizzata nel corso dei Misteri Eleusini vennero pubblicate nel libro the road to Eleusis (1978) scritto da R. Gordon Wasson, Albert Hofmann a Carl A.P. Ruck, professore di etnobotanica della mitologia greca ad Harvard (vedi ed. New York-Londra, Harcourt Brace Jova novich). Cfr. Albert Hofmann, I misteri di Eleusi. Roma, Stampa Alternativa, 1993, p. 7-9.

[15] Cfr. Worthon, Conoscere le piante allucinogene… cit., p. 50-55.

[16] Sugli studi di Wasson in relazione all’amanita muscaras identificata con il soma cfr. de Ropp, Le droghe… cit., p. 163-165, Sul soma vedico e l’haoma iranico vedi anche: De Felice, Le droghe degli dei cit., p. 213-232.

[17] Cfr. de Ropp, Le droghe… cit., p. 15-17.

[18] Ivi, p. 39 sg.

[19] Cfr. Ciapanna, Marijuana… cit., p. 180.

[20] Sugli aspetti antropologici del culto della pianta di coca e sulla natura della cocaina vedi: De Félice, Le droghe degli deicit., p. 47-62. Per una dettagliata analisi della cocaina dal punto di vista tossicologico, anche se tracciata con un deciso taglio proibizionista da cui dissentiamo fortemente, vedi anche il saggio La cocaina (Milano, Il Falco, 1982) di Rosario Cutrufello, capo reparto neuropsichiatrico dell’Ospedale Militare Principale di Milano.

[21] Cfr. Worthon, Conoscere le piante allncinogene… cit., p. 44-45.

[22] Cfr. de Félice, Le droghe degli dei… cit., p. 154-156.

[23] Cfr. Ciapanna, Marijuana… cit., p. 193. Per un’estesa analisi di natura e diffusione a utilizzo sacramentale del kawa vedi: De Felice, Le droghe degli dei… cit., p. 98-105.

[24] Cfr. Daniele Piomelli, Storia della canapa indiana breve ma veridica, Roma, Stampa Alternativa, 1995.

[25] Bernardo Parrella, L’uomo e la cannabis, “Altrove”, Torino, Nautilus, n. 2 (1995), p. 27.

[26] Erodoto, Le storie, Storici greci, Firenze, Sansoni, 1993, p. 202 (IV, 73-75).

[27] Cfr. De Felice, Le droghe degli dei… cit., p. 276-281.

[28] Silvio Pagani, L’addomesticamento della molecola selvaggia: tabacco a cannabis a confronto, “Altrove”, Torino, Nautilus, n. 2 (1995), p. 69.

[29] Cfr. Dean Latimer, Jeff Goldberg, Fiori nel sangue: storia americana dell’oppio, dalle leggende antiche alle moderne scoperte scientifiche, Roma, Cesco Ciapanna, 1983, p. 22.

[30] Cfr. Omero, Odissea, IV, 280-307.

[31] Latimer, Goldberg, Fiori nel sangue… cit., cap. 6 (p. 81-125).

[32] Thomas S. Szasz, nato a Budapest nel 1920, ha insegnato psichiatria alla State University di NewYork a Syracuse a partire dal 1956.

[33] Thomas S. Szasz, Il mito della droga la persecuzione rituale delle droghe, dei drogati a degli spacciatori, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 56.

[34] Brani tratti dalla conferenza di Le Shan pubblicata in: PSI and altered states of consciousness, New York, Garrett Press, 1967, p. 129-130. Cfr. Ciapanna, Marijuana… cit., p. 210.

[35] Un’illuminante analisi metaforica sul mito giudeo-cristiano della proibizione ad Adamo di consumare i frutti dell’Albero della Conoscenza correlato al tabù occidentale rispetto alle sostanze psicoattive viene tracciato da Szasz in Il mito della droga… cit., p. 91-93.

[36] Elias Canetti, Massa a potere, Milano, Adelphi, 1981, p. 187.

[37] Cfr. Margaret A. Murray, Il dio delle streghe, Roma, Ubaldini 1972; Le streghe nell’Europa occidentale, Milano, Garzanti, 1978. Vedi anche: Pinuccia Di Gesaro, Streghe: l’ossessione del diavolo, il repertorio dei malefizi, la repressione, Bolzano, Praxis 3, 1988; I giochi delle streghe: stregonerie confessate nei processi del Cinque a Seicento e convalidate dai massimi demonologi, Bolzano, Praxis 3, 1995.

[38] Cfr. Massimo Centini, Le schiave di Diana: stregoneria a sciamanismo tra superstizione a demonizzazione; Genova, ECIG, 1994.

[39] Ivi, p. 283-284.

[40] Cfr. Gilberto Camilla, Le erbe del Diavolo: aspetti antropologici, “Altrove”, Torino, Nautilus, n. 2 (1995), p. 105-115.

[41] Centini, Le schiave di Diana… cit., p. 286-289.

[42] Cfr. Albert Most [e altri.], Rospi psichedelici, Torino, Nautilus, 1995. Vedi anche: Luciano Pirrotta, Il rospo nei rituali satanici, “Abstracta”, n. 28 (lug.-ago. 1988), p. 39-43.

[43] Cfr. Charles Baudelaire, I paradisi artificiali, Milano, Dall’Oglio, 1974.

[44] Cfr. Thomas De Quincey, Confessioni di un oppiomane, Milano, Garzanti, 1987.

[45] Cfr. Walter Benjamin, Sull’hascisch, Torino, Einaudi, 1975.

[46] Cfr. Aldous Huxley, Le porte della percezione, Milano, Mondadori,1990.

[47] Cfr. Franco Fortini, Lanfranco Binni, Il movimento surrealista, Milano, Garzanti, 1991, p. 91-98.

[48] Cfr. EA (Julius Evola), Sulle droghe, in: Gruppo di UR, Introduzione alla Magia, Roma, Mediterranee, 1971, vol. 3, p. 363-377.

[49] Per una dettagliata analisi storica delle principali ramificazioni dell’Ordo Templi Orientis curata sotto la diretta supervisione dell’autore del presente articolo vedi: Akkademia Pan Sophica Alpha Draconis, Radici storiche a magiche delle filiazioni O.T.O., “Daimon: periodico di cultura neopagana, chelemica, gnostica e luciferiana”, Campi Bisenzio, APsAD, ed. speciale dell’1 dic. 1997, p. 2-13.

[50] Cfr. Francis King (curatore), The secret rituals of che O.T.O, London, C.W. Daniel Company, 1973, p. 131, nota 1.

[51] Roberto Negrini, A cinquant’anni dalla morte di Aleister Crowley: Vita, cultura a magia di un sapiente scandaloso, “Il Giornale dei Misteri”, n. 315 (gen. 1998), p. 31-35. Sulla vita e sull’opera di Crowley vedi anche la relazione da noi presentata a Cefalù in occasione del Convegno Internazionale Un mago a Cefalù: Aleister Crowley e il suo soggiorno in Sicilia (22-23 feb. 1997) promosso dall’Azienda Autonoma di Soggiorno di Cefalù e dall’Assessorato Regionale Turismo di Sicilia in occasione del cinquantenario della morte del magista inglese: Roberto Negrini, La Bestia e la Dea: Idealismo Magico a Illuminismo Scientifico di Aleister Crowley, dal Neopaganesimo europeo alla New Age, “Daimon”, ed. cit., p. 17-26.

[52] Cfr. Aleister Crowley, Diary of a drug frend, York Beach, Samuel Weiser, 1970.

[53] Sui diversi aspetti magico-operativi connessi all’utilizza zione di sostanze psicoattive vedi il saggio fondamentale di Kenneth Grant (discepolo di Crowley e attuale Gran Maestro della filiazione inglese dell’O.T.O.) La droga e l’occulto in: Kenneth Grant, Il risveglio della Magia, Roma, Astrolabio, 1973, p. 76-90.

[54] Cfr. Carlos Castaneda, A scuola dallo stregone, Roma, Astrolabio, 1970.

[55] Cfr. Ciapanna, Marijuana… cit., p. 233-240.

[56] Cfr. S.I.S.S.C. Psiconauti del 2000, “Altrove”, Torino, Nautilus, n. 2 (1995) , p. 25.

[57] “Sul modello eleusino si potrebbero istituire centri in grado di riunire a rafforzare le molteplici correnti spirituali del nostro tempo che mirano allo stesso traguardo, consistente nel creare i presupposti, tramite una trasformazione di coscienza in ogni singolo individuo, per un mondo migliore senza guerre né catastrofi ambientali, per un mondo abitato da uomini più felici” (Albert Hofmann, I misteri di Elensi… cit., p. 16).

[58] Cfr. Albert Hofmann, LSD: i miei incontri con Huxley, Leary, Fiinger, Vogt, Roma, Stampa Alternativa, 1992.

[59] Cfr. Timothy Leary, Ralph Metzner, Richard Alpert, L’esperienza psichedelica: manuale basato sul Libro Tibetano dei morti, Milano, SugarCo, 1974. 60. Cfr. de Ropp, Le droghe… cit., p. 179.

[60] Cfr. de Ropp, Le droghe… cit. p. 179.

sabato 22 aprile 2023

Il disagio esistenziale dell'aragosta





L’aragosta è un soffice e molle animale che vive dentro un guscio rigido. Questo guscio rigido non si espande. E allora come fa l’aragosta a crescere?        

Bene, come l’aragosta cresce quel guscio diventa estremamente limitante e l’aragosta si sente sotto pressione e a disagio: va sotto una formazione rocciosa per proteggersi dai pesci predatori, si libera dal guscio e ne produce uno nuovo.     

Col tempo, quel guscio diventerà molto scomodo quando cresce. Torna sotto la roccia e l’aragosta ripete questo processo numerose volte.    Lo stimolo che permette all’aragosta di crescere è il fatto che si sente a disagio.      

Ora, se le aragoste avessero dei medici non crescerebbero mai perché, nel momento in cui l’aragosta si sentisse a disagio, andrebbe dal medico e prenderebbe un Valium o un antidolorifico e si sentirebbe bene.
        
Non si libererebbe mai del proprio guscio.            

Penso quindi che dobbiamo renderci conto che i momenti difficili sono anche dei segnali per crescere e che, se usiamo in modo corretto le avversità, possiamo crescere grazie ad esse.

Abraham Joshua Heschel

venerdì 14 aprile 2023

V.I.T.R.I.O.L. e la discesa agli inferi


La descente au Vitriol 


In fondo a noi stessi, giacciono abbandonate parti di noi. Sono le nostre controfigure, gli attori che hanno recitato i nostri ruoli. Parti di noi, della nostra personalità, che sono la memoria di cosa abbiamo fatto e di cosa siamo stati, giacciono dimenticate in un oscuro ambiente chiamato subconscio.

La discesa di VITRIOL
di Athos A. Altomonte


Quelle controfigure sono le caratteristiche di cui noi ci siamo rivestiti, per raffigurare i modelli che abbiamo interpretato e poi abbandonato (figlio-figlia, studente, sportivo, amante, soldato, impiego-lavoro-professione, marito-moglie, madre-padre, giovane-anziano ecc) man mano che ci mutavamo in altri ruoli, modificando gli atteggiamenti e le situazioni.

Ma anche se ce ne siamo dimenticati, questi attori sono ancora svegli e vivono in noi, influenzandoci ancora con la loro presenza occulta. E non solo vivono in noi ma si nutrono della nostra energia vitale, che così depauperiamo senza scopo preciso.

Dovremmo, allora, prenderne coscienza entrando nel nostro Gabinetto di Riflessione interiore (Gabinetto di Riflessione in Imago Templi / Libro I) e decidere come operare il loro futuro.

Sarebbe bello, giusto ed utile cominciare la nostra opera di restaurazione, liberando quelle parti di noi, che noi stessi abbiamo imprigionate e poi dimenticate nel buio del nostro inferno interiore. 

Abbandonandole in quella “Interiora Terrae” chiamato subconscio.




Allora dobbiamo scendere in quella terra sconosciuta, per portarvi la luce della ragione. Scendere ad incontrare (e non è una metafora) quei personaggi, che sono i simboli viventi delle nostre scelte della nostra vita. Nel nostro sotterraneo, s’incontrano vere e proprie immagini umane che rispecchiano le parti più nascoste e dimenticate di noi stessi.

Sono queste le prime parti che si debbono “trasformare” e “liberare”. Sono le fondamenta da riedificare prima di elevare nuove mura al nostro Tempio interiore.

La discesa negli inferi è la prima azione da compiere per chi si pone alla ricerca della propria identità superiore. È un processo chiamato interiorizzazione a cui segue la disintegrazione (disidentificazione dai modelli profani) ch’è la fase liberatoria del processo, a cui segue la reintegrazione, cioè, l’identificazione di se stessi con idee di elevata fattura come quelle che caratterizzano l’Ego superiore. 

Ma tutto questo potrebbe sembrare un sogno, un’illusione. Eppure è usato dalla scienza moderna, sin da quando S. Freud la catalogò come: Indagine fantasmatica (1942). 

Ecco che gli antichi significati del Raja Yoga, della scienza dell’anima del misticismo orientale, il “Conosci te stesso” dell’antica Grecia ed il processo alchemico, coincidono con i significati attuali. 

La metamorfosi interiore, dunque, è una realtà operativa e realizzabile ( La Via di Mezzo).

La scienza medica ha sperimentato l’induzione di stati di trance attraverso l’ipnosi e l’ipnosi regressiva. Ricordare attraverso l’ipnosi, però, aveva il difetto di provocare dipendenza, come transfert ed imprinting indesiderati. Allora fu adottato il metodo dell’ipnosi vigile. 

Con il vantaggio non trascurabile, che il soggetto poteva autodeterminare la durata e la profondità della propria esperienza. La condizione per effettuare questa esperienza, rendendo davvero efficace il viaggio interiore, è quella di sviluppare una elevata capacità psichica: la visione interiore 
(L’arte della Visualizzazione in Sulla Trasmutazione metallica /5).

Perché la visualizzazione permette d’incontrare ma soprattutto di comunicare con i propri “fantasmi interiori”. Tanto da guidarli e ricondurli alla superficie della coscienza, così da liberarne la sostanza e permettere di riappropriarci di quelle porzioni di energia che altrimenti sarebbero rimaste inutilizzate per sempre .

Questo arricchimento energetico non è solo un atto di giustizia interiore (liberare i fantasmi che noi stessi abbiamo creato), ma significa liberarsi per sempre dalle loro influenze occulte: le cosiddette “tentazioni”. 

Inoltre, rigenerare tutte quelle forze sopite significa mettere di nuovo in circolo molta energia psichica. E non basta considerare il ringiovanimento della personalità fisica, ma con tanta energia nuovamente a disposizione, significa ridare “forza e vigore” ai propri propositi, alle proprie azioni, al proprio futuro


venerdì 7 aprile 2023

Coscienza ed Incoscio nel Buddhismo tibetano e Jung

Grady Louis McMurtry Declaration 



La coscienza e l'inconscio

Nel sistema di Jung e nel Buddhismo tantrico tibetano i concetti fondamentali della coscienza e dell'inconscio presentano una ampia varietà di connotazioni, per cui a volte non vengono compresi bene, facendo sorgere varie interpretazioni errate. 

In aggiunta a questo problema, i concetti espressi da Jung vengono spesso confusi con quelli di Freud, che invece sono molto diversi.

Tentiamo di esporne alcuni, ben sapendo che l’indagine sarà piuttosto limitata. Una vita intera o, come direbbero i buddhisti, numerose vite di studio e di pratica forse non sarebbero sufficienti per comprendere appieno i concetti esposti da questi due sistemi di pensiero.

Jung considera la coscienza e l'inconscio egualmente importanti. La coscienza, tuttavia, è l'“ultimo discendente della psiche inconscia”, il che significa che la prima è emersa dalla seconda.

Ad un certo punto Jung paragona la coscienza all'Io, affermando che:

La coscienza necessita di un centro, di un Io che sia cosciente di qualcosa. Non conosciamo alcun altro tipo di coscienza né potremmo immaginarne una che sia priva di un Io. Non può esistere alcuna coscienza, senza qualcuno che affermi “Io sono conscio”.

Jung sostiene che la coscienza, “la piú sorprendente tra le stranezze della natura”, esiste e desidera espandersi per il semplice motivo che senza di lei “le cose procedono meno bene”.

D'altro canto Jung parla anche di una “coscienza piú elevata”, una coscienza piú profonda e piú ricettiva che ci collega con il reame trans-personale. Illustrando con una terminologia psicologica un concetto esposto da Ignazio di Loyola, Jung sostiene che:

La coscienza dell’uomo fu creata affinché potesse riconoscere... la sua discendenza da una unità superiore...; mostrare un dovuto e diligente riguardo verso tale propria origine; eseguire i suoi dettami in modo intelligente e responsabile...; concedere quindi alla psiche, nella sua interezza, il massimo livello di vita e di sviluppo...

Secondo Jung, i simboli della completa integrazione psichica, che risolvono e trascendono gli opposti, si potrebbero definire “coscienza”, come pure “Sé”, “Io superiore”, o in qualsiasi altro modo.

Per Jung, “tutti questi termini sono solo nomi per indicare i fatti, le realtà, che sono l'unica cosa che veramente ha un valore”.

Jung definisce l'individuazione come lo sviluppo e l'espansione della sfera della coscienza. Tuttavia egli afferma che la mente conscia occupa una posizione centrale piuttosto relativa, essendo circondata interamente dalla psiche inconscia.

L'inconscio è l'area psichica che possiede un illimitato campo di azione.

È “la matrice di tutte le potenzialità”, meglio raffigurata come uno stato fluido che possiede una sua esistenza e una sua funzione autonoma e indipendente.

“L'inconscio percepisce, ha intenzioni e intuizioni, prova sensazioni e ha dei pensieri proprio come la mente conscia”.

Jung definisce cosí i contenuti dell'inconscio:

  • tutto ciò che so, ma che al momento non penso;
  • tutto ciò di cui ero cosciente ma, ma che ora ho dimenticato;
  • tutto ciò che viene percepito dai miei sensi ma che non viene annotato dalla mia mente conscia;
  • tutto ciò che, involontariamente e senza prestarci attenzione, sento, penso, ricordo, voglio e faccio;
  • tutte le cose che dentro di me stanno prendendo forma e che poi perverranno alla coscienza;
L'inconscio quindi contiene i contenuti futuri della psiche conscia e anticipa i futuri processi consci. Ma l'inconscio contiene anche i sedimenti ancestrali accumulati da un tempo infinito.

Per Jung, quindi, l'inconscio ha il volto di Giano: un viso è rivolto indietro, verso la preistoria, verso il mondo degli istinti primordiali, l'altro è rivolto al futuro destino dell'uomo.

Questo è un paradosso, perché “l'inconscio viene considerato come un fattore creativo, un audace innovatore e, allo stesso tempo, come la roccaforte di un ancestrale conservatorismo”.

Come Mercurio (personificazione dell'inconscio), è dualistico e contiene ogni aspetto della natura umana: luce e tenebra, bene o male, sovrumano e bestiale, divino e demoniaco.

Si può considerare l'inconscio come un forziere colmo di tesori, fonte di ogni ispirazione, creatività e saggezza.

Essendo un sistema psichico autonomo, che si esprime con il linguaggio dei simboli, svolge anche il ruolo di correggere le predisposizioni della mente conscia, compensando la sua unilateralità con una percezione piú ampia, immaginativa e non-razionale, che restaura l'equilibrio e rivela un significato piú completo. Le motivazioni inconsce spesso sono piú sagge e piú obiettive dei pensieri espressi dalla mente conscia.

L'inconscio quindi può essere una valida guida che indica la nostra vera destinazione, una destinazione che rimane fedele al nostro vero “Sé” e che non viene falsata dai pregiudizi della mente conscia.

Alla base della distinta coscienza individuale e dell'inconscio sottostante si trova l'inconscio collettivo, la comune eredità di tutta l'umanità e la fonte universale di ogni esistenza conscia. Nel profondo dell'inconscio collettivo non esistono differenze individuali o culturali, né alcuna separazione.

È il reame dell'unità primordiale, della non-dualità, attraverso cui ogni individuo è in relazione con il resto dell'umanità.

I buddhisti tibetani sostengono che la mente cosciente, quando si trova in uno stato di chiarezza privo di ostruzioni e di proiezioni - la coscienza pura -, è la radice della felicità e della liberazione, che si sperimenta come uno stato di eccelsa beatitudine.

Questo è lo stato di coscienza piú elevato, noto come mente della luce chiara.
Tuttavia esistono vari tipi e livelli di coscienza, che vengono descritti mediante differenti terminologie. In modo analogo, nella struttura della psiche proposta da Jung esistono vari livelli di coscienza e di inconscio.

Secondo il Buddhismo esistono sei tipi di coscienza: (definiti anche sensi)

  1. la vista,
  2. l'udito,
  3. l'olfatto,
  4. il gusto,
  5. il tatto
  6. e la mente (la coscienza mentale),

coscienza mentale che può essere inquinata dai difetti mentali che provocano le concezioni distorte dell'ego.

Inoltre, secondo una particolare dottrina buddhista, come fondamento di tutte le precedenti, esiste anche la cosiddetta “coscienza deposito” (alaya-vijnana), la fonte di ogni coscienza, la mente universale, che da un tempo senza inizio racchiude in sé come in un deposito tutte le forme primordiali e tutte le esperienze.

I suoi contenuti latenti si manifestano alle altre coscienze quando vengono attivati da corrispondenti condizioni e associazioni. La nozione di coscienza deposito chiaramente corrisponde al concetto di inconscio proposto da Jung.

In accordo alla descrizione dell'inconscio secondo Jung, Lama Govinda sostiene che l'alaya-vijnana:

... contiene sia le qualità negative sia quelle divine, la crudeltà e la compassione, l’egoismo e l'altruismo, l’illusione e la conoscenza, la passione sfrenata, le piú oscure pulsioni e anche il profondo desiderio di luce e di liberazione.

E illustrando l'esperienza del Tantra, Lama Govinda sostiene:

Non è sufficiente identificarci con l’unitarietà di una comune origine o di una potenziale buddhità, se non compiamo un passo decisivo verso la trasformazione e la reintegrazione degli aspetti divergenti della nostra psiche.

Se, come fece Jung, tentiamo di paragonare il concetto buddhista di mente illuminata con l'inconscio collettivo o con una coscienza superiore, incontriamo grandissimi ostacoli perché tutti questi concetti, spesso ambigui e contraddittori, hanno numerosi aspetti differenti. Inoltre, qui abbiamo a che fare con due diverse categorie: una filosofica e metafisica, e una psicologica, fatto che di conseguenza non rende possibile un effettivo confronto.

Tuttavia, in entrambi i sistemi - buddhista e junghiano - tali categorie rappresentano solo una conoscenza astratta e non esprimono e non possono esprimere l'esperienza profonda che costituisce la meta di ambedue i sistemi, vale a dire la trasformazione individuale ottenuta trascendendo l'esistenza ordinaria e quindi ottenendo la liberazione, o la realizzazione di “Sé”.

In quel momento di trascendenza la conoscenza cessa di essere filosofica o psicologica: divental'indescrivibile, diretta e immediata conoscenza al di là delle parole e dei pensieri, l'esperienza del vuoto (sunyata), del divino, del “Sé”, e dell'unione dell'uomo con Dio.

Jung si riferí a questa esperienza, in un modo o nell'altro, in molti dei suoi scritti, ma in particolare la espose in dettaglio in modo piú esteso nel suo testo Septem Sermones ad Mortuos - I Sette Sermoni per i Morti - scritto durante il periodo del suo confronto con l'inconscio.

Questa opera breve ma straordinaria e ricca di paradossi ricorda in modo impressionante il pensiero buddhista, perché rispecchia le parole del Sutra del Cuore, “la forma è vacuità e la vacuità è forma”, o quelle del Lankavatara Sutra nell'affermazione che “lo spazio è forma, e... poiché lo spazio permea la forma, la forma è spazio”.

E ora vediamo cosa afferma Jung:

Il nulla è identico alla pienezza. Nell’infinito il pieno non è meglio del vuoto. Il nulla è allo stesso tempo vuoto e pieno...

Una cosa infinita ed eterna non ha qualità, dato che possiede tutte le qualità.
Jung definisce questo nulla o pienezza “pleroma”, che egli distingue dal termine “creatura”, il principio della caratterizzazione. Nel pleroma “il pensiero e lo stesso essere cessano, perché l'eterno infinito non possiede qualità... Nel pleroma vi è nulla e ogni cosa”.

E in un ulteriore passaggio Jung scrive:

Tutto ciò che il processo discriminativo estrae dal pleroma è sempre una coppia di opposti. Dio, quindi, viene sempre associato al diavolo. Tale inseparabilità è tanto stretta e, come la vostra stessa vita vi ha insegnato, tanto indissolubile quanto il pleroma stesso.

Cosí entrambi si trovano molto vicini al pleroma, dove gli opposti si estinguono e si compenetrano. Nel pleroma possiamo riconoscere il concetto buddhista di vacuità, come pure la grande importanza del concetto tantrico di polarità e sua integrazione, che costituisce il nucleo essenziale di ogni pratica meditativa del Vajrayana.

Allo stesso tempo, il concetto junghiano di “funzione trascendente” è uno sviluppo e un'applicazione pratica del principio di pleroma. È importante ricordare che Jung scrisse i Septem Sermones ad Mortuos prima di aver scoperto le tradizioni orientali.

La trasformazione spirituale

La meta finale della psicologia di Jung e del Buddhismo tibetano è la trasformazione spirituale. Jung la definisce come realizzazione di sé, completa integrazione, mentre per i buddhisti tibetani è la buddhità, l'illuminazione ottenuta per il beneficio di tutti gli esseri.

Secondo il Buddhismo, ogni singolo individuo ha le potenzialità per diventare un buddha, ottenendo la suprema trasformazione. Sia per i buddhisti che per Jung, nell'animo umano è sempre esistito un forte desiderio di luce e di coscienza superiore, un anelito comune a tutta l'umanità.

Come dice Jung:

... nell’anima, sin dai suoi albori primordiali, è esistito un
desiderio di luce e un irrefrenabile impulso di emergere dalla
primitiva oscurità... la primordiale notte psichica... oggi è
identica a quella che ci ha accompagnato per innumerevoli milioni di
anni, sino ai nostri giorni. L’ardente desiderio di luce è desiderio
di arrivare alla pienezza della coscienza.

Per i buddhisti esiste una spinta verso la buddhità, essendo quest'ultima la quintessenza della natura umana, mentre per Jung è il forte desiderio di completezza e integrazione. In entrambi i casi, queste realizzazioni richiedono un lungo percorso, che secondo Jung è infinito, un cammino specifico per ciascun individuo, che si può realizzare solo tramite la mente.

Nel Buddhismo tantrico in particolare la mente è un sovrano che ha un potere illimitato.
Come l'alchimista può cambiare il metallo in oro, la mente può trasformare ogni evento in saggezza trascendentale, utilizzandolo come metodo per ottenere l'illuminazione.

E questo grandioso potere risiede dentro di noi, non in alcun altro luogo; non è separato da noi, tuttavia per riconoscerlo abbiamo bisogno della chiave della coscienza.

Secondo l'insegnamento del Buddhismo tantrico, l'illuminazione o la liberazione si può ottenere nel corso di questa stessa vita. Il processo consiste in un radicale mutamento della nostra percezione della realtà, un “rivolgimento della parte piú profonda della coscienza”, in cui l'Io o coscienza di sé ha diretto la propria attenzione verso la coscienza universale.

Si tratta di “una esperienza intuitiva dell'infinita e onnicomprensiva unità di tutto ciò che esiste”.

L'esperienza si può descrivere anche come una scoperta di un mondo al di là delle apparenze ordinarie, in cui gli opposti cessano di esistere. In questo spazio di apertura si superano tutti i limiti; non esiste piú alcunché di esclusivo, alcun “questo o quello”, ma “questo e quello”; tutto viene incluso, nulla viene rigettato.

Questo è il mondo della non-dualità e del pleroma, da cui ogni cosa si origina e in cui ogni cosa si dissolve. I buddhisti lo definiscono con il termine sunyata, vacuità, lo spazio aperto che contiene sia il principio di causalità che quello di sincronicità.

Nel suo significato metafisico piú profondo, [sunyata] è il terrenoprimordiale, il perenne punto di partenza di ogni processo creativo.


È il principio di potenzialità illimitata... A livello intellettualesunyata è la relatività di tutte le cose e di tutte le condizioni, dato che nulla esiste indipendentemente, ma solo in relazione agli altri fenomeni e in definitiva a tutto l'universo. Questa relazione è qualcosa di piú di una semplice causale connessione
spazio-temporale; è un relazione che implica un terreno comune e una simultanea presenza di tutti i fattori dell’esistenza...

Dal punto di vista del Tantra ogni essere racchiude in sé l'intero universo. Non vi è separazione tra la mente universale e quella individuale, dato che la mente non è soggetta a limiti spazio-temporali.

Oggi le scoperte della fisica moderna ci rivelano che fondamentalmente il mondo è una unità, una interrelazione e una compenetrazione di tutte le cose e di tutti gli eventi.

E secondo l'Avatamsaka Sutra: Tutte le terre pure di buddha e tutti gli stessi buddha si manifestano nel mio essere... Ciò equivale alla convinzione di Jung, secondo cui il macrocosmo si manifesta nel microcosmo della psiche umana.

Egli afferma che: ... quella sconosciuta essenza dell’uomo, universale e vasta quanto il mondo esteso, che egli possiede naturalmente e che non si può acquisire.

In termini psicologici, tutto ciò corrisponde all’inconscio collettivo...

L'inconscio collettivo è il reame della psiche, ove prevale la non-dualità ma che contiene, come sunyata, il principio di illimitata potenzialità.
In questo modo, per Jung, i principi dell'universo si riflettono nella psiche.

L’unione degli opposti

Il concetto fondamentale del Tantra è il riconoscimento della polarità, e la sua integrazione costituisce il nucleo centrale della pratica tantrica: l'unione delle energie maschili e femminili, di materia e spirito, di principi attivi e passivi; l'unione di:

saggezza, o principio del discernimento (personificata da Manjushri, Buddha della saggezza) e
compassione, il principio di unificazione (personificata da Avalokitesvara, il Buddha della compassione).

Il principio degli opposti riveste una primaria importanza anche nella psicologia di Jung. Per Jung l'opposizione è qualcosa di inerente sia alla struttura della psiche sia al cosmo: il piano cosmologico si riflette in quello psicologico.

All'interno della struttura della psicologia junghiana la coppia fondamentale di opposti è rappresentata da conscio e inconscio.

Si potrebbe affermare che sul piano astrologico il primo rappresenti la “creatura”, l'individualità, e il secondo il pleroma, la non-dualità.

A livello psicologico, la importanza del principio degli opposti si rivela nell'esistenza della psiche come unità dinamica, un sistema che si regola in modo autonomo, in cui la coscienza e l'inconscio sono complementari tra loro.

Rifiutare di riconoscerli provoca parzialità, mancanza di equilibrio e quindi perdita di completezza. “Devono esserci sempre l'alto e il basso, il caldo e il freddo, e cosí via...”, sostiene Jung. Tuttavia “la questione non è convergere nell'opposto, ma preservare i valori precedenti insieme con il riconoscimento dei loro opposti”. Nulla viene rigettato e nulla viene accettato come valore assoluto.

Secondo il pensiero di Jung:
È... un errore fondamentale immaginare che quando vediamo il
non-valore in un valore o la falsità nella verità, il valore o la
verità cessino di esistere. Semplicemente sono diventati relativi.
Ogni fenomeno che riguarda l’uomo è relativo, perché ciascun
fenomeno si fonda su di una polarità interiore...
Per Jung la “unione degli opposti per mezzo del sentiero mediano” è “uno degli elementi fondamentali della esperienza interiore”. Il dissolvimento degli opposti mette fine al conflitto e crea la completezza. Ma questa non si può conquistare con la repressione o con la negazione, che è sempre unilaterale, ma unicamente elevando il nostro punto di vista ad un livello superiore di coscienza.

Questa è la premessa fondamentale del metodo psicologico di Jung.

“L'individuazione o l'ottenimento della completezza”, egli afferma, “non è né un summum bonum né un summum desideratum, bensí la dolorosa esperienza dell'integrazione degli opposti”.
Vorrei tuttavia suggerire a questo proposito che la realizzazione dell'unione degli opposti è il summum bonum perché porta con sé la libertà spirituale, vissuta in una personalità integrata e unificata.

Nel suo viaggio verso l'illuminazione Buddha abbandonò l'ascetismo perché praticandolo si rese conto che in questo modo si reprime una parte di se stessi e di conseguenza non si può ottenere la completa integrazione.

Adottò invece la Via di Mezzo, che in seguito avrebbe insegnato a tutti i propri discepoli.

La via di mezzo e il madhyamika

La via del Buddha, la Via di Mezzo, venne riformulata e strutturata in termini filosofici da Nagarjuna, mahasiddha (grande adepto) indiano del terzo secolo dell'era presente, nel sistema denominato Madhyamika (Via di Mezzo), che è considerato la filosofia centrale del Buddhismo Mahayana.

Sebbene Buddha mantenne un “nobile silenzio” in risposta alle domande di filosofia e di metafisica, Nagarjuna, brillante logico, applicò il metodo dialettico per sostenere che la verità non si può trovare in alcuna opinione o concetto, in alcun tipo di comprensione intellettuale.

La verità, l'Assoluto, è inesprimibile e si può comprendere solo superando ogni genere di dogma.

Il conflitto creato dalla ragione e dalle posizioni contrastanti si può risolvere solo realizzando una visione piú elevata, una consapevolezza della totalità che non si limita alla percezione delle parti separate.

Si va oltre, verso l'intuizione, la profonda visione interiore, che è considerata una facoltà superiore; in questo modo si ottiene la conoscenza non-duale, la conoscenza del Reale, dell'Assoluto.

Ecco come Jung considera l'intuizione:
Nell’intuizione un contenuto si presenta integro e completo, senza
che si possa spiegare o scoprire come questo pensiero sia pervenuto
all’esistenza... Per mezzo della conoscenza intuitiva si arriva a
una profonda certezza e convinzione...
Il punto cruciale della filosofia di Nagarjuna è costituito dalla regola della Via di Mezzo, che in pratica significa: “percepire le cose come esse sono, riconoscendo la possibilità di definire le cose in modo diverso a seconda dei vari punti di vista, comprendendo che queste classificazioni non hanno un valore assoluto e definitivo”.

Nella filosofia di Nagarjuna è ugualmente fondamentale la distinzione tra verità assoluta e verità convenzionale.

Il concetto di queste due verità in effetti è uno dei fondamenti dell'insegnamento di Buddha, costantemente riproposto dal Buddhismo Mahayana. 

Ma questo non implica una separazione tra temporale e trascendentale:

è piuttosto la comprensione della relatività delle cose terrene e il conseguente approfondimento di una consapevolezza interiore in cui le cose terrene e superficiali non vengono distrutte ma trasformate e quindi percepite sotto una nuova luce.

Il Madhyamika insegna che:
... realizzare l’assoluto non significa abbandonare le cose mondane
ma imparare a percepirle con “l’occhio della saggezza”... Ciò che si
deve abbandonare sono le proprie interpretazioni errate e i propri
illusori attaccamenti... Questo vale non solo per la vita di ogni
giorno, ma anche per i termini, i concetti, la comprensione e i modi
di comprensione...

Ego e non-ego

Nel sistema del Tantra ogni piacere mondano, ogni esperienza dei sensi e ogni situazione della vita possono diventare una opportunità per l'illuminazione, se si applica la saggezza. Abbiamo visto come la saggezza (prajna) implichi assenza di esclusività, non attaccamento, ovvero il principio della relatività, sunyata.

L'ostacolo piú grande è l'ego.

Secondo il pensiero buddhista, l'ego o, meglio, la concezione che noi abbiamodel nostro Io è la radice di tutti i problemi e di tutte le sofferenze. Quando i buddhisti parlano di ego si riferiscono alla credenza illusoria in una entità solida, concreta e distinta, priva di legami e indipendente da ogni altro fenomeno.

In questo senso, l'ego ovviamente diventa una barriera insuperabile tra noi stessi e il resto del mondo, che ci priva di ogni possibilità di autentica comunicazione e comunione, non solo con gli altri, anche con la parte piú profonda della nostra psiche. Questa barriera deve essere distrutta, e questo rappresenta il problema principale del sentiero della liberazione.

Lo scopo, quindi, non è l'annientamento dell'ego, ma il dissolvimento della falsa visione creata dall'ego.

Ciò che dobbiamo ottenere è una apertura verso tutte le possibilità che si manifestano, comprendendo soprattutto che siamo infinitamente molto di piú di ciò che crediamo di essere, quando ci identifichiamo con il nostro piccolo e concreto Io.

Abbiamo un potenziale infinito, se ci liberiamo dalla schiavitù del nostro mondo egocentrico: secondo i buddhisti, possiamo realmente diventare un buddha. Di fatto, secondo Jung, prima che il Sé possa emergere si deve dissolvere l'Io, colmo di distorsioni e di proiezioni.

Tuttavia il Sé, che costituisce la totalità della psiche, di fatto include l'Io.

Nel processo di individuazione l'Io non viene distrutto, al contrario lo si pone in posizione subordinata al Sé. L'Io non è piú il centro della personalità, il centro diventa il Sé, il mandala che unifica tutti gli opposti. Ciò che viene eliminato è l'Io concreto, il “pallone gonfiato” che si preoccupa esclusivamente dei propri scopi egoistici, seguendo solo i propri impulsi.

Al contrario, l'Io ben individuato, sottoposto al Sé, non solo è necessario per un adeguato funzionamento di ciò che i buddhisti definiscono “il livello ordinario della realtà”; è anche di importanza fondamentale nell'incontro con il transpersonale, per poter preservare l'integrità della psiche.

Per Jung la trasformazione è la meta della psicoterapia e la scomparsa dell'egoità costituisce l'unico criterio di cambiamento. Ma egli ritiene che spesso, per gli occidentali, “prima di poter solo pensare di abolire l'ego, è necessario innanzi tutto arrivare tramite l'analisi a una accurata comprensione, diventando ben consci di cosa esso sia”.

Tuttavia, nel significato alchemico di solutio, il dissolvimento dell'arido e solido terreno della coscienza dell'Io, ottenuto tramite il confronto e la fertilizzazione con la fluidità dell'inconscio, è una condizione necessaria affinché la trasformazione possa aver luogo.

Questo è un altro modo di considerare il sacrificio dell'Io personale in favore del Sé transpersonale, il processo infinito di morte e rinascita. L'esperienza della non-dualità, l'esperienza mistica e qualsiasi atto creativo devono passare attraverso questo processo.

L'illusione di un Io permanente e separato non significa che non esiste alcuna individualità.

La nostra essenziale unità con l'universo, secondo Lama Govinda,
... non è una uguaglianza o una imprecisata identità, è una
relazione organica, in cui differenziazione e singolarità di
funzionamento sono importanti quanto quella fondamentale e
definitiva unità. Individualità e universalità non sono valori inconciliabili, 
che si annullano reciprocamente, sono due lati della stessa realtà che si
compensano e si completano reciprocamente, unificandosi
nell’esperienza dell’illuminazione. Questa esperienza non dissolve
la mente in un tutto amorfo, bensí porta alla realizzazione che
l’individuo stesso nel profondo di sé include la totalità.

Universalità e individualità, unità e diversità, pleroma e creatura, nirvana e samsara, i “due lati della stessa realtà l'uno privo del suo contrario non potrebbe esistere.

La sofferenza e i metodi di guarigione


La meta primaria, sia del Buddhismo che della psicologia di Jung, è l'eliminazione della sofferenza. Di fatto l'intero sistema buddhista si è evoluto attorno all'idea centrale, inizialmente formulata da Buddha nelle

Quattro Nobili Verità, che tutta la vita è sofferenza, ma che è possibile porvi fine. Nel Buddhismo Mahayana l'ideale del bodhisattva, il simbolo della compassione, è la definitiva espressione del suo proposito di condurre tutti gli esseri alla liberazione alla sofferenza e cioè all'illuminazione.

Anche Jung, nella sua autobiografia e in molti suoi scritti, afferma che la sua meta è la cura della sofferenza umana. “Non professiamo una psicologia” sostiene:

... per vanità puramente accademiche, o per cercare spiegazioni che
non influenzano l’esistenza. Ciò che vogliamo è una psicologia
pratica, che dia risultati soddisfacenti -, una psicologia in cui
ciò che si afferma deve essere confermato dal successivo risultato
benefico per il paziente.
Diversamente da Buddha, tuttavia, Jung non riesce a percepire la possibilità di una fine della sofferenza.

Secondo la sua opinione, felicità e sofferenza rappresentano solo un'altra coppia di opposti, una condizione indispensabile alla vita: l'una non può esistere senza l'altra. Egli afferma:

L’uomo deve affrontare il problema della sofferenza. Gli orientali
vogliono sbarazzarsi della sofferenza ripudiandola. Gli occidentali
cercano di sopprimerla con le medicine. La sofferenza, al contrario,
si deve vincere e possiamo farlo solo sperimentandola. Questo lo
impariamo da lui [il Cristo crocifisso].

In un altro momento Jung discute la duplice possibilità della sofferenza: può essere una disciplina “necessaria per il caos delle emozioni umane, sebbene allo stesso tempo possa annientare lo spirito vitale... se la sofferenza sia educativa o solo demoralizzante resterà sempre una questione non risolta...

Il destino dell'uomo ha sempre oscillato tra il giorno e la notte. Non possiamo fare alcunché per modificarlo”.

Quindi la sofferenza può diventare qualcosa che smuove la psiche: può essere un preludio al processo di guarigione e di individuazione oppure può condurre alla patologia. I sintomi dolorosi di una nevrosi spesso sono l'espressione del forte desiderio di integrazione della psiche.

Questi sintomi contengono i semi delle potenzialità da realizzare e se li affrontiamo e lavoriamo su di loro, invece di evitarli e reprimerli, diventano fonte di nuove realizzazioni e di nuova integrazione:

“l'oscura notte dell'anima” si trasforma in illuminazione.

Questa è l'esperienza compiuta da Jung nel corso della sua vita. Al contrario, una sofferenza eccessiva e opprimente, in particolare in un individuo psichicamente debole e con un Io separato dal Sé, può condurre a situazioni diametricalmente opposte: alla follia, alla criminalità e ad altri generi di patologie.

Il sentiero che, attraverso la “selva oscura”, conduce all'illuminazione e al Sé, non è affatto facile. Richiede il sacrificio del nostro bene piú caro, il nostro Io, affinché possa emergere il Sé.

Allo stesso modo i buddhisti affermano che la radice di tutte le sofferenze è l'attaccamento all'ego per cui ci esortano ad abbandonarlo. In questo modo potrà manifestarsi la nostra vera natura, la natura di Buddha.

Ma tutto ciò può avvenire solo in modo spontaneo, senza alcuna forzatura: questo vale sia per i metodi terapeutici di Jung, sia per i metodi buddhisti.

In entrambi i sistemi il sentiero si adatta ai singoli praticanti, e viene sempre percorso individualmente, in quanto loro specifico lavoro interiore. Il processo di individuazione di Jung - il percorso verso la completa integrazione - è un compito del tutto individuale.

Jung era contrario persino alla pratica dei gruppi come metodo terapeutico.

Anche il sentiero dell'adepto buddhista è del tutto individuale, sebbene si seguano pratiche di gruppo, riconoscendo l'importanza dell'intensa energia che si genera in simili occasioni, specialmente durante la partecipazione ai rituali.

In entrambi i sistemi si tratta invariabilmente di un metodo empirico e non dogmatico,diretto alla scoperta della vibrante esperienza interiore, un modo dinamico di penetrare l'interiorità raggiungendone il centro: quello spazio dove, in ciascuno di noi, dimora il seme dell'illuminazione, il seme del Sé.

“Nessun manuale può insegnare la psicologia; la si apprende tramite l'effettiva esperienza”, afferma Jung. E in un altro passaggio scrive:

“In psicologia si possiede solo ciò di cui si è fatto esperienza nella realtà.
Quindi una semplice comprensione intellettuale non è sufficiente, perché si apprendono solo i termini e non la sostanza interiore dell'evento in questione”.

La funzione cognitiva, tuttavia, non viene sottovalutata né da Jung né dal Buddhismo. Secondo i tibetani “la comprensione intellettuale incrementa l'efficacia della mente razionale e ciò aumenta il potere della meditazione”.

Dopo aver ascoltato l'insegnamento, i discepoli devono cercare di comprenderlo con la ragione prima di poterlo applicare, trasformandolo in realtà. Inoltre, se l'insegnamento non trova riscontri nella propria vita e nella propria esperienza della realtà, non lo si deve accettare.

Non è forse la stessa cosa affermata da Jung,quando sostiene che il dissolversi dell'Io deve essere preceduto da una piena e consapevolecomprensione della situazione?

E inoltre, nella sua psicologia, non si interessa soprattutto dei risultati pratici, che devono essere verificatidall'esperienza soggettiva del paziente in terapia? Prima di poter fare qualsiasi altra cosa, è necessario comprendere in modo chiaro la Prima Nobile Verità: la natura della vita è sofferenza.

Il sentiero che conduce alla liberazione si porta a compimento per mezzo della perfezione sia intellettuale sia morale e spirituale. Nella pratica buddhista della consapevolezza si osservano con grande attenzione le attività della mente: le idee, i pensieri, le sensazioni e i sentimenti.

E in particolare nel Tantra occorre innanzi tutto riconoscere e sperimentare tutte le tendenze nascoste e le proiezioni, per poterle poi trasformare in saggezza.

Nell'analisi junghiana bisogna confrontarsi con la propria ombra, la parte oscura e rifiutata della psiche, identificando le proiezioni e gli scopi egocentrici. L'intensità del disordine emotivo non viene né repressa né sminuita, e l'energia coinvolta viene utilizzata nel processo di cambiamento.

In modo analogo, nella pratica del Tantra si utilizza l'energia di emozioni come la collera, il desiderio, l'avversione e cosí via, per trasformarne l'ardore in saggezza e compassione.
Entrambi i sistemi riconoscono appieno la potenziale distruttività delle tendenze inconsce latenti.

Per questo motivo occorre avvicinarsi alla psiche nella sua totalità, nei suoi aspetti luminosi e oscuri -rappresentati nel Tantra dalle divinità pacifiche e irate, che vengono ripetutamente create e dissolte nella visualizzazione.

Il praticante affronta di continuo il conflitto tra gli opposti, nello sforzo di trascenderli. Questo è lo scopo delle sadhane, che si fondano su di una vasta comprensione della psicologia del profondo.

Nell'analisi junghiana, la funzione trascendente è il punto di riferimento comune nel processo dialettico tra analista e paziente. Lungo il proprio processo di individuazione quest'ultimo riconcilia le parti conflittuali della propria psiche, la divisione tra l'Io conscio e l'inconscio, superando ogni coppia di opposti.

In entrambi i sistemi l'adepto, o l'analizzando, alla fine devono diventare indipendenti dal sostegno esterno. I metodi usati per lavorare alla crescita interiore sono infinitamente vari, in relazione all'individuo, al tempo e alle circostanze. Per insegnare la stessa verità a diversi tipi di persone, Buddha a seconda dei casi fece uso di un linguaggio differente, ben consapevole dell'importanza delle caratteristiche e delle esigenze individuali.

“Dato che ogni individualità... è completamente unica, imprevedibile e inspiegabile”, sottolinea Jung, “il terapetua deve abbandonare tutti i preconcetti e le tecniche...”. L'integrità della psiche altrui viene rispettata al massimo grado e non deve mai essere violata dall'imposizione delle proprie interpretazioni e idee preconcette. In questo modo si può stabilire una vera comunicazione.

Questo è il pensiero di Jung, ma è anche nello spirito della filosofia Madhyamika.

La trasformazione si verifica tramite il veicolo dei simboli. Jung si rese conto che “ogni immaginazione è una potenzialità”, e con il suo metodo dell'immaginazione attiva trovò il modo di guarire e trasformare la personalità.

In modo analogo, nella meditazione tantrica l'iniziato si immerge nei simboli visualizzati, le divinità - che sono tutte vari simboli della mente illuminata -, e a sua volta si trasforma in un buddha.

Jung riconobbe nel modello tantrico un'analogia con la sua psicologia dell'inconscio, sottolineando che il Tantra opera tramite contenuti che sono “costantemente riprodotti dal nostro inconscio, in una forma o nell'altra... Questo non è misticismo, è psicologia”.

È importante notare la potente simbologia messa in atto dai buddhisti tibetani nella loro iconografia (le tangke), nei testi sacri e nei rituali, tutti designati per esprimere l'inesprimibile ed evocare esperienze che portino l'individuo a livelli di coscienza piú elevati, al di là della realtà ordinaria.

Gli insegnamenti vengono comunicati in uno stile poetico, immaginifico e spesso ripetitivo. Anche Jung nei suoi scritti fa abbondante uso della ripetizione e dei paradossi, evitando un linguaggio e uno stile strettamente razionali.

Cosí spiega:

... nel descrivere il processo vitale della psiche, scelgo
deliberatamente e consapevolmente di usare un modo di pensare e di
parlare drammatico e mitologico, dato che non solo risulta piú
espressivo, è anche piú esatto di una astratta terminologia
scientifica...


La redenzione in Dio

L'idea della trasformazione psichica è fondamentale per il Tantra, come lo è per Jung e per l'alchimia. Nel Tantra gli adepti si identificano nelle qualità divine, e nel processo di questa identificazione diventano consapevoli della propria essenza divina.

Il buddhista, è stato affermato,
... crede nell’innato principio divino dell’essere umano,
l’intrinseca scintilla di luce (bodhi-citta) racchiusa nella propria
coscienza, come anelito verso la perfezione, la completezza e
l’illuminazione. In termini paradossali, non è Dio che ha creato
l’uomo, ma è l’uomo che crea Dio a sua immagine. L’idea dello scopo
divino dentro di sé, che viene realizzato nelle fiamme di quella
sofferenza da cui nascono compassione, amore e saggezza.
Il dispiegarsi della vita individuale nell’universo, apparentemente
ha come unico fine il diventare consapevole della propria essenza
divina; e poiché questo processo si svolge in continuazione,
rappresenta la perpetua nascita di Dio o, in termini buddhisti, il
sorgere continuo degli esseri illuminati, in ciascuno dei quali
diventa conscia la totalità dell’universo.
Troviamo qui una straordinaria corrispondenza con il pensiero di Jung che “il creatore... necessita dell'uomo per illuminare la sua creazione”, e che questo compito può essere portato a compimento solo dalla psiche individuale, il depositario della scintilla divina.

Vediamo cosa dice Jung al proposito:

Sebbene l’incarnazione divina sia un evento cosmico e assoluto, si manifesta empiricamente solo in quei relativamente pochi individui che hanno una coscienza sufficientemente sviluppata, che consente loro di prendere decisioni fondate sull’etica, scegliendo cioè il bene. Dio quindi si può definire buono solo nella misura in cui egli è capace di manifestare la sua bontà nell’individuo. La sua qualità morale dipende dagli individui. 

È per questo che egli si incarna.

L’individuazione e l’esistenza individuale sono indispensabili alla trasformazione di Dio, il creatore.

Il bodhisattva del Mahayana - che ha ottenuto gli stati di coscienza piú elevati e che, con le sue azioni e le sue attitudini, la sua saggezza e compassione, è una forza attiva che favorisce la “trasformazione di Dio” - mi pare sia, secondo i termini di Jung, la persona piú realizzata e piú completamente individuata, da cui Dio dipende per illuminare la sua creazione.

Sia Jung che i buddhisti sostengono che soltanto gli esseri umani possono svolgere questo compito nell'universo - da cui si comprende la necessità dell'esistenza umana o, come direbbero i buddhisti tibetani, della “preziosa rinascita umana”. Probabilmente questo è il vero significato dell'ideale Mahayana del bodhysattva, il cui unico ed esclusivo scopo in questo mondo è operare per il bene di tutti gli esseri.

E quando i bodhisattva insegnano a coloro che sono sul sentiero della liberazione come espandere la loro coscienza, li stanno guidando verso quelle esperienze interiori suggerite da Jung, a cui egli accennò affermando che “... quando la nostra coscienza inizia ad estendersi alla sfera dell'inconscio, possiamo presumere di entrare in contatto con le sfere di un Dio non ancora transustanziato”.

Tuttavia, la differenza tra il Buddhismo Mahayana e Jung è che secondo quest'ultimo l'inconscio non potrà mai diventare totalmente conscio e il processo di individuazione non verrà mai completato, mentre per i buddhisti è possibile diventare onniscienti e completamente illuminati.

Non dovremmo dimenticare, a questo punto, che in tutto il suo lavoro Jung prende in considerazione soltanto le esperienze psicologiche che possono essere verificate empiricamente e pertanto non affronta le categorie metafisiche.

Jung quindi afferma:

... quando Dio o il Tao vengono definiti un impulso dell’anima o uno stato psichico,
è stato asserito solo qualcosa che riguarda il conoscibile, ma nulla dell’inconoscibile, di cui non si può determinare alcunché.

Secondo il pensiero di Jung, nonostante sia compito dell'uomo ottenere il massimo livello di coscienza, ogni suo incremento comporta un peso ulteriore.

Ciò è completamente all'opposto del pensiero buddista Mahayana, in cui la coscienza è beatitudine e fonte di liberazione. L'effettivo processo del pervenire alla meta non è affatto libero da tormenti. Il discepolo piú avanzato può essere sottoposto a ogni sorta di prova e le esperienze affrontate non sono dissimili dalle tremende e sconvolgenti visioni dell'alchimista Zosimo.

Ma il risultato finale è colmo di beatitudine.

Nella meditazione tantrica la beatitudine viene sottolineata di continuo, e costituisce una esperienza che premia persino il meditatore meno esperto. L'allegria e la risata contagiosa dei lama tibetani, la loro esuberanza unita a calma e tranquillità, la loro squisita spontaneità, il loro calore e apertura mentale rispecchiano lo stato d'animo di esseri umani non gravati dai problemi e dai fardelli materiali e psicologici della vita quotidiana, né dalla paura della morte.

Questa, inevitabilmente, è l'immediata impressione di chiunque abbia avuto la fortuna e il privilegio di incontrarli. Con la loro attitudine e il loro comportamento è come se volessero comunicarci, in un linguaggio senza parole ma tuttavia chiaro e inequivocabile, che è realmente possibile trascendere la sofferenza, come ha insegnato loro il primo Maestro.

Al contrario, Jung non si prefigge di aiutare i propri pazienti a porre fine alla loro sofferenza.

Egli crede che“la vita richiede, per il suo compimento e la sua realizzazione, un equilibrio di gioia e di dolore”. E se Jung sostiene che la sofferenza è un aspetto naturale e non essenzialmente negativo della vita, e che la felicità è uno stato impossibile da ottenere, i buddhisti tibetani affermano che la sofferenza si può trasformare in felicità.

I buddhisti comunque, come Jung e gli alchimisti, sostengono che il compito principale consiste nel liberare la scintilla divina che risiede in ognuno di noi. Per i buddhisti significa trovare la divinità nascosta nell'inconscio, che è soffocata dall'ego. Per Jung è la consapevole realizzazione del Sé e la sua separazione dall'Io.

Per gli alchimisti è la redenzione dell'anima mundi imprigionata nella materia.

Il pensiero di Jung sulle tradizioni orientali

Negli scritti di Jung è possibile trovare numerosi paradossi e incongruenze, e le sue idee sulle tradizioni orientali ne sono un buon esempio. Jung a volte parla in favore delle tradizioni orientali, lodando il loro approccio alla psiche e la loro saggezza intuitiva, di cui l'Occidente è privo; altre volte avvisa gli occidentali che è pericoloso adottare un sistema estraneo alla propria cultura.

Personalmente, mi ha sorpreso la penetrante comprensione di Jung dei sistemi orientali, inclusa la tradizione tibetana (nonostante alcune sue interpretazioni siano errate), dato che non ebbe l'opportunità di stabilire un contatto diretto, né di fare esperienza delle loro pratiche meditative.

E oggi allo stesso modo mi sorprende l'acuta comprensione e la sensibilità che alcuni lama tibetani dimostrano verso l'Occidente e il suo stile di vita.

Ho spesso riflettuto su questi fatti, e penso che in entrambi i casi ciò sia dovuto alla saggezza intuitiva di una mente chiara e priva di pregiudizi, che è in grado di trascendere le barriere storiche e culturali, per giungere a valide conclusioni.

Jung vede ampie differenze tra la visione orientale e quella occidentale, e solleva la questione se sia possibile e opportuno arrivare a una reciproca imitazione. Inoltre afferma che nella psiche umana l'inconscio collettivo “possiede un substrato che trascende ogni differenza di cultura e di coscienza”.

Questa psiche inconscia, per il fatto di essere comune a tutti gli esseri umani, contiene “predisposizioni latenti che conducono verso identiche reazioni”.

In effetti Jung è consapevole dello stretto parallelismo tra psicologia occidentale e orientale. La sua preoccupazione, tuttavia, è che gli occidentali adottino i valori orientali con il loro abituale atteggiamento estroverso, facendone dei dogmi, invece di ricercare quei valori dentro di sé, nella propria psiche.

Jung trova che il nucleo centrale degli insegnamenti orientali consiste nella mente che indaga la propria interiorità, fatto che di per sé possiede un valore liberatorio ed è molto critico verso quegli occidentali che semplicemente cercano di imitare, con uno sforzo che rimane superficiale e a volte inutile, o, ancor peggio, persino dannoso per la loro psiche.

Jung osserva:

Non si è mai sufficientemente cauti in questo campo, visto che troppe persone, spinte dal desiderio di imitare e con una malsana brama di possedere caratteristiche inconsuete, ornandosi di “piumaggi esotici”, ne vengono sviate, e si impadroniscono di simili idee “magiche”, applicandole esteriormente come un unguento.

La gente farebbe qualsiasi cosa, non importa quanto assurda, pur di evitare di confrontarsi con la propria anima.

Jung sostiene che il problema fondamentale, sia nel mondo orientale che in quello occidentale, “non è tanto abbandonare gli oggetti del desiderio, quanto tenere un atteggiamento piú distaccato verso il desiderio in quanto tale, non importa quale sia il suo oggetto”.

A questo riguardo Jung ha pienamente compreso uno dei principali postulati del Tantra:

non è il desiderio in quanto tale, ma è la mancanza di controllo, la possessività e l'attaccamento al desiderio che portano a uno stato mentale confuso e alla conseguente sofferenza.

Da qui la necessità di comprendere che tutti i fenomeni sono impermanenti e vuoti. Jung non riesce a concepire che si possa arrivare a una completa non-dualità, a uno stato di totale unità.

“Non è possibile conoscere qualcosa che non sia distinto da noi stessi... quindi presumo che su questo punto l'intuizione orientale si sia spinta troppo in là”. Facendo queste asserzioni Jung sembra dimenticare che anche i suoi concetti spesso sonoirrazionali e paradossali, e che la non-dualità a un livello transpersonale non esclude l'individualità a un livello convenzionale di esistenza. Le esperienze di non-dualità inoltre si sono verificate anche nella tradizione occidentale.

Mi riferisco qui alle discipline e agli esercizi contemplativi della vita monastica medioevale, in cui l'individuo per un istante si sentiva una cosa sola con Dio; o piuttosto diventava Dio, come il meditatore tantrico diventa la divinità che sta visualizzando.

In molti aspetti Jung si avvicina piú ai sistemi orientali che alle tradizioni occidentali, nonostante sostenga che gli occidentali dovrebbero seguire le proprie tradizioni, i propri simboli e la propria mitologia. Come i buddhisti,

Jung rifiuta ogni dogma e, come negli insegnamenti buddhisti, nella sua psicologia solo l'esperienza soggettiva e interiore può legittimare la teoria. Jung stesso fece delle profonde esperienze interiori e proprio dal profondo della sua anima ottenne una immediata conoscenza diretta, che poi tradusse nella sua opera.

In questo senso egli stava seguendo la tradizione gnostica, che lo aveva ispirato e influenzato prima di essere attratto dalle tradizioni orientali. Secondo alcuni studiosi, sebbene non vi siano prove conclusive, le tradizioni induiste e buddhiste avrebbero influenzato lo gnosticismo.

Potrebbe anche darsi che la mente umana abbia prodotto idee simili o eguali, in due diverse parti del mondo, e ciò confermerebbe l'idea di Jung di una comune struttura psichica che trascende le differenze culturali.

Quale che sia la sua origine, nello gnosticismo possiamo trovare somiglianze molto marcate con il Buddhismo, e confrontando questi due sistemi troviamo molte analogie.

Alcune delle piú rilevanti comprendono l'idea di una liberazione dell'uomo tramite la trasformazione interiore; di una psiche che racchiude in sé il potenziale della liberazione; di un'enfasi sul primato dell'esperienza diretta; e della necessità di una guida iniziale - ma di un successivo affrancamento da ogni autorità esterna.

Inoltre entrambi i sistemi sottolineano l'importanza della mente stessa del discepolo come guida, in quanto è proprio nella mente il luogo in cui egli deve scoprire la verità.

Una ulteriore analogia consiste nel ritenere che la fonte della sofferenza e della schiavitú non è tanto il peccato, quanto l'ignoranza, la mancanza di conoscenza di sé: chiunque rimanga nell'ignoranza vive di illusioni e non potrà in alcun modo trovare la soddisfazione.

La scoperta del divino dentro di sé naturalmente è un punto centrale per entrambi i sistemi: colui che ottiene la gnosis non è piú cristiano, diventa Cristo stesso.

Ecco un passo del vangelo gnostico di Filippo, notevolmente simile alla concezione fondamentale del Tantra:

... Hai visto lo spirito, sei diventato lo spirito. Ha visto Cristo, sei diventato Cristo. Hai visto (il Padre, tu) diventerai il Padre... vedi te stesso, e ciò che vedi diventerai.

E ora un altro passaggio, che implica che il regno di Dio non è altro che il simbolo di una trasformazione di uno stato di coscienza:

Gesú ha detto... “Quando farete di due uno, quando farete in modo che il dentro sia come il fuori e il fuori sia come il dentro, il sopra come il sotto, e quando farete del maschio e della femmina una stessa e identica cosa... allora entrerete nel Regno”.

Appare ovvio che i simboli buddhisti e gnostico-cristiani esprimono la stessa esperienza interiore e che, quale dei due scelga il discepolo, l'essenziale ricerca di significato e di trascendenza spazio-temporale è la stessa.

Per cui quando sondò le profondità della propria psiche, ottenendo cosí l'accesso a una conoscenza diretta, che scaturiva dalla medesima esperienza trasformativa, Jung stesso divenne un anello della catena delle antiche tradizioni mistiche buddhiste e cristiane.

In altre parole, nel profondo dell'inconscio collettivo - o sulla vetta della coscienza piú elevata - Jung entrò in contatto con la coscienza del mistico medioevale, Meister Eckhart, e con quella di un maestro tantrico.

I termini che esprimono quella ineffabile esperienza, l'unione con la mente suprema o con Dio - che in ogni caso è al di là delle parole - e gli strumenti usati nel processo possono variare, ma non muta il nucleo stesso dell'esperienza: al cuore di essa, per un breve istante si annulla il divario tra le varie tradizioni. Ed è precisamente questa l'area in cui è possibile trovare somiglianze tra il sistema junghiano e quello tantrico.

I metodi e le tecniche sviluppati da Jung nel contesto della tradizione occidentale e delle sue immagini mitologiche, in accordo alle condizioni socio-culturali dell'Europa contemporanea e dell'America, rivestono una importanza minore, perché riflettono semplicemente la necessità di rimanere radicati nella propria cultura. Un fatto di cui Jung si rese conto e che anche i buddhisti tibetani approverebbero.

E ogni buddhista soprattutto concorderebbe con l'affermazione di Jung, secondo cui “dobbiamo scoprire i valori dell'Oriente dentro di noi, non al di fuori, ricercandoli in noi stessi...”.

I pericoli

Jung e i buddhisti sono entrambi consapevoli dei potenziali rischi della pratica dei rispettivi sistemi. Jung ci mette ripetutamente in guardia sui possibili effetti pericolosi del liberare contenuti inconsci, senza munirsi di adeguate protezioni e senza alcune precauzioni, perché potrebbero invadere la coscienza e provocarne il collasso, con serie conseguenze, provocando persino la psicosi.

Egli paragona il potenziale potere esplosivo degli archetipi a quello derivante dalla scissione molecolare dell'atomo, ed afferma:

Gli archetipi hanno questa caratteristica in comune con il mondo dell’atomo, e cioè... quanto piú profondamente l’osservatore si inoltra nell’universo della microfisica, piú devastanti sono le forze esplosive che egli scopre racchiuse in esso.

Per questa ragione, come già affermato in precedenza, prima di confrontarsi con l'inconscio è molto importante avere una struttura psichica solida e ben sviluppata, cosí da poter conservare l'equilibrio mentale.

I maestri tantrici danno avvertimenti molto simili, perché i metodi che essi insegnano sono profondi ed estremamente potenti, e quindi sono pericolosi da praticare senza adeguate preparazioni. Per questo motivo il discepolo viene introdotto gradualmente nella pratica, con la guida di un maestro qualificato. I lama inoltre sottolineano sempre l'importanza di restare sempre con “i piedi per terra”, ancorati alla effettiva realtà della propria esperienza.

Jung concorderebbe pienamente con queste affermazioni, perché sapeva molto bene quanto per lui fosse stato difficile, trovandosi nel culmine del suo confronto con il proprio inconscio, affrontare gli impegni lavorativi di ogni giorno, restando vicino alla propria famiglia e svolgendo tutti gli altri suoi compiti. I buddhisti tibetani consigliano vivamente agli occidentali di non abbandonare i valori della propria cultura.

In effetti, una giusta comprensione della propria cultura e solide radici in essa sono prerequisiti necessari per avventurarsi nelle pratiche di una tradizione “estranea”, se vogliamo trarne qualche vantaggio. Comunque, vi è sempre il pericolo di comprendere solo il significato letterale dei simboli e dei rituali, e non quello interiore, finendo per perdere la giusta direzione della propria pratica.

Le immagini del Tantra visualizzate nella meditazione rappresentano degli archetipi, quindi nella pratica è necessaria una particolare cautela.

Dato che ogni archetipo ha un duplice aspetto, di luce e di ombra, il potere del suo lato oscuro, quando emerge improvvisamente dalle profondità dell'inconscio, può provocare fantasie illusorie e anche perdita di contatto con la realtà.

Ad esempio, l'archetipo della Grande Madre contiene aspetti paradossali; un aspetto creativo e nutriente e allo stesso tempo un aspetto distruttivo e divorante. Un individuo fragile, dalla coscienza non ben sviluppata, può restare disorientato dall'emergere di un archetipo nel suo aspetto terrificante.

Le questioni etiche

Atisha, un saggio indiano dell'undicesimo secolo, fautore del rifiorire del Buddhismo in Tibet, ha affermato:

“Quando il contenitore e i suoi contenuti sono colmi di negatività, trasforma queste circostanze avverse nel sentiero del completo risveglio”.

Questa esortazione potrebbe adattarsi pienamente alle persone del ventunesimo secolo.

I tantrika tibetani oggi riconoscono che vivere in un'epoca di degenerazione, quando l'ambiente (il contenitore) e i suoi abitanti (il contenuto) sono afflitti da enormi e pericolosi problemi, è proprio una occasione propizia per utilizzare la situazione come incoraggiamento a coltivare la propria mente, cambiando il proprio punto di vista, o, come dicono i tantrika, trasformando le circostanze avverse nel sentiero della liberazione.

Jung, da parte sua, era estremamente preoccupato per il destino della nostra civiltà e per il pericolo che l'umanità potesse distruggere se stessa, in quest'epoca di confusione.

Tuttavia rilevava che:

Stiamo vivendo quello che gli antichi greci chiamavano kairos - il momento giusto per una “metamorfosi degli dei”... La posta in gioco è cosí grande e cosí tanto dipende dalla costituzione psicologica dell’uomo moderno.

Secondo Jung, e questa è la stessa idea proposta dai buddhisti tibetani, il cambiamento deve iniziare dagli individui, nella loro psiche, essendo questa il loro strumento migliore.

Per Jung ciò implica la conoscenza di sé, la conoscenza del lato oscuro della psiche, nei suoi aspetti consci e inconsci, e la successiva integrazione delle polarità.

Senza una simile conoscenza, i contenuti inconsci generano proiezioni e illusioni che falsano i nostri rapporti con gli altri, ed è proprio qui che iniziano i conflitti e le guerre, dalla famiglia alla società e al mondo intero. Jung sostiene che “la giusta azione nasce il giusto pensiero e... non esiste alcuna cura o miglioramento del mondo che non inizi dall'individuo stesso”.

La giusta azione e il giusto pensiero non sono forse ciò che Buddha aveva insegnato 2500 anni fa?

Piú diventeremo consapevoli delle nostre pulsioni inconsce, sapendo comportarci di conseguenza, meno le nostre relazioni con il mondo saranno contaminate dalle proiezioni e piú saremo aperti alla comunicazione e persino alla comunione con l'ambiente circostante.

Jung parla della necessità sociale dei vincoli affettivi, del principio della caritas, l'amore cristiano per il prossimo, ammonendoci che “dove finisce l'amore iniziano ilpotere, la violenza e il terrore”.

La compassione è un elemento fondamentale della filosofia e della psicologia buddhiste e nel Buddhismo tibetano è inseparabile dalla saggezza, lo stato illuminato della mente.

Oggi il Dalai Lama, che è considerato l'incarnazione di Avalokitesvara, il Buddha della compassione, insegna e comunica al mondo occidentale, ovunque vada, l'ideale della compassione come mezzo per ottenere l'armonia sulla terra, e come principio di responsabilità universale.

In Occidente il concetto buddhista di vacuità (sunyata) talvolta viene frainteso, come se esso comportasse un annullamento dei principi etici. Jung sospettava che il tentativo degli occidentali di praticare il distacco come metodo di liberazione - appreso per mezzo delle pratiche dello yoga - fosse unicamente un modo per liberarsi delle proprie responsabilità morali.

Il Buddhismo è uno dei sistemi di etica e di psicologia piú ampiamente sviluppati e le questioni etiche e la responsabilità individuale sono sempre e invariabilmente parte integrante della sua filosofia e della sua pratica. Questa regola viene applicata in tutte le scuole buddhiste e naturalmente anche nel Buddhismo tantrico.

Anche Jung, psicologo e medico, nella sua opera multidimensionale e per tutta la vita ha costantemente ricordato all'uomo, al mondo unico depositario di coscienza di sé, la responsabilità e il dovere etico di trasformare se stesso o, per meglio dire, di trasformare Dio.

MOACANIN RADMILA - Il Buddhismo tantrico e Jung: connessioni, analogie, differenze (a cura di Benedetto Brugia) -