venerdì 31 marzo 2023

Le sette fasi dell'Alchimia



Le sette fasi dell'alchimia (al-kīmiyya (الكيمياء o الخيمياء)


L'alchimista supporta l'obiettivo di raggiungere l'illuminazione in sette processi distinti.

Come inizia il grande lavoro, osserviamo una notevole mutazione sugli elementi del loro stato originale. Sebbene l'evoluzione sia ben oltre la metallurgia terrena. La metafora dietro la materia alterata e l'influenza planetaria, colpisce sia lo spirito, la psiche e il corpo. Per molti autori, seguire i passi come scienziato può portarci a frustrazione e delusione. 

Questa idea sottolinea il fatto che il viaggio potrebbe essere puramente spirituale.





Calcinazione

Il processo di calcinazione è la fase iniziale dell'alchimia. Calcinare qualcosa è bruciarlo fino a quando non è ridotto alle ceneri.

Questa è la falsa identità o l'ego avvelenante che combatte disperatamente per la sua sopravvivenza.     È fondamentale rimuoverlo dal nostro io interno. In questo modo entreremo in un nuovo livello di spiritualità.

Essere liberi dalle impurità di un orgoglio gonfiato, lascia che un nuovo sé sia purificato, per raggiungere la maturità dell'anima.





Dissoluzione

Questo tipo di operazione richiede un ciclo di meditazione, che è cruciale per una diluizione riuscita delle parti in una condizione fluida.

"La conseguenza della vera meditazione è una percezione accurata che tutte le cose dentro di noi e nella creazione siano fondamentalmente della stessa sostanza primordiale."

L'operazione si verifica all'interno dell'apertura dei nostri canali energetici, ricaricando ogni singola cella.





Separazione

Questa fase è definita dalla divisione dei pensieri e delle emozioni acquisita dalla dissoluzione. La separazione degli elementi ci consente di osservarli più chiaramente. La loro vera natura e forma ci sono finalmente esposti. 

Tale manifestazione dissipa la nebbia di ignoranza e ostinazione. La porta dell'auto-miglioramento lascia entrare la luce dell'alba.

Questo processo ci consapevole dei nostri sentimenti autentici. La violenza della realtà potrebbe trovarci alla sprovvista, ma questo potrebbe essere l'unico vero modo per andare avanti. All'inizio la luce potrebbe ferire i nostri occhi, ma presto rivelerà i nostri percorsi.






Congiunzione

Gli elementi separati richiedono una nuova combinazione per trovare l'equilibrio. I principi maschili e femminili sono significativi per ogni essere umano e la sua lucidità fisica e spirituale.

La congiunzione fornisce un letto per il matrimonio reale tra il sole (il maschio) e la luna (la femmina) che è il miglioramento e l'evoluzione del sé spirituale nella sua ricerca di perfezione.




Fermentazione

Lo stadio della fermentazione è anche una metafora per la gravidanza e la fecondazione. Come un'ispirazione dall'alto che rianima e illumina l'anima.

Questo è un processo in due parti. In primo luogo la "putrefazione" prende il padre e la madre. La materia è autorizzata a scomposizione e decomporre. Muoiono in modo che il bambino possa nascere,   i loro corpi saranno il fertilizzante per il seme. 

Mentre sperimentiamo questa fase, la nostra coscienza affronta il lato oscuro.

Nella seconda parte nasce il bambino congiunta. Le forze dello Spirito vengono fuse con la questione sottostante.





 
Distillazione

La distillazione è il processo di ebollizione degli elisir per aumentare la purezza.

“Nella distillazione molte cose amare, acute e acide diventano molto dolci, come miele, zucchero o manna; E, d'altra parte, molte cose dolci, come miele, zucchero o manna (...) ”Paracelso

L'impulso finale prima dell'Illuminismo si verifica in questa fase. Non sono rimaste impurità, l'ambiente per un'apoteosi spirituale viene raggiunto.






Coagulazione

Si trova la sostanza perfetta. Nel modo più fisico, osserviamo uno stato fluido che cambia in una massa ispessita. Questo processo è una metafora per il sé elevato.

La maturità è finalmente raggiunta e il corpo, lo spirito e l'anima trovano il perfetto equilibrio tra loro. 

Diventeremo veramente liberi dalla mente e la nostra coscienza è in grado di collegare lo spirito e l'anima in perfetta armonia. Guardiamo la rinascita di un bellissimo nuovo essere.














venerdì 24 marzo 2023

Vipassana : Attenzione Nuda

 

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Attenzione Nuda

Il termine Mindfulness è la traduzione in inglese della parola, "Sati” in lingua Pali, che significa "attenzione consapevole” o "attenzione nuda”.

L’idiogramma cinese per "mindfulness” è "nian” (念) che è la combinazione di due caratteri diversi, ognuno dei quali ha il suo significato. La parte superiore dell’idiogramma significa "adesso”, mentre la parte inferiore significa "cuore” o "mente”. Letteralmente l’idiogramma completo indica l’atto di vivere il momento presente con il cuore.

Si tratta cioè di dirigere volontariamente la propria attenzione a quello che accade nel proprio corpo e intorno a sé, momento per momento, ascoltando più accuratamente la propria esperienza, e osservandola per quello che è, senza valutarla o criticarla.

La pratica di questo particolare "atteggiamento della mente”, che possiamo definire anche "consapevolezza”, deriva dal buddismo theravada, una delle due maggiori correnti del pensiero buddista, diffusa da 2500 anni in Asia meridionale e sudorientale, in particolare in Birmania, Cambogia, Laos, Sri Lanka e Tailandia, sia nell’ambiente monastico che laico.

L’utilizzo, da parte della medicina occidentale, di Mindfulness per la promozione della salute è invece un’acquisizione relativamente recente, iniziata negli anni ’70 negli Stati Uniti (protocolli Mindfulness based stress reduction).

Benchè l’origine della pratica mindfulness derivi dal pensiero buddista, non è necessario abbracciare la religione buddista per praticare lo sviluppo della consapevolezza. Essa è infatti una forma di meditazione non concettuale universalmente accessibile e non dipende da alcun sistema di credenze, né da alcuna ideologia.


Mindfulness per persone indaffarate 

Il significato di mindfulness viene da un passato molto lontano. Affonda le sue radici nella tradizione buddista. 

Per qualche migliaio di anni la cultura e la religione buddista hanno esplorato le potenzialità della meditazione, coltivando l’attitudine alla consapevolezza e alla piena accettazione della realtà per quella che è. 

Con l’idea che solo una conoscenza lucida e chiara della realtà presente possa essere la base su cui costruire un cambiamento, un miglioramento.

Essere mindful è il contrario dell'essere distratti, assenti, del vagare con la mente

Probabilmente a qualcuno evoca di essere seduto in terra con le gambe incrociate, gli occhi socchiusi.

Si chiama pratica formale: mi metto con la precisa intenzione di dedicare una certa quantità di tempo alla meditazione e non faccio niente altro che non sia cercare di esercitare l'attenzione e la consapevolezza, spesso attraverso l'ascolto del respiro.

Ma possiamo anche coltivare la presenza mentale, attenzione e consapevolezza in qualsiasi altro momento della giornata, senza bisogno di sospendere le nostre attività quotidiane.
Tuttavia il cervello non è capace di dedicare attenzione a più attività nello stesso momento. Quando abbiamo la sensazione di fare diverse cose assieme in verità non facciamo altro che spostare la nostra attenzione della mente da una attività all'altra molto velocemente.

Il lavoro d'ufficio spesso è fatto così: apri un file, scrivi tre righe, poi arriva una telefonata e per risolvere la cosa devi andare a cercare dei documenti. Chiusa la telefonata guardi le e-mail e finalmente è arrivata una risposta che ti serve per un lavoro che avevi lasciato in sospeso. 

Anzi è l'esatto contrario: si tratta di focalizzare l'attenzione e costruire piccole isole di quiete e concentrazione nel corso della giornata, mentre siamo impegnati in attività del quotidiano. 

Sotto la doccia

Presenza mentale sotto il getto d'acqua bollente mentre il box doccia si riempie di vapore. Hai l'occasione per un momento di intimità con te stesso. Ma la tua mente nel frattempo cosa fa?

Continua a vagare. Non che ci sia qualcosa di male in questo. Anzi, a volte, lasciando vagare la mente in un momento di relax può succedere di avere all'improvviso idee interessanti e di trovare soluzioni originali a qualche problema.

Spesso però non siamo affatto rilassati, e la nostra mente più che vagare liberamente si mette a rimuginare. Ripensi a un problema di lavoro, o a quel collega insopportabile e ruffiano. Oppure pensi con preoccupazione alle troppe cose che devi fare: portare il cane dal veterinario, chiamare l'idraulico, ritirare i vestiti in lavanderia.

Insomma: sei completamente nudo, nel tuo bagno, ed è come se avessi spalancato la porta e avessi invitato tutti a entrare: il cane, il veterinario, l'idraulico e pure il collega antipatico. Sono tutti lì con te mentre fai la doccia.

Concentrati sul corpo e sulle sensazioni. Senti il getto sulla testa e sulle spalle. L'acqua e i vapore (se stai facendo una doccia calda) che ti avvolgono. Ascolta che rumore fa l’acqua che esce dal soffione, rimbalza sul tuo corpo e poi finisce sul piatto della doccia e di lì nello scarico. Metti un po' di sapone sul palmo della mano e assaporane il profumo e la consistenza, prima di passarlo sulla pelle massaggiandone con cura ogni centimetro.

Fare la doccia in questo modo non vuol dire metterci più tempo. Se hai fretta non è necessario indugiare. Ci puoi mettere esattamente lo stesso tempo che impieghi normalmente. Solo che invece di stare dietro alle trasmissioni confuse di radio mente ti concentri su quello che stai effettivamente facendo.

Aspettare qualcosa o qualcuno

Non c'è nulla di più snervante delle attese. Aspettare che arrivi il bus o la metro. Peggio ancora fare la fila dal dottore o alla posta. O restare incastrati nel traffico.

Le nostre giornate sono sempre piene. Abbiamo mille cose da fare, impegni da rispettare. Non ci piace essere costretti all'inattività perché un autobus è in ritardo o perché altre 20 persone prima di noi hanno deciso che era il giorno giusto per andare alle poste.

Sbuffiamo, diventiamo insofferenti, ed è facile che si inneschino nel nostro organismo le tipiche reazioni allo stress: la pressione del sangue che sale un po’, una leggera accelerazione del battito cardiaco, il respiro che diventa più affrettato e superficiale.

È possibile invertire questo picco di stress approfittando della pausa forzata per fare un po' di meditazione.Non c'è bisogno di sedersi per terra, di chiudere gli occhi né di fare altro che possa farci sentire a disagio in un luogo pubblico.

Basta rivolgere con dolcezza l'attenzione al respiro, senza forzarlo, cercando di allenare la consapevolezza. Cosa stiamo provando? Come reagisce il nostro corpo all'imprevisto? Come si manifesta l'irrequietezza nel corpo e nei pensieri?

Invece di innervosirci, proviamo a rivolgere a noi stessi una calda attenzione ascoltandoci respirare, ritrovando il nostro centro, o semplicemente imparando a stare con quel che c'èin quel momento.

Possono bastare pochi minuti per ritrovare la calma. E allora diventa piacevole approfittare di quella pausa forzata per osservare il mondo attorno a noi: l'ambiente, le persone, i loro discorsi. O se sei all'aperto: com'è il cielo in questo momento? Cosa sento sul viso? Il tepore dei raggi del sole? Il fresco del vento? L'umido della pioggia? 

Preparare il tè


Se hai deciso che è venuto il momento di fare un buon tè, probabilmente è perché ritieni che sia il momento di una pausa.

Spesso però tendiamo a riempire queste pause di ogni cosa. Metti su il bollitore e approfitti dell'attesa per telefonare alla mamma. Lasci il tè in infusione e intanto controlli le notifiche sullo smartphone. E poi accendi la tv, o la radio, o fai partire un video sul tablet, mentre sorseggi il tè.

Ma fatta così, che pausa è? E se il tempo era quello che mi ero concesso per una pausa rigenerante la cosa è alquanto seccante. Il mio quarto d'ora di relax se n'è volato e non mi sono quasi accorta del sapore del mio tè.

Anche senza bisogno di impegnarsi in complicate cerimonie del tè, con qualche semplice istruzione possiamo approfittare della nostra pausa per fare esercizio di consapevolezza.

Prepara il tè come fai di solito, ma impegnati a fare tutto con lentezza. Bandisci la fretta, rallenta i tuoi movimenti abituali e osservali.

Riempi il bollitore, mettilo sul fuoco e attendi ascoltando con attenzione come cambia il rumore dell'acqua mano a mano che la temperatura si alza, fino all'ebollizione.

Prepara l'infuso - con le foglie o con le classiche bustine - e osserva cosa succede. Guarda l'acqua che cambia colore. Respira a fondo l'aroma del tè che comincia a diffondersi.

Versa il tè nella tazza. Poi prendila con tutte e due le mani, sentendo la consistenza liscia della ceramica e il calore che emana. Cerca di essere consapevole del peso della tazza mentre la sollevi per portarla alle labbra. Poi il sapore e il calore del primo sorso di tè in bocca e nella lingua. Deglutisci, consapevole del percorso della bevanda calda nella gola e poi nell'esofago fino allo stomaco.

Resta gentile con te stesso quando ti accorgerai di non riuscire a fare tutto questo in piena concentrazione. Prova a essere consapevole dei pensieri distraenti formulati dalla tua mente. Osservali per un istante e poi lasciali andare per tornare a rivolgere piena attenzione all'esperienza diretta di questo momento: bere il tè. 

Piccoli lavori o karmayoga


Quei piccoli e grandi compiti di cui dobbiamo per forza occuparci per mantenere pulito e in ordine l'ambiente in cui viviamo.

Questo è definito Karmayoga: lo Yoga dll'Azione.

Alcuni di questi compiti li facciamo senza particolare sforzo, mentre altri risultano particolarmente odiosi. Non siamo tutti uguali in questo. C'è chi pulisce volentieri il bagno ma odia stirare. Chi ogni mattina ricompone il letto senza nemmeno pensarci ma poi non sopporta sciacquare i piatti e metterli nella lavastoviglie.

Quando siamo alle prese con i compiti che consideriamo noiosi è cercare di farli alla svelta e pensando ad altro, in modo da sfuggire dalla noia e dalla frustrazione.

Per una volta proviamo a fare tutto il contrario. Prendi la faccenda domestica per te più antipatica, quella che fai meno volentieri, e prova a farla in modo consapevole come lavare i piatti.

Riempi con calma il lavello di acqua calda e osserva come si forma la schiuma del detersivo. Immergi le mani e nota la sensazione di calore e la leggera pressione dell'acqua sui guanti di gomma. Prendi la spugna e osserva i movimenti del tuo braccio mentre la passi sulle stoviglie. A volte basterà un tocco leggero, altre volte dovrai fare pressione per strofinare più a fondo.

Quando senti sopraggiungere la noia o la frustrazione, prendine nota mentalmente e prova a lasciarla andare tornando a concentrarti nel compito che stai svolgendo.

Fai lo stesso con i pensieri. Osserva, senza giudicare, la tendenza della tua mente a vagare e riporta la tua attenzione a quel che stai facendo.

Praticamente ogni momento (o quasi) può diventare occasione per allenare la capacità di essere pienamente presenti qui e ora. Basta applicare al compito che stiamo svolgendo questi quattro principi:

Presta attenzione momento per momento a quello che stai sperimentando. Ascolta in particolare le sensazioni del corpo. Riconosci l'attività della tua mente e cerca di non restare incastrato in pensieri che riguardano il passato o il futuro.

Lascia andare le distrazioni e riporta con gentilezza l'attenzione al momento presente.

Osserva questa tua esperienza cercando di non giudicarla. Registra quello che provi cercando di non catalogare tutto come buono o cattivo, piacevole o spiacevole.

Questa pratica può funzionare in diverse situazioni: quando esci per portare fuori il cane, guidando la macchina, mentre ascolti una persona che ti parla, camminando, facendo sport, preparando la cena.

Certo non può sostituire la pratica di meditazione formale. L'ideale è fare entrambe le cose per portare sempre più consapevolezza e attenzione al qui e ora.

Però, se proprio a stare seduto ad ascoltare il tuo respiro non ci riesci, non trovi il tempo, non ne hai voglia, ti viene sonno... puoi sempre ripiegare su queste semplici pratiche di mindfulness.

Forse scopri che ti piace e ti verrà spontaneo approfondire i concetti e la pratica.

venerdì 10 marzo 2023

H. Maturana - La Natura del Tempo


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H. Maturana - La Natura del Tempo 

Il testo originale The nature of Time è consultabile sul sito dell'Istituto Cileno di Terapia Cognitiva 

Non intendo occuparmi di tutti i domini in cui entra il termine "tempo" in quanto riferito ad un aspetto ovvio del mondo o dei mondi che noi sperimentiamo. In verità, il semplice fatto che il tempo possa essere trasformato in un problema di riflessione ci dimostra che ciò che il termine "tempo" connota, muta con le circostanze in cui viene usato.

Questa sola circostanza, comunque, non costituirebbe un problema tale da spingerci ad approfondire ancora di più la riflessione, se solo accettassimo che il contesto definisse caso per caso il significato della parola.

Questo però non lo facciamo, bensì ci domandiamo "che cosa è il tempo?" pensando che il tempo sia rapportato a qualche entità autonoma o a una dimensione della natura che potrebbe essere svelata e descritta in modo appropriato se cercassimo abbastanza intensamente, pur non sapendo nulla della sua estrema essenza.

In ogni caso, considero adeguata la domanda "cosa è il tempo?" perché essa implica dall'inizio la visione che il tempo possa essere propriamente considerato come una particolare entità o dimensione della natura. Ma considero tale approccio del tutto inadeguato perché penso che tutto ciò di cui noi esseri umani possiamo parlare siano solo relazioni che sorgono nel nostro operare nel linguaggio come un dominio chiuso di ricorrenti coordinazioni consensuali del comportamento.

Lasciate che spieghi in poche parole quello che io intendo per vita, linguaggio e cognizione, e poi risponderò alla questione su quali distinzioni operiamo o connotiamo quando parliamo di tempo.

La vita

La vita, nel momento in cui ha luogo, ha luogo nell'ora. Vivere è una dinamica che svanisce appena prende corpo. La vita non si colloca in nessun tempo ed è senza passato e futuro.

Passato, presente e futuro sono concetti che noi esseri umani, noi osservatori, inventiamo quando spieghiamo il nostro accadere nell'ora.

Noi inventiamo il passato come una sorgente dell'istante o del presente, e inventiamo il futuro come una dimensione che nasce come estrapolazione degli aspetti del nostro vivere ora, nel presente.

Come passato, presente e futuro sono inventati per spiegare il nostro vivere adesso, il tempo è immaginato come lo sfondo nel quale hanno luogo passato, presente e futuro.

Ma la vita, vivere, ha luogo nell'istante come flusso di processi cangianti.

Dire questo, è ovviamente una modalità per spiegare l'esperienza di essere ora, in cui in cui ci troviamo quando cerchiamo la spiegazione della nostra vita, del tempo ecc.

Il linguaggio

Ho sostenuto (e credo dimostrato) in altre pubblicazioni che il linguaggio è una modalità di fluire del vivere insieme in ricorrenti coordinazioni consensuali del comportamento e che il languaging consiste nell'operare in una rete di coordinazioni consensuali di coordinazioni consensuali del comportamento, in una dinamica relazionale di coordinazioni consensuali del comportamento costitutivamente aperte a ricorrenze infinite.

Oltre a ciò, noi siamo, come sistemi viventi, sistemi a struttura determinata e nessuna cosa esterna a noi può determinare o specificare ciò che accade dentro di noi. Così gli agenti esterni, che in ogni momento ci colpiscono possono solamente far scattare in noi cambiamenti strutturali determinati internamente dalla nostra struttura in quel momento.

Come risultato, tutto ciò che noi facciamo in ogni istante sorge in noi determinato in quell'istante dalla nostra struttura interna, o come risultato della nostra interna dinamica strutturale, oppure come risultato della modulazione di quella dinamica strutturale interna dovuta al cambiamento strutturale che scatta in noi per via della interazione alla quale partecipiamo.

In queste condizioni, dovremo dire che noi siamo costitutivamente "ciechi" alle intrinseche caratteristiche del medium come realtà indipendente - sempre che abbia senso parlare di caratteristiche intrinseche di una realtà indipendente.

Questa situazione comporta le seguenti conseguenze, fondamentali per capire quello che facciamo e che cosa avviene in noi come esseri del languaging:

a) Il languaging, come modalità di fluire in coordinazioni consensuali comportamentali ricorrenti, è un modo di vivere all'interno di coordinazioni pratiche, non una modalità di simbolizzare le caratteristiche di una realtà indipendente.

Il languaging, cioè, è un modalità di vivere facendo cose assieme all'interno del particolare dominio di azioni consensuali, dove il languaging ha luogo nel flusso delle interazioni tra i partecipanti.

Noi esseri umani esistiamo nel linguaggio e quando parliamo non possiamo dire niente che sia fuori dal linguaggio.

b) La modalità con cui partecipiamo al flusso del languaging in ogni istante nasce come risultato delle nostre interazioni in quell' istante in armonia con la nostra struttura in quell' istante.

Così, quello che noi facciamo nel linguaggio in ogni momento è determinato dalla nostra struttura in quel momento a prescindere da come noi siamo pervenuti a quella struttura in quel momento

c) Il principale risultato delle nostre interazioni ricorrenti nel linguaggio è che la nostra struttura cambia in modo condizionato al corso del nostro languaging nel flusso di quelle interazioni.

Questo significa che noi arriviamo nella nostra struttura momento dopo momento in armonia con il corso del nostro languaging e noi agiamo linguisticamente momento dopo momento in armonia con la nostra struttura in quel momento

d) Noi esseri umani esistiamo nel linguaggio; questo significa che siamo il tipo di esseri che siamo in quanto operiamo nel linguaggio e sorgiamo al nostro languaging nel flusso delle nostre coordinazioni consensuali comportamentali ricorrenti.

Ossia, in altri termini, noi esistiamo in una dinamica chiusa di languaging e ogni cosa che facciamo come uomini avviene nel nostro languaging in quanto flusso di coordinazioni consensuali di coordinazioni consensuali comportamentali.

Così, tutto ciò che diciamo o possiamo dire, tutto ciò che possiamo identificare operando da osservatori (in quanto esseri del languaging) avviene come una operazione all'interno di coordinazioni consensuali comportamentali senza rapporto con alcunché di esterno al nostro languaging.

Sia che agiamo come uomini comuni, sia che agiamo come filosofi, come biologi, come fisici, come artisti o come qualsiasi altra cosa, vale sempre lo stesso principio.

e) Gli oggetti sorgono nel linguaggio come coordinazioni consensuali comportamentali che coordinano comportamenti. In quanto sono coordinazioni consensuali comportamentali, le coordinazioni comportamentali che costituiscono gli oggetti operano come contrassegni per coordinazioni comportamentali e, in quanto tali, oscurano i comportamenti che essi coordinano.

Inoltre, nella coordinazione consensuale ricorrente di coordinazioni consensuali comportamentali del flusso del languaging, molti domini oggettivi, che sorgono come tipi differenti di operazioni nelle coordinazioni comportamentali, diventano contrassegni per coordinazioni operative in diversi domini ambiti di coordinazioni consensuali pratiche.

f) Idee, concetti, nozioni, ecc. costituiscono domini ambiti di oggetti che nascono come astrazioni da altri domini ambiti di oggetti e danno origine a domini ambiti di coordinazioni pratiche che essi definiscono o che vengono definiti per loro tramite.

Poiché i differenti tipi di oggetti corrispondono a differenti operazioni di coordinazioni comportamentali, gli oggetti astratti (idee, concetti, nozioni) costituiscono il fondamento del sistema teoretico che promuovono coordinazioni comportamentali nei domini di coordinazioni comportamentali dei quali essi sono l'astrazione.

Nella nostra cultura, viviamo la nostra esistenza nel linguaggio come se il linguaggio fosse un sistema simbolico di riferimento a entità di varia specie che esistono indipendentemente da ciò che facciamo e trattiamo anche noi stessi come se esistessimo fuori dal linguaggio, come entità indipendenti che usano semplicemente il linguaggio.

Tempo, materia, energia ecc. sarebbero alcune di queste entità. Tale atteggiamento ci porta ad agire come se noi potessimo caratterizzare tali entità nei termini di una loro intrinseca natura indipendente.

Io sostengo che ciò non possa essere fatto perché appena diciamo qualcosa, quello che facciamo prende corpo in un dominio di languaging in quanto operazione interna alle coordinazioni consensuali comportamentali ricorrenti.

La conoscenza

La principale conseguenza del nostro esistere nel linguaggio è che non possiamo parlare di ciò che è fuori di esso, e neppure immaginare qualcosa di esterno al linguaggio che avrebbe senso al di fuori di esso.

Possiamo immaginare qualcosa che esiste fuori dal linguaggio, ma quando tentiamo di riferirci a tale qualcosa, questo nasce nel linguaggio, caratterizzato da elementi, concetti e nozioni che nascono dal modo di operare del nostro languaging.

Niente esiste, nella vita umana, fuori dal linguaggio perché la vita umana è collocata nel linguaggio e sebbene possiamo immaginare una realtà oggettiva indipendente, quello che noi immaginiamo non è indipendente dal nostro languaging.

In verità quando riflettiamo su questa questione, diventa evidente che la nozione di realtà è un assunto esplicativo inventato per spiegare quello che distinguiamo come esperienze nostre nell'accadere della nostra vita come se questa esistesse indipendentemente da quello che facciamo.


Mi riferisco a questa situazione quando dico che, sebbene possiamo affermare che una realtà indipendente sembra necessaria, per ragioni epistemologiche, per spiegare le esperienze umane, noi non potremmo dir nulla su di essa.

Anche la nozione di realtà indipendente avrebbe senso fuori dal languaging e quand'anche tale nozione venisse adottata sarebbe o irrilevante, oppure utile solo come principio esplicativo a priori.

Ma nello stesso tempo è evidente che il non aver accesso a qualcosa che può essere propriamente chiamato realtà indipendente non costituisce una limitazione del nostro vivere e agire dal momento che niente di ciò che facciamo nel flusso della coordinazione consensuale comportamentale nel quale viviamo richiede la nozione o il presupposto che c'è una realtà indipendente.

La realtà, la nozione di realtà è un presupposto esplicativo adottato come principio esplicativo preso come autoevidente.

Se non si è consapevoli di ciò, come avviene nella nostra cultura, o se non si è disposti a seguire pienamente le implicazioni di tale consapevolezza, come avviene nelle varie branche della nostra tradizione filosofica occidentale, si finisce con il considerare la nozione di realtà come riferita a un dominio di entità indipendenti (di ogni tipo) che esisterebbero indipendentemente da ciò che l'osservatore fa.

Ma se attraverso la comprensione del linguaggio, nella consapevolezza che in quanto sistemi viventi siamo sistemi a struttura determinata, noi abbiamo scelto di seguire le implicazioni di tale consapevolezza, possiamo diventare consapevoli di parecchie condizioni baslilari che altrimenti non vediamo:

a) Quando diventiamo consapevoli che la realtà è una nozione esplicativa o un presupposto, smettiamo di crederla un dominio di entità che esistono autonomamente da ciò che l'osservatore fa, e diventiamo consapevoli che ciò che in verità facciamo, quando spieghiamo le nostre esperienze, è usare le nostre esperienze per spiegare nostre esperienze.

Questo significa diventare consapevoli che, quando proponiamo una spiegazione, usiamo le coerenze delle nostre esperienze per proporre un meccanismo (un meccanismo generativo) che, se messo in grado di operare, genererebbe nell'osservatore l'esperienza da spiegare.

b) Diventiamo consapevoli che ci sono tanti domini esplicativi quanti domini di coerenze esperenziali che che possono essere vissuti da noi esseri umani.

Allo stesso tempo diventiamo consapevoli che la nozione di determinismo strutturale si riferisce alle regolarità delle coerenze delle nostre esperienze e che noi operiamo nella vita in tanti molteplici domini di determinismo strutturale pari ai domini di coerenze esperenziali che possiamo esperire nel flusso della nostra esperienza.

c) Diventiamo consapevoli che non esperimentiamo le cose in quanto caratteristiche di un mondo indipendente, a cui facciamo riferimento quando parliamo di esperienza, come ho detto sopra, e dal quale distinguiamo quello che che accade in noi quando operiamo nel linguaggio prendendoci cura di ciò che ci accade vivendo.

Nello stesso tempo diventiamo consapevoli che nel momento in cui facciamo esperienza, essa perviene a noi dal nulla, da chissà dove, in modo tale che noi la viviamo col conforto di saperla parte di un dominio conosciuto di coerenze esperenziali, oppure in modo tale che ci sorprende quando sembra collocarsi fuori dalla coerenza delle altre esperienze conosciute.

Se ciò avviene, noi possiamo sentire il desiderio di spiegarla, e lo faremo quando rendiamo quell' esperienza partecipe di un dominio di esperienze già conosciuto. Altrimenti resteremo in ambasce.

d) Quando ci rendiamo conto di sapere già identificare ciò che identifichiamo come ciò che ci accade , e che la nostra esperienza nasce fuori dal nulla, noi ci accorgiamo di spiegare l' esperienza con la coerenza delle nostre esperienze.

Questo significa che noi diventiamo consapevoli che tutte le nostre avvengono in un dominio chiuso e che la realtà e le altre nozioni esplicative sono assunzioni a priori che conducono fuori dai domini esplicativi dentro i quali noi esistiamo come unità di languaging.

e) Diventiamo consapevoli che la nozione di determinismo strutturale non è un presupposto relativo a una realtà indipendente, ma è una astrazione delle regolarità delle nostre stesse esperienze.

Inoltre diventiamo consapevoli che è proprio perché il determinismo strutturale è una astrazione delle regolarità delle nostre esperienze che noi possiamo usare il determinismo strutturale per spiegare nostre esperienze mediante le coerenze delle nostre esperienze. infine noi diventiamo consapevoli di esperire tanti domini di determinismo strutturale quanti più domini di coerenze esperenziali noi viviamo e che ogni dominio esplicativo è in verità un dominio di determinismo strutturale

A queste condizioni, che cosa significa conoscere? Come abbiamo detto, conoscere non significa rapportarsi a una realtà indipendente, giacché si tratta di una cosa che noi, come unità di languaging, non possiamo fare.

Ma se noi ci prendiamo cura di ciò che facciamo nel corso della nostra vita quotidiana e della nostra attività tecnica, dobbiamo osservare che affermiamo di conoscere ( o che qualcun altro conosce) quando vediamo che noi stessi (o l'altro) agiamo adeguatamente in alcuni domini che noi specifichiamo mediante una domanda, in armonia con alcuni criteri chei consideriamo comportamenti adeguati per siffatto dominio.

La conoscenza è una relazione interpersonale nel dominio delle coordinazioni consensual delle coordinazioni consensuali del comportamento. Ossia, in altre parole, la conoscenza è qualcosa che noi attribuiamo a noi stessi o a qualcun altro quando verifichiamo quello che consideriamo un comportamento adeguato, in noi stessi o nell'altro, in un particolare dominio; e frequentemente usiamo l'attributo di conoscenza per far qualcosa insieme nel medesimo dominio di coordinazioni comportamentali.

Se non siamo consapevoli di questa situazione, finiremo con il trattare la conoscenza come un modo di rapportarsi a entità che presumiamo esistenti nella realtà, cioè in un dominio di entità che esistono indipendentemente da ciò che fanno gli esseri umani. In tal caso la conoscenza diventa una inconcludente ricerca della cosa in sé.

Il fatto che la conoscenza non sia (né può essere) una modalità di riferirmento a un dominio di entità esistenti indipendentemente da ciò che l'essere umano fa come unità di languaging, non costituisce una limitazione o insufficienza nel dominio della conoscenza, ma è una caratteristica costitutiva del fenomeno della conoscenza stessa.

Il fatto che la conoscenza sia un modo di coesperienza in coordinazioni consensuali interne a coordinazioni consensuali comportamentali è infatti la condizione che rende la conoscenza un dominio già di per sé aperto alla sua trasformazione, e la vita umana, grazie alla conoscenza, si apre alla continua trasformazione in quanto le esperienze si formano in essa dal nulla (dal caos). Detto questo, che cosa è il tempo?

La natura del tempo

Noi apparteniamo a una cultura che vive - e particolarmente nei domini della scienza, della filosofia e della tecnologia - per lo più nell'accettazione esplicita o implicita di alcuni tipi di realtà indipendenti come riferimenti ultimi per tutte le spiegazioni.

Questo atteggiamento permea il nostro modo di porre questioni e di attenderci risposte.

Così, nella nostra cultura quando domandiamo che cosa è il tempo noi ci aspettiamo una risposta in riferimento a una particolare entità indipendente, con l'implicito intendimento che tale riferimento conferirà validità alla nostra risposta.

Per quanto ho detto, nessun riferimento può essere fatto, e non a causa di una limitazione nella nostra capacità di conoscere, bensì per le caratteristiche stesse del fenomeno conoscitivo. Di conseguenza, ciò che noi significhiamo con la parola tempo non può essere una cosa in sé.

Nella nostra cultura, la nozione di tempo è usata come nozione esplicativa o come un principio nello stesso modo con cui viene usata la parola realtà.

Ma se noi siamo consapevoli di questa situazione e se siamo consapevoli che la parola tempo non può riferirsi a una entità che esiste indipendentemente da ciò che facciamo, dobbiamo porre la nostra domanda in modo diverso da come viene posta quando nella esperienza quotidiana o tecnica si parla del tempo: quali caratteristiche di coerenza delle nostre esperienze connotiamo o astraiamo quando usiamo la parola tempo?

a) Noi ricorriamo all'esperienza per spiegare l'esperienza. Spiegare il tempo è perciò una operazione che dovrò effettuare con l'elemento di dominio delle nostre esperienze. Di conseguenza userò le caratteristiche delle nostra esperienza quotidiana (e non nozioni esterne ad essa) per spiegare o descrivere ciò che io penso che facciamo quando usiamo la parola tempo.

L'esperienza è la nostra condizione di partenza sia per porre la domanda sia per ottenere una risposta. Così io partirò indagando dalla considerazione di noi stessi che facciamo qualcosa, e dalla capacità di fare tutto ciò che facciamo ordinariamente o tecnicamente.
Il nostro problema non è l'esperienza, quando si tratta di spiegare quello che facciamo.
Il nostro impegno è spiegarla.
Similarmente il problema non è l'uso della parola tempo o ad ogni altra parola nella vita quotidiana, bensì è lo spiegare o svelare ciò che facciamo quando le usiamo o come noi le esperiamo.

b) Io sostengo che la parola tempo denoti un'astrazione dell'avvenimento di processi in sequenze per quanto le evidenziamo all'interno delle coerenze delle nostre esperienze. Come noi distinguiamo sequenze di processi, distinguiamo anche la simultaneità di processi come caratteristica delle nostre coerenze esperenziali che connotiamo con l'espressione "nello stesso tempo".

Una siffatta astrazione è resa possibile in prima istanza perché nell'attività del nostro sistema nervoso le sequenze di attività sono distinte sulla superficie delle cellule nervose al momento della generazione degli impulsi nervosi come configurazione di relazioni attive. Come risultato, quello che dalla prospettiva di un osservatore è una operazione in tempo, nella distinzione temporale, in quanto e l'astrazione di un processo, appare come una operazione nel presente.

c) Nel momento di astrazione della relazione sequenziale che da origine a quella distinzione che chiamiamo tempo, il tempo nasce nell'esperienza dell'osservatore con direzionalità e irreversibilità.

Anche nel caso in cui noi distinguiamo processi ciclicamente reversibili, operiamo una pari distinzione, in un contesto di irreversibilità direzionale del tempo, che consente di distinguere processi sequenziali e il loro inverso come configurazione di processo che noi chiamiamo tempo reversibile.

Così, il tempo reversibile è una astrazione di una particolare esperienza irreversibile e direzionale.

d) Una volta che il tempo è nato come distinzione nel dominio delle esperienze di un osservatore, esso diventa una entità operativa che nella nostra cultura appare autonoma rispetto a ciò che l'osservatore fa. E questo avviene perché una volta che il tempo è nato, può essere usato dall'osservatore - da ciascuno di noi come unità di languaging - nella riflessione sulla regolarità delle sue esperienze, proprio perché esso nasce come astrazione della regolarità delle esperienze.

Con la nozione di tempo di conseguenza avviene la stessa cosa che con la nozione di determinismo strutturale, che è anch'essa una astrazione dalle regolarità delle esperienze dell'osservatore - nozione che può essere usata per studiare le regolarità delle coerenze di un osservatore proprio perché essa nasce come loro astrazione.

e) Ritengo, quanto ho detto, valido per ogni dominio, compreso ovviamente anche quello della fisica. Il dominio della fisica nasce come dominio esplicativo di alcuni tipi di coerenze esperenziali dell'osservatore dall'uso di alcuni tipi di coerenze esperenziali dell'osservatore. Così la fisica non è un dominio primario di cose esistenti, ma è un dominio particolare di spiegazioni di un dominio particolare di coerenze esperenziali di un osservatore.

Le nozioni teoretiche sono astrazioni delle coerenze esperenziali di un osservatore in taluni domini - o per lo meno sono intese con tale funzione. Data questa condizione, le teorie sono operativamente valide solo nel dominio dove esse risultano essere astrazioni.

f) Il tempo unidirezionale e il tempo reversibile sorgono come nozione teoretica nella fisica in quanto astrazioni che l'osservatore fa delle sue coerenze sperimentali e che egli connota con i termini tempo o reversibilità. Come nozioni teoretiche, il tempo unidirezionale e il tempo reversibile possono essere trattati come entità che posseggono efficacia nel dominio esperenziale di cui sono astrazioni. Questo pare scontato.

Quello che non è scontato invece è che spesso dimentichiamo che il tempo unidirezionale e il tempo reversibile sono in realtà astrazioni delle coerenze esperenziali dell'osservatore, così come abbiamo prima indicato. In tal caso noi finiamo col considerare il tempo unidirezionale e il tempo reversibile come entità esistenti indipendentemente dal nostro operare da osservatori, oppure come riflessi o rappresentazioni di tali indipendenti entità, e così generiamo conflitti concettuali e operativi.

Quando ciò avviene, non vedremo nemmeno che le formulazioni matematiche nelle proposizioni teoretiche nascono come valide nelle loro coerenze solo in quanto astrazioni delle coerenze delle esperienze che rappresentano

Per quanto la nozione di tempo viene generata come astrazione delle nostre esperienze sequenziali di processi che si trovano nelle molteplici dimensioni e forme della nostra vita, tale nozione viene generata in relazione alle molteplicità di forme in cui noi stessi esistiamo. Come risultato, ci sono tante forme di tempo quante sono le forme di astrazione delle regolarità esperenziali di processi e di sequenze di processi.

Così noi parliamo di tempo lento e veloce, di tempo passato, di tempo perso, di avere o non avere tempo, di simultaneità ecc. in molti differenti ambiti esperenziali, ma in tutti i casi noi ci riferiamo allo stesso tipo di astrazione nel dominio della sequenza di processi. In verità ciascun dominio ha una propria dinamica temporale così come ha una propria dinamica processuale.

La consapevolezza che la nozione di tempo sorge come astrazione dalle coerenze esperenziali dell'osservatore e che viene usata come nozione esplicativa non è un problema. Ciò che costituisce un problema a lungo andare è l'inconsapevole adozione della nozione di tempo come principio esplicativo che viene acquisito come argomento di percorso che gli conferisce uno stato ontologico trascendentale

Conclusione

Ho risposto alla questione "quale distinzione connotiamo quando parliamo del tempo?" mostrando

1) che noi non connotiamo o non possiamo connotare una entità o dimensione naturale che esiste indipendentemente dal nostro operare come umani osservatori, e

2) mostrando che noi usiamo nella vita quotidiana la parola tempo per indicare o per connotare una astrazione delle nostre esperienze di successione di processi. In altre parole ho mostrato che la fondazione della nozione di tempo in qualsiasi dominio si basa sulla biologia dell'osservatore, non sul dominio della fisica, il quale è un dominio esplicativo di specifici tipi di coerenze esperenziali dell'osservatore.

Per di più, descrivendo questo processo, ho anche mostrato che il tempo, sorgendo come primaria astrazione di flusso delle esperienze dell'osservatore, sorge con direzionalità e irreversibilità, e che il tempo reversibile sorge successivamente solo come astrazione secondaria e ulteriore delle esperienze dell'osservatore - il che è possibile solo in un dominio di tempo unidirezionale e irreversibile.

In conclusione sostengo che la nozione di tempo viene frequentemente usata come principio esplicativo che gli conferisce uno statuto ontologico trascendentale.

L'osservatore non è una entità fisica; l'osservatore è una modalità operativa dell'essere nel linguaggio. E' grazie alle operazioni dell'osservatore che nascono i domini cognitivi, compreso il dominio stesso dell'osservazione. La fisica è la modalità con cui l'osservatore spiega con la coerenza della sua esperienza un particolare dominio di esperienze che viene denotato col termine fisica.

Ma in verità l'osservatore stesso nasce come entità di cui noi osservatori possiamo parlare attraverso una operazione osservativa che costituisce il fondamento di tutto ciò che l'uomo fa.

Non v'è dubbio che noi ci comportiamo nella nostra vita come se vivessimo in un mondo che esiste indipendentemente da quello che noi facciamo e che chiamiamo "realtà".

Ed è fondamentale per questo che noi possiamo domandarci come fare per conoscere la realtà o il tempo come se ci riferissimo specificatamente a qualcosa che esiste indipendentemente da ciò che facciamo.

Il mio intento è stato diverso. Il mio problema non riguarda la realtà del tempo o di ogni altra specie di entità a cui deve essere concessa una esistenza indipendente. Il mio problema riguarda (e qui riguardava) le esperienze o le operazioni che noi facciamo come osservatori quando usiamo differenti nozioni, concetti o parole che implicano a loro volta distinzioni di entità o caratterizzazioni di un mondo indipendente.

Una esperienza che noi distinguiamo come imputabile a noi non è mai un problema a meno che non ci accusiamo a vicenda di mentire. E' la spiegazione dell'esperienza a costituire un problema come fonte di conflitti. L'esperienza sorge spontaneamente dal nulla nel vero senso della parola, ossia, se vogliamo, dal caos - da un dominio sul quale non possiamo dir nulla e che non sorge dalla coerenza delle nostre esperienze.

Questo che io dico è valido per ogni dominio di esperienza, sia questo la vita, la fisica il quanto della fisica, le relazioni umane ecc. Tutti questi differenti domini di esperienza sono domini esperenziali vissuti come domini che spiegano le nostre esperienze mediante le nostre esperienze. Ma le nostre esperienze non sono disordinate, ma sorgono coerentemente per quanto nascono in noi dal niente.

Così, noi esistiamo in questa meravigliosa situazione esperenziale dove noi, quali osservatori che vivono nel presente, siamo la sorgente di ogni cosa, persino di ciò che possiamo studiare nelle coerenze delle nostre esperienze di osservatori, come entità che, mediante la loro operazione, danno il via all'operazione osservativa ed esplicativa all'interno di un dominio esplicativo chiuso.

La grande tentazione sarebbe voler trasformare l'astrazione della coerenza di nostre esperienze che abbiamo distinto con nozioni quali realtà, esistenza, ragione, spazio, coscienza oppure... il tempo, in leggi esplicative.






venerdì 3 marzo 2023

Kālī: La Signora del Tempo


Kali 


Kālī: La Signora del Tempo

Questo aspetto lega Kali all'illuminazione, alla liberazione o moksha, allo spirito assoluto che tutto pervade, la collega in modo molto evidente allo yoga e al suo fine ultimo e ci fa capire il perchè fosse venerata e questo accade in un brano dal Mahanirvana-tantra, in cui Kali è uno degli epiteti con cui viene chiamata la shakti primordiale, e in un passaggio Shiva così le si rivolge:
"Alla dissoluzione delle cose, è Kāla [il Tempo] che divorerà tutto, e in ragione di ciò, Egli è chiamato Mahākāla [uno dei nomi del Signore Shiva], e poiché Tu divori Mahakāla stesso, sei Tu che sei il Supremo Kālika Primordiale. Perché Tu divori Kāla, tu sei Kāli, la forma originale di tutte le cose, e poiché Tu sei l'Origine e la divoratrice di tutte le cose, Tu sei chiamata l'Adya [il Primordiale]. 

Riprendendo dopo la dissoluzione la tua stessa forma, oscura e senza dimensioni, tu sola rimani come uno, ineffabile e inconcepibile. Pur avendo una forma, tuttavia sei senza forma, senza inizio, multiforme regina del potere di Maya,

Tu sei l'inizio di tutto, Creatrice, Protettrice e Distruttrice."   Mahanirvana-tantra

Kali è forse la Dea più nota del pantheon induista, è la Dea dell'energia femminile attiva e dirompente, dalla potenza inarrestabile, erede dell'antica Dea della morte e della trasformazione.

Fra i suoi nomi abbiamo: 

Bhairavi – La spaventosa  
Chamunda –Il killer 
Chandi – L’aggressiva 
Jari-Mari – La calda-fredda

Kali è innanzitutto una Dea attiva, un femminile che è forza, uno degli aspetti di Shakti, la Dea dell'energia e del mutamento. 

E' importatnte sottolineare che nel pensiero religioso e filosofico induista gli archetipi del maschile e del femminile si presentano in modo per molti versi opposto rispetto alla nostra cultura: al maschile e agli Dei maschi appartiene la passività, mentre la funzione attiva, espressiva, appartiene al femminile e alle Dee. 

L'India è uno di quei rari luoghi in cui nella nostra epoca la Dea è ancora presente e oggetto di culto: Ella si mostra nell'induismo con volti e figure diverse, pur essendo in qualche modo sempre una, l'antica Dea, Devi(1).

Volti e figure che si intrecciano fra loro, mai statici, spesso mescolati, tanto che chi li studia fatica a trovare, guardando da vicino, i confini tra l'una e l'altra Dea, tanto spesso le forme di una comprendono gli attributi di un'altra e variando da regione a regione si confondono. 
Ma non è così che accade, da sempre, per la Dea, cangiante e molteplice, una e inesauribile?

Con il nome Shakti, governa l'energia materiale, attiva, creativa, perennemente in mutamento.
Come Parvati, rappresenta il principio primo che si manifesta nel mondo.
Come Durga, Dea guerriera, ci viene incontro con impeto e potenza.
Con il nome di Lakshmi, porta con sé dolcezza e infinita abbondanza.
Come Radha, è l'amore divino, essenza di ogni relazione, potenza di piacere.
Saraswati, Ella canta il suono creativo della vibrazione eterna.

E ancora si manifesta con mille altri nomi e forme: Sita, Tara, Gayatri, Sati, Uma, Aditi....
E infine Kali, la più nota, come abbiamo detto, la più misteriosa, la più intensa, la più adorata.




Volti di Kali


Kali dall'impatto indiscutibile, di fronte a cui anche la più razionale, la più fredda delle persone si trova coinvolta, ingaggiata nel profondo.

Basta essere entrate anche una sola volta in un tempio di Kali, magari a Khaligat di Calcutta, o a Katmandu, da cui proviene l'immagine qui accanto, uno di quelli che ospita una Kali in forma irata - come vedremo ve ne sono anche forme pacificate - per non scordarsene mai più. 

Se il tempio è affollato, è tutto un pigia-pigia di gente, donne, uomini, bambini; come spesso accade, lì; bisogna farsi largo, trovare uno spazio, aspettare e lasciarsi portare dal flusso lungo i corridoi, così che, quando ci si trova improvvisamente di fronte Lei, la sorpresa si mescola all'impatto. Altrimenti, se è un tempio minore, o un momento più tranquillo, ci si arriva subito, anche troppo presto, di fronte alla Murti(2), alla Dea che è davvero lì, non solo nella sua immagine, bensì nella sua Presenza. 

In entrambi i casi ti assale un mondo di odori e spezie e fiori e sopra tutti, intenso, il sentore acre della cuccuma rossa e quello nauseante del sangue animale. Fiumi di rosso versati sulla Dea Nera, ai suoi piedi, che scorrono sui basamenti, sulle sue membra, sulla sua lingua. La potenza delle Sue braccia, il profilo dei teschi in collana, la bocca spalancata. Ella è nera, imponente, impressionante. 

Per chi le sta di fronte, nessuno scampo. Un incontro senza sconti, senza mediazioni. Con se stesse e con Lei, come fosse una cosa sola. 
E, insieme, l'incontro con quanto vi è di più alieno e oscuro. Con l'orrore e con la paura senza nome. 

Kali ti costringe ad una nudità assoluta, ad un incontro allo specchio, e anche per questa sua caratteristica è al centro della via spirituale tantrica. Ella è la rottura di ogni schema, di ogni forma precostutuita; non a caso nel culto tantrico il devoto è invitato a rompere ad uno ad uno tutti i divieti e i tabù sociali in vigore, fino a cibarsi di cadaveri.

A differenza della più parte delle Murti, infatti, Kali, quando appare nella sua in forma irata, ugra, non ti guarda, non entra in relazione con te; non ha infatti la possibilità di vedere l’individuo, è energia pura, almeno fino a che non arriva al suo punto di rottura, finché non entra nella forma ‘pacificata’.  

E da quello che ho chiamato il 'punto di rottura' si affaccia l'altro volto di Kali che è possibile incontrare nei templi, anzi che è il più comune ne panorama attuale: la Kali benedicente, la Kali protettrice, Kali-ma, la Madre, cui furono dedicati meravigliosi canti di lode e offerta dai mistici bhakta ottocenteschi. 
Rovesciando quelli che vedremo essere i suoi attributi principali, Ella appare qui sorridente, benevola, giovane, talvolta perfino di carnagione chiara. 

Può essere invocata come protezione contro le calamità naturali, uragani, cataclismi.
E' la forma di Kali che può fare ingresso nelle case - La Kali ugra sarebbe troppo potente, pericolosa -. Ha il volto della protettrice delle mura domestiche, della famiglia. 

In quanto Dea, in quanto Madre, Ella distrugge per trasformare, per purificare, per accogliere, infine, il devoto della sua luminosa energia di Sposa di Shiva.




Alcuni aspetti di Kali

Una caratteristica importante delle dee del mondo induista è il loro avere sempre una duplice valenza: rappresentano sia il mondo spirituale che quello materiale nella forma femminile. 

Così Kali, come le altre, è al contempo la Dea e una dea, La Grande Dea e il suo volto di guerriera distruttrice e l'energia del tamo guna, il principio materiale che sottende ogni trasformazione. 

In riferimento alle enegie della materia, Kali fa parte di una trinità di dee che ricorda molto la triplice dea in alcune sue forme dell’area europea e mediterranea.

Ci sono numerosi templi dedicati a tale triplice dea: Lakshmi, Saraswati, Kali, corrispondenti alle tre energie (guna) primarie: l'energia della creazione, rajas (Saraswati, la luna crescente), quella della conservazione, sattva, (Lakshmi, la luna piena) e quella della dissoluzione, tamas, (Kali, la luna nera)(3).
  
Kali è dunque il volto ‘oscuro’ della triplice, corrispondente alla luna nera, all’energia della morte, del sonno, dell’illusione e della coppia ignoranza-conoscenza misterica. Kali è la figura che rappresenta anche il potere della trasformazione, che è sempre potere di morte, per cui è associata a serpenti.

Sempre quale 'volto oscuro'; Kali appartiene al mondo della Dea doppia: quella adorata in moltissimi villaggi nella semplice forma di una pietra rotondeggiante dipinta di rosso-ocra, come la coppia Parvati-Durga/Kali: Esse ci mostrano il volto luminoso, chiaro, attraente della dea con Parvati e in quello oscuro, nero e inquietante della stessa con Durga-Kali.

In India, le divinità si possono dividere in ‘calde’ e ‘fredde’. 

Le prime esprimono i caratteri della fierezza, della rabbia, della guerra: sono divinità furiose e terrificanti che richiedono sacrifici – di sangue – per essere placate. Le altre sono dee familiari e gentili, che nutrono le comunità con amore e tenerezza.

Il femminismo radicale ha interpretato Kali come la manifestazione dell’inconscio collettivo femminile nella sua rabbia contro i regimi dominati dagli uomini. E’ una spiegazione coerente e consistente, ma ha il difetto di ‘depotenziare’ Kali rendendola un transitorio momento storico, come a dire che essa scomparirà – guarirà – quando le parti saranno equilibrate e le donne torneranno brave e buone come nelle leggende gilaniche. Come dire che, alla fine, rimarrà solo la dolce Parvati. 

E dell'energia primordiale dell'antica Dea della Morte, che ne sarà stato? No, mi sembra che impoverire la sua natura ci allontani dalla comprensione di cosa è, nella sua totalità, il divino femminile.

Un aspetto che rende Kali particolarmente interessante è il suo essere una Dea ‘vivente’ adorata ancora oggi, con la quale abbiamo la possibilità di un incontro ‘vivo’ nella dinamica dei suoi miti, dei suoi templi, delle sue feste, dei riti e della relazione con noi (per l’induismo, in tutte le sue varianti, la relazione è un aspetto essenziale – se non l’essenziale – del e nel divino). 

Iniziamo dunque il viaggio nel 'mondo di Kali', della sua iconografia.




Kali è descritta e raffigurata come:

Nera (kali, con la a breve significa “nera”, in sanscrito, e viene spesso confusa con la parola kala, con la a lunga, che significa “tempo”) Sia la pelle che i capelli sono neri, i suoi sacerdoti sono vestiti di nero, talvolta viene raffigurata insieme a gatti neri e viene adorata particolarmente durante le notti di luna nera.
Ci sono delle forma di Kali blu e porpora, forme ‘gentili’ o ‘pacificate’ della Dea con due delle mani in posizione benedicente che vengono adorate nelle case – anche se comunque all’esterno della casa vera e propria, forme che ricordano quelle di Narasimha (incarnazione di Krishna-Vishnu) pacificato. 

Nuda: la nudità di Kali è stata a tal punto ‘difficile’ da creare un’iconografia in cui ella porta una cintura di braccia mozzate e nei templi spesso è ‘vestita’ con un sari rosso. All’origine, comunque, era nuda, con la vulva visibile, seni cadenti e il ventre gonfio, selvaggia, brutta.

Con i Capelli sciolti e scompigliati. I capelli sono simbolo della sessualità sia da un punto di vista archetipico che dal punto di vista concreto dell’organizzazione sociale in India, dove è possibile sapere se una donna è vergine, sposata o vedova a seconda di come tiene i capelli. La sua è una sessualità libera, sfrenata e selvaggia. 

Nella letteratura la Grande Dea, Devi, si scioglie i capelli ogni volta che è adirata o chiamata alla battaglia. 

Nel Mahabaratha, il venire sciolto dei capelli di Draupadi, la moglie dei Pandava – uno dei volti di Draupadi è infatti Kali, in cui ella si trasforma nel periodo trascorso in esilio nella foresta - fu la causa del collasso della civiltà e l’origine del caos e della guerra, che ebbe fine solo quando Draupadi potè lavare i suoi capelli nel sangue dei Kaurava e tornò a legarli nella tradizionale treccia.

Con indosso una ghirlanda di teste tagliate, maschili, con i baffi e un’aria virile. Sull’identità delle teste i miti raccontano storie diverse: demoni, uomini che si sono sacrificati a lei, simboli del falso io che la vita spirituale chiede di abbandonare, lettere dell’alfabeto sanscrito, perché Kali ‘taglia la testa alla parola’, riportandoci a quanto la precede, liberandoci dal suo legarci. Ha corpi di neonati come orecchini.

La lingua fuori, grondante sangue (nella maggior parte dei templi, il sangue degli animali sacrificati viene fatto scorrere sulla Sua lingua. Dove i sacrifici animali sono vietati, viene fatta scorrere una miscela a base di kukkuma rossa). Kali è, essenzialmente, assetata di sangue. 

Sul significato della lingua sporgente è da notare che essa accomuna molte raffigurazioni di dee 'oscure', fra cui le greche Gorgoni, e Medusa in particolare, e ha una provenienza iconografica molto antica: essa può anche evocare il flusso del sangue mestruale nell’associazione bocca-vulva (e più sotto trovate la raffigurazione di una Kali mestruata). La lingua di Kali è centrale nella sua iconografia, tanto che il più antico cenno a lei nei Veda la nomina come una delle lingue di Agni, Dio del fuoco. 

Con nelle mani (in genere 4, ma in alcune raffigurazioni sono più numerose): 

un’ascia insanguinata e altre armi
una testa – maschile – tagliata da cui gocciola sangue
un piatto per raccogliere il sangue

Raffigurazioni antiche e più recenti di Kali nella forma irata, in battaglia sul corpo di Shiva

Kali inoltre sta sul corpo di Shiva (nel tantrismo raffigurata in attività sessuale - sopra, come avrebbe voluto la prima moglie di Adamo, Lilith). E’ generalmente in posa ‘danzante’ o in movimento, una gamba alzata e l’altra a terra. Energia mobilizzata, interamente.

E’ attorniata da cani e sciacalli, abita nei campi di battaglia e nei crematori (dove si trovano per lo più i templi di Kali), i luoghi tradizionalmente considerati ‘impuri’. 

Talvolta cavalca una tigre come Durga ed è accompagnata da gatte, notoriamente battagliere.

Il suo impatto è sempre forte, senza dubbio, e la componente olfattiva si associa a quella visiva: nero, rosso, sangue . Come ho detto, entrare in un tempio di Kali, incontrare la sua murti, non è un’esperienza che si dimentica. 





Kali, Shakti e Durga

Kali è associata a Shakti e Durga, entrambe controparti di Shiva, da lui inseparabili.

Shakti, abbiamo detto, è energia e azione, è una forza dinamica, che non ha inizio né fine, che si trasforma continuamente restando sempre la stessa – è l’eterna danza degli elementi, il movimento degli atomi e dell’universo. 

Nella maggior parte delle raffigurazioni, è rappresentata fusa con Shiva in una figura unica di cui Shakti è il lato sinistro. Il nome Shakti viene dalla radice shak, potenzialita, potere di produrre, per cui Ella è anche la Madre cosmica, l'energia generatrice pura. 

Durga, che è vestita come una fanciulla, ma agisce come un killer, è una Dea guerriera che cavalca una tigre, combatte i demoni e ha numerose braccia armate. Rappresenta i principi del sesso e della violenza che fanno girare la grande ruota della vita. 

Kali contiene qualcosa di Shakti e di Durga, ma i suoi simboili sono chiaramente tali da evocare bhaya e vibhitsa, cioè paura e repulsione, portandoci in contatto con gli aspetti oscuri e ripugnanti del cosmo – e quindi del divino – aspetti che in genere si tende a negare, reprimere o sopprimere



Kali delle origini, erede dell'Antica Dea


E’ difficile rintracciare la storia di Kali così come è difficile tracciare i contorni del suo culto oggi, anche se le sue origini sono con ogni probabilità pre-ariane, dravidiche. Vi sono infatti fra i reperti dell'epoca figurine di dee la cui energia ricorda quella delle shakti e di Kali in particolare..

Il nome Kali compare per la prima volta nei Veda ariani (VIII/V a.C.) , cioé in epoca già patriarcale, nel Mundaka Upanishad come la nera tra le sette lingue fiammeggianti di Agni, il dio del fuoco.
Un antecedente della figura di Kali appare invece nel Rig Veda, con il nome di Raatri, che è considerata anche una figura antica di Durga.

Kali è nominata nel Mahabaratha, sul campo di battaglia.

Nel periodo a cavallo dell'inizio dell'era cristiana, una dea sanguinaria simile a Kali di nome Kottravai fa la sua comparsa nella letteratura del periodo. Come Kali ha i capelli sciolti, ispira terrore in chi la avvicina e festeggia sui campi di battaglia disseminati di morti. È probabile che la fusione della sanscrita dea Raatri con la indigena Kottravai abbia prodotto le terrifiche dee dell’induismo medievale.

A quell'epoca risale la maggior parte delle caratteristiche della figura di Kali come è conosciuta ai giorni nostri.

Fu con l'epoca dei Purana nella tarda antichità che venne dato a Kali un posto nel pantheon induista. Kali, o Kalika, è descritta nella Devi Mahatmya (nota anche come Chandi o Durgasaptasati) dal Markandeya Purana, databile tra il 300 ed il 600 d.C., dove si afferma che sia un’emanazione della dea Durga, una distruttrice di demoni o avidya (parola sanscrita che significa anche ignoranza, assenza di saggezza), comparsa durante una battaglia tra le forze divine ed anti-divine.

In questo contesto Kali è considerata la forma “potente”, o piuttosto irata, della grande dea Durga. 

Come altrove, anche in India si ritiene come già detto che vi sia stato un mutamento nel pantheon divino in corrispondenza con le invasioni ariane, portatrici di Dei maschi, celesti e guerrieri, che soppiantarono le precedenti culture dravidiche o pre-ariane dominate dalla religione della Dea, legata alla terra e alle qualità del femminile.

Nel mondo indu, la stratificazione mitologica delle ere pre-patriarcale e patriarcale è ancora leggibile nel pantheon divino, dal momento che il culto della Dea, a differenza che altrove, riemerse nelle epoche seguenti tali cambiamenti sociali e divenne in alcuni secoli addirittura predominante. 

Come risultato, ogni Dio ha una controparte femminile e vi sono alcune scuole – l’induismo è in realtà un insieme di centinaia di scuole anche molto diverse teologicamente – in cui il divino è percepito come innanzitutto femminile e i cui maestri sono devoti di una Dea.

In una versione dell'origine di ogni cosa Kali ci si presenta come la Grande Dea Madre - nella forma che ricorda la Dea nelle culture pre-patriarcali - a generare ogni cosa: prima che fossero creati il sole, la luna, la terra e gli altri pianeti, quando vi era solo ed ancora l’oscurità, la Madre, la Senza Forma Maha Kali, divenne tutt’uno con l’Assoluto, Maha Kala. Dalla loro unione ebbe origine la manifestazione.


STORIE E MITI

Fra i molti, il più diffuso mito è quello in cui Kali appare durante la battaglia che infuria fra i deva e i demoni e in particolare fra Durga e i demoni, allorché Durga incontra un demone che neppure lei riesce a sconfiggere, perché ad ogni goccia del suo sangue che cade a terra sorge un'altro demone - o più demoni - subito pronti a combattere. 

In quel momento, dal sopraciglio aggrottato di Durga, o- in altre versioni - dall'energia congiunta dei deva, appare Kali, La Dea in grado di sconfiggere tale nemico, in grado di bere immediatamente il suo sangue prima che esso cada a terra. 

Questo è un elemento importante: quando tutto è perduto, quando le forze, sia pure divine, non sono sufficienti e la sconfitta si profila inevitabile, a quel punto appare Kali, il volto della Grande Dea che combatte e vince anche quel demone, anche quel pericolo. 

Kali però è la guerriera che entra nella battaglia senza più distinguere fra buoni e cattivi, fra deva e demoni. La sua forza distruttrice è lanciata al di fuori di ogni legge e regola. Più combatte, più diventa forte e più ‘si ubriaca’ del sangue dei nemici uccisi, tanto che anche quando la battaglia è finita, Kali continua la sua danza di morte uccidendo chiunque le capiti a tiro e sembra inarrestabile. 

I deva, impauriti, chiedono aiuto a Shiva, consorte della Grande Dea e dunque anche di Kali. E Shiva, vedremo poi come, riesce a placarla.

Kali ha in sé esplicitamente il doppio volto della rabbbia estrema: è l’unica energia che può proteggere quando ogni altra protezione si rivela inutile e nello stesso tempo non può più prendere la mira, è completamente cieca al mondo.

Come spesso accade con le dee del pantheon induista, un lato importante di Kali è il suo essere energia e azione; senza di lei anche il Dio è inerte e privo di vita.

Miti e racconti su Kali

Nei miti e nelle leggende, in qualche modo Shiva riesce a ‘placare’ Kali. Fatto interessante, esistono sono numerosissime versioni di come ciò accada, al contrario del mito della sua origine, che ha in genere poche varianti. Molti dei racconti ci mostrano i 'legami' e i ruoli del femminile in india, quei ruoli a cui Kali viene richiamata da Shiva. 

Altri invece ci mostrano le forze creative che possono trasformare l'energia furiosa in energia trasformativa e positiva.

Alcune delle leggende che riguardano il suo riapparire ci mostrano invece le situazioni in cui Ella è chiamata a manifestarsi.

Shiva si reca sul campo di battaglia dove Klai imperversa inarrestabile e si trasforma in un bambino piccolo, nascondendosi fra i morti e i feriti. Kali, avanzando, si trova davanti a lui e si ferma, viene pervasa dall’istinto materno universale femminile che la trasforma nella Dea chiara, dai cui seni scorre il latte per il bimbo. Ella è la Madre.

Nel mito più diffuso, Shiva, sempre con l'obiettivo di fermarla, si sdraia sul campo di battaglia, ai suoi piedi e Lei si trova su di Lui, si accorge di Lui, lo riconosce. Ci sono due varianti di questa versione.
Nella prima, Kali si rende conto improvvisamente che stava per calpestare suo marito, si spaventa e ‘rientra’. 

Viene sottolineato il suo ruolo di moglie ed enfatizzata la sottomissione - sociale e culturale - della moglie al marito, tipica della società indiana. 

In una seconda versione, tantrica, Kali riconosce Shiva posto ai suoi piedi e, nel salire su di lui, è presa da desiderio sessuale per Lui e e comincia a fare l’amore con Lui. L'energia guerriera si trasforma in energia erotica. In alcune versioni del culto tantrico è la sacerdotessa - significativamente meglio se mestruata - a unirsi con il devoto e trasformarlo in questa unione risvegliando la sua kundalini e guidandolo nella conquista spirituale. 

In altri racconti, Shiva trova il modo di distogliere Kali dalla sua danza distruttiva mettendola a confronto.
In uno si pone di fronte a Lei e ride e la prende in giro per come è brutta. Lei si specchia in Lui, riconosce il suo stato, si bagna e ne esce splendente. 

In un'altro La invita ad una gara di movimenti e danza sfrenata, e Lei ad un certo punto si ‘vergogna’ di mostrare le parti intime e la sorpresa le fa tirare fuori la lingua (quest'ultima versione, pare, ottocentesca)

Ma non tutti racconti su Kali parlano del campo di battaglia: in una storia, Ella litiga con Shiva, suo marito, e si allontana da lui, furibonda.

Convinta dal saggio Narada a tornare da Lui, ella si avvicina a Lui e vede in un raggio di chiara luce una Dea nel suo cuore. 

E’ lei stessa, ma Kali non sa di aver già abbandonato la su forma ‘oscura’ e di primo acchito pensa si tratti di un’altra Dea, e ne è gelosa. Chiarito l’equivoco, a Kali viene attibuito il nome di Tripura-Sundari, la bellissima dei tre mondi.

Di molte dee stile Kali nei villaggi si narra che si trattasse di fanciulle a cui accadde qualche tragedia in seguito alla quale si trasformarono nella Dea furiosa. Spesso si tratta di violenze e soprusi, che Kali viene per vendicare.

Molte storie di Kali ci dicono come Ella appaia quando una legge viene violata. Ho già citato il caso del Mahabaratha, quando a Draupadi, moglie dei pandava viene inflitta dai kourava la vergogna di essere trascinata al centro della sala, i capelli sciolti, e subire il tentativo di spogliarla delle sue vesti - evento che viene scongiurato dal magico allungarsi all'infinito del suo sari. 

Da quel momento in poi, Draupadi si trasforma in Kali, fino al compimento della vendetta.

Ben lungi da una ricerca minimamente esaustiva in questo campo, vi presento qui alcuni spunti e aspetti del vasto culto di Kali, spunti che mi hanno fatto riflettere o che mi hanno insegnato qualcosa.

Nel tantrismo, d’altro canto, il principio è la capacità di riconoscere, attraverso Kali, il proprio lato oscuro. Ognuno di noi ha in sé Kali, e il devoto è aperto a riconoscere in lei l'oscurità che appartiene anche a lui. 

Facendo ciò, il devoto esce dall'ordine sociale e culturale, dalla superficie, per entrare nelle profondità dell'essere. L'azione 'pura', il comportamento retto, non possono assolvere la funzione di salvezza dal samsara materiale, non garantiscono la protezione dello spirito. 

La via tantrica attraversa tutte le azioni impure, degradanti – quelle azioni che i bramhana vaishnava non farebbero mai. Tutti i tabu vengono infranti, e la via porta a contatto con la morte, il sangue, la putrefazione. Invita a riconoscerle dentro di sé per poter stare davanti a Kali in piedi, a testa alta, sapendo forse infine di essere scintilla di quella stessa energia. 

Nella bhakti, il devoto si pone di fronte a Kali come un bambino indifeso, alla sua totale mercè. Si rivolge a Lei come alla Madre, che riconosce tale in ogni suo volto, anche quello terribile. Canta le sue lodi e rivolge a Lei la sua adorazione. Scorre amore, fiducia, anche nella possibilità di una distruzione, che il bhakta accoglie come un tornare a Lei. 

La disponibilità al sacrificio, la totale accettazione della Sua potenza di morte hanno come risultato che le polarità Dea della Vita - Dea della Morte siano in equilibrio, ed esse vengano comprese come una. 

Alla corrente bhakti, che talvolta assorbe in sé alcuni aspetti del tantrismo, sono appartenuti molti maestri degli ultimi due secoli, fra cui Ramprasad, Ramakrishna e Vivekananda. 

Può la misericordia essere trovata nel cuore di Colei che è nata dalla pietra?
Non fu Lei che senza pietà calpestò il petto del suo signore? 
Gli uomini ti chiamano Misericordiosa, ma non v’è traccia di misericordia in Te, Madre. 
Hai tagliato le teste ai figli degli altri, e ne hai fatto la collana che porti al collo. 
Non importa quanto io ti chiami “Madre, Madre”. Mi senti, ma non mi ascolterai. 

Ramakrishna


Note:

(1) Devi, dalla radice sanscrita dev, che sta per 'luminoso', da cui i Deva, gli dei e le Devi, le dee. La radice dev è la stessa da cui derivano nella nostra lingua i termini diva, divino, etc.
(2) la Murti è una manifestazione della Dea o del Dio: attraverso la materia, sia essa pietra, legno, metallo o altro, è la Dea o il Dio stesso a farsi presente. Le immagini delle diverse divinità si trasformano nel mondo indù in murti attraverso complessi e antichssimi rituali, in cui la Dea o il Dio vengono via via invitati - chiamati, evocati - all'epifania. 
(3) Nei templi della triplice Dea, comunque, Kali si manifesta nella sua forma più gentile, associata alle armi e alla battaglia, ma senza lingua fuori e con una adorazione che esclude i sacrifici animali in favore di offerte di frutta e fiori, come vuole la tradizione vaishnava, in cui l’aspetto dominante di Devi è quello dato da Lakshmi