venerdì 26 agosto 2022

Sogyal Rinpoche: Il processo del morire.

Bardo Tödröl - Case in Point 17


Il processo del morire

Nelle parole di Padmasambhava: “Due sono le cause della morte degli esseri umani: la morte prematura e la morte dovuta all’esaurimento della durata della vita. La morte prematura può essere evitata con i metodi per l’allungamento della vita. Se invece la causa è l’esaurimento della naturale durata della vita, siete come una lampada in cui è finito l’olio. Non c’è modo per evitare la morte ingannandola: dovete prepararvi ad andare.

Vediamo meglio queste due cause: l’esaurimento della durata della vita e un incidente che causa una fine prematura.

ESAURIMENTO DELLA DURATA DELLA VITA

Il karma determina la durata della vita che, una volta esaurita, è assai difficile prolungare. Ma una persona esperta nelle pratiche più avanzate dello yoga può anche oltrepassare questo limite e allungare realmente la propria esistenza. Tradizionalmente si dice che alcuni maestri ricevono dai propri insegnanti l’indicazione della durata della loro vita.

Ma sanno che, grazie al potere della pratica, alla purezza della connessione con gli studenti e alla pratica di questi ultimi, e grazie ai benefici prodotti con la loro opera, possono vivere anche più a lungo. Il mio maestro rivelò a Dilgo Khyentse Rinpoche che la durata della sua vita era di ottant’anni: il resto dipendeva dalla sua pratica. Visse ottantadue anni. A Dudjom Rinpoche vennero profetizzati settantatré anni, ma anch’egli morì a ottantadue.

La morte prematura

È detto che se siamo minacciati soltanto da un pericolo di morte prematura, possiamo allontanarlo facilmente, a patto di conoscerlo in anticipo. Negli insegnamenti del bardo e nei testi di medicina tibetana sono descritti i segni che preannunciano una morte imminente. Alcuni la segnalano mesi o anche anni prima, altri pochi giorni o settimane. 

Possono essere segni che appaiono sul corpo, sogni particolari e speciali premonizioni fondate sull’esame dell’ombra. Purtroppo solo persone molto esperte li sanno interpretare, avvertire del pericolo di morte e consigliare di ricorrere a pratiche di lunga vita prima che il pericolo diventi reale.

Qualunque pratica spirituale, in virtù dei ‘meriti’ che produce, contribuisce ad allungare la vita e fortifica la salute. Un buon praticante, mediante l’ispirazione e il potere della pratica, giunge a sentirsi psicologicamente, emotivamente e spiritualmente integro, e ciò rappresenta la massima sorgente di guarigione e la più sicura protezione dalle malattie.

Esistono comunque ‘pratiche di lunga vita’ che raccolgono l’energia vitale dagli elementi e dall’universo attraverso il potere della meditazione e della visualizzazione. Se la nostra energia è debole e non equilibrata, le pratiche per la longevità la rafforzano ed equilibrano, con il risultato di allungare la durata della vita. Allo stesso scopo servono anche altre pratiche, tra cui la consuetudine di comprare e liberare gli animali destinati al macello per salvargli la vita.

È una pratica popolare in Tibet e nella regione himalayana dove si va, ad esempio, al mercato del pesce per comprare dei pesci e gettarli di nuovo in acqua. Si basa sulla logica karmica secondo cui uccidere o fare del male agli esseri abbreviala propria vita, mentre proteggerli la allunga.

Il bardo doloroso del morire

Il bardo del morire si colloca tra il momento in cui contraiamo una malattia terminale o una condizione che porta alla morte e la cessazione del ‘respiro interno’. È detto ‘doloroso’ perché, se non siamo preparati a ciò che accadrà al momento della morte, potremo sperimentare una sofferenza terribile.

Il processo del morire a volte è doloroso anche per un praticante, in quanto perdere il corpo e questa vita potrebbe essere un’esperienza molto difficile. Comunque, se abbiamo ricevuto insegnamenti sul significato della morte, conosciamo l’immensa speranza che vi sarà quando sorgerà la Luminosità fondamentale al momento di morire. Purtroppo non abbiamo la certezza di poterla riconoscere, e per questo è essenziale familiarizzarci con la natura della mente praticando mentre siamo in vita.

Disgraziatamente non tutti hanno la fortuna di incontrare gli insegnamenti, restando ignoranti del significato della morte. Capire di colpo che la nostra vita, la nostra realtà sta scomparendo è un’esperienza terrificante. Non sappiamo cosa ci sta accadendo, dove andremo. Niente, nelle nostre precedenti esperienze, ci ha preparati a questo momento.

Come sa chi si occupa di assistenza ai morenti, la sofferenza fisica sarà moltiplicata dall’ansia. Se non ci siamo presi cura della nostra vita, se abbiamo commesso azioni dannose e negative, proveremo rimpianto, colpa e paura.

Ma anche una modesta familiarità con gli insegnamenti dei bardo ci darà un po’ di rassicurazione, ispirazione e speranza, anche se non li abbiamo mai praticati né realizzati. Per i buoni praticanti, che sanno esattamente cosa accadrà, non solo la morte sarà meno dolorosa e terrificante ma rappresenterà ilmomento che aspettavano con piacere.

Lo affronteranno con equanimità e persino con gioia. Dudjom Rinpoche raccontava la morte di uno yogi realizzato. Era malato da qualche giorno, quando il medico venne a tastargli il polso. Il medico capì che stava per morire, ma non sapeva se dirglielo. Si rabbuiò in viso e prese un’espressione solenne. Con entusiasmo infantile lo yogi insistette per conoscere il peggio.

Il medico si decise a dirgli la verità, e parlò come per consolarlo. “Preparati, il momento è giunto”, disse con gravità. Con sua meraviglia lo yogi s’illuminò, eccitato come un bambino sul punto di aprire il regalo di Natale. “Davvero?”, chiese. “Che dolci parole, che meravigliosa notizia!”. Fissò lo sguardo nel cielo e morì prontamente in stato di profonda meditazione.

In Tibet era risaputo che morire di una morte spettacolare era il modo per diventare famosi, se non si era riusciti a diventarlo in vita. Ho sentito parlare di un uomo risoluto a morire miracolosamente e in grande stile.

Sapendo che spesso i maestri annunciano la propria morte e convocano i discepoli, fece lo stesso invitando gli amici a una festa attorno al capezzale. Sedette in posizione di meditazione in attesa della morte, ma non accadde nulla. Trascorse alcune ore, gli ospiti si stancarono di aspettare e decisero di incominciare a mangiare. Riempirono i piatti e, rivolti al futuro cadavere, dissero: “Sta morendo, non ha bisogno di mangiare”. Il tempo passava, la morte non arrivava e il ‘moribondo’ incominciò a provare appetito.

Temendo che non sarebbe rimasto nulla, scese dal letto di morte e si unì al festino. La grande rappresentazione si era risolta in un fiasco umiliante.

Praticanti esperti possono bastare a se stessi al momento della morte, ma i praticanti comuni hanno bisogno della presenza del maestro o, se non è possibile, di amici spirituali che gli ricordino l’essenza della pratica e li ispirino a rimanere nella Visione.

Qualunque sia il nostro livello, è bene avere familiarità con il processo del morire. Se ne conosciamo gli stadi, sapremo che le strane e insolite esperienze che proveremo fanno parte di un processo naturale. L’inizio di questo processo segnala l’arrivo della morte, e ci stimola a stare in guardia Per un praticante ogni stadio è un segnale che ci dice ciò che sta accadendo e ci ricorda quale pratica applicare nei vari punti.

Il processo del morire

Il processo del morire è spiegato dettagliatamente in tutti gli insegnamenti tibetani. Consiste essenzialmente in due fasi di dissoluzione: una esterna, con la dissoluzione dei sensi e degli elementi; e una interna, con la dissoluzione degli stati grossolani e sottili del pensiero e delle emozioni. Ma prima occorre conoscere le componenti del corpo e della mente che si disgregano alla morte.

Tutta la nostra esistenza è prodotta dagli elementi: terra, acqua, fuoco, aria e spazio. Essi formano il corpo e lo mantengono in vita. Quando si dissolvono, moriamo. Abbiamo familiarità con gli elementi esterni, che condizionano il nostro modo di vita, ma la cosa più interessante è che gli elementi esterni interagiscono con gli elementi interni del corpo fisico.

Le potenzialità e le caratteristiche dei cinque elementi sono presenti anche nella mente. La capacità della mente di fare da base per tutte le esperienze è la qualità della terra; la sua continuità e adattabilità è l’acqua; la chiarezza e la capacità di percepire è il fuoco; il suo movimento continuo è l’aria; la sua vacuità illimitata è lo spazio.

Per quanto riguarda la formazione del corpo fisico, un antico testo di medicina tibetana dice: “Lacoscienza dei sensi nasce dalla propria mente. La carne, le ossa, l’organo dell’odorato e gli odori si vengono a formare dall’elemento terra. Il sangue, l’organo del gusto, i gusti e l’umidità si vengono a formare dall’elemento acqua.

Il calore, il colorito chiaro, l’organo della vista e le forme si vengono a formare dall’elemento fuoco. Il fiato, l’organo del tatto, le sensazioni tattili si vengono a formare dall’elemento aria. Le cavità del corpo l’organo dell’udito e i suoni si vengono a formare dall’elementospazio”.

“In breve” scrive Kalu Rinpoche, “è dalla mente, che raggruppa le cinque qualità elementari, che si sviluppa il corpo. Anche il corpo fisico è permeato di queste qualità, ed è a causa del composto mente-corpo che percepiamo il mondo esterno, il quale a sua volta è composto delle cinque qualità elementari della terra, acqua, fuoco, vento e spazio”.

Il Tantrismo tibetano offre una descrizione del corpo decisamente diversa a quella cui siamo abituati. Ci presenta un sistema psicofisico composto di una rete dinamica di canali sottili, ‘venti’ o arie interne, ed essenze (rispettivamente nadi, prana e bindu in sanscrito; tsa, lung e tiklé in tibetano). Troviamo qualcosa di simile nei meridiani e nell’energia chiamata ch’i nella medicina e nell’agopuntura cinese.

I maestri paragonano il corpo umano a una città, i canali alle strade, i venti a un cavallo e la mente al cavaliere. I canali sottili sono 72.000, di cui tre principali: il canale centrale, che sale parallelo alla colonna vertebrale, e due canali laterali che si avvolgono attorno a quello centrale formando una serie di ‘nodi’. Lungo il canale centrale sono situate delle ‘ruote dei canali’, i chakra o centri di energia, donde i canali si aprono come le stecche di un ombrello.

Nei canali scorrono i venti, o arie interne. Ci sono cinque venti radice o principali e cinque rami o venti secondari. Ogni vento principale è collegato a un elemento ed è responsabile del funzionamento del corpo, mentre i venti secondari permettono il funzionamento dei sensi. I venti che scorrono nei canali diversi da quello centrale sono considerati impuri e attivano gli schemi mentali negativi e dualistici. I venti del canale centrale sono invece detti ‘venti di saggezza’.

Le ‘essenze’ sono contenute nei canali, e sono di colore rosso o bianco. La sede principale dell’essenza bianca è la corona della testa, e dell’essenza rossa è l’ombelico.

Nelle pratiche yogiche avanzate, lo yogi visualizza con estrema precisione tutto il sistema. Facendo entrare e dissolvendo i venti nel canale centrale con il potere della meditazione, un praticante può ottenere la diretta realizzazione della luminosità della natura della mente, la ‘Chiara luce’. Ciò è reso possibile dal fatto che la coscienza cavalca il vento.

Quindi, dirigendo la mente in un punto preciso del corpo, il praticante vi fa confluire i venti. Si imita insomma ciò che avviene alla morte: i nodi dei canali si sciolgono, i venti si riuniscono nel canale centrale e viene sperimentata una momentanea illuminazione.

Dilgo Khyentse Rinpoche racconta la storia di un maestro di ritiri di un monastero nel Kham, amico dei suoi fratelli maggiori, che aveva portato a perfezione lo yoga dei canali, dei venti e delle essenze. Un giorno disse al suo attendente: “Tra poco morirò. Cerca nel calendario una data favorevole”. Benché turbato, l’attendente non osò contraddire il maestro.

Esaminò il calendario e vide che il lunedì successivo le stelle erano favorevoli. “Lunedì è tra tre giorni”, disse il maestro. “Penso di potercela fare”. Quando l’attendente ritornò lo trovò seduto nella posizione di meditazione, così immobile che sembrava già morto. Il respiro era cessato, ma il polso continuava a essere appena percepibile. L’attendente decise di non intervenire e di aspettare. A mezzogiorno si udì il suono di una profonda espirazione. Il maestro ritornò alla normalità, parlò con lui con umore gioioso e chiese il pranzo, che mangiò con piacere. Aveva sospeso

il respiro per tutta la mattina trascorsa in meditazione. Il motivo era che la durata della vita è calcolabile in un numero preciso di respiri, e il maestro, sapendo la morte vicina, trattenne il respiro perché il numero stabilito non si esaurisse prima del giorno favorevole. Dopo mangiato, inspirò profondamente e trattenne il respiro fino a sera. Fece lo stesso il giorno dopo e quello dopo ancora. Arrivato il lunedì, chiese: “È oggi il giorno favorevole?”. “Sì”, rispose l’attendente. “Bene, oggi me ne andrò”. Quello stesso giorno, senza apparente malattia o difficoltà, il maestro morì durante lameditazione.

Avendo un corpo fisico, abbiamo anche quelli che sono conosciuti come i cinque skandha, gli aggregati che compongono tutta la nostra esistenza fisica e mentale. Gli skandha sono ciò che costituisce l’esperienza, il sostegno per l’attaccamento dell’io, la base per la sofferenza del samsara. Essi sono: la forma, la sensazione, la percezione, l’intelletto e la coscienza.

Possono anche essere tradotti con: forma, sensazione, riconoscimento, formazione e coscienza. “Gli skandha rappresentano la struttura costante della psicologia umana, come pure il suo modello di evoluzione e il modello di evoluzione del mondo. Hanno inoltre a che fare con blocchi di vario tipo: spirituali, materiali ed emotivi”. La psicologia buddhista li esamina molto dettagliatamente.

Con la morte, tutti questi componenti si dissolvono. Morire è un processo complesso e interrelato, in cui elementi materiali e mentali reciprocamente interconnessi si disgregano simultaneamente. Con la dissoluzione dei venti vengono meno le funzioni corporee e sensoriali. I centri di energia collassano e, privati dei loro venti di sostegno, gli elementi si dissolvono in ordine che va dal grossolano al sottile. Il risultato è che ogni stadio della dissoluzione ha precisi effetti fisici e psicologici sul morente, che si riflettono in segni corporei esterni e in esperienze interne.

A volte mi chiedono: siamo in grado, noi persone comuni, di rilevare i segni esterni sul corpo di un amico o un parente che muore? I miei studenti che si dedicano all’assistenza ai morenti mi hanno riferito di aver potuto osservare negli ospedali i segni che descriverò tra breve. Comunque, gli stadi della dissoluzione esterna possono essere estremamente rapidi e non così appariscenti, e nel mondo moderno in genere chi sta vicino a un morente non è abituato a cercarli.

Gli infermieri di un ospedale affollato si basano spesso sulla propria intuizione e su molti altri fattori quali il comportamento dei medici o dei familiari, o lo stato mentale del malato. Osservano anche, ma non in modo sistematico, alcuni segni fisici: un cambiamento di colore nell’incarnato, un certo odore molto spesso avvertibile, sensibili cambiamenti nella respirazione. Purtroppo i farmaci moderni possono mascherare i segni indicati dagli insegnamenti tibetani e, abbastanza stranamente, la ricerca occidentale non si occupa di questo importante aspetto.

Ciò non dimostra forse la poca comprensione e lo scarso rispetto per il processo del morire?

La posizione per morire

Tradizionalmente si raccomanda di stare sdraiati sul fianco destro nella posizione del ‘leone dormiente’, la stessa nella quale morì il Buddha. La mano sinistra è posata sulla coscia sinistra, la mano destra sorregge il mento e chiude la narice destra. Le gambe sono distese, ma leggermente ripiegate. Sul lato destro del corpo si trovano infatti i canali sottili che stimolano il ‘vento karmico’ dell’illusione.

La pressione a cui vengono sottoposti giacendo nella posizione del leone dormiente e la chiusura della narice destra, blocca i canali e facilita il riconoscimento della luminosità che sorge allamorte.

Facilita inoltre l’uscita della coscienza dall’apertura della calotta cranica, mentre tutte le altre aperture sono chiuse.

La dissoluzione esterna: i sensi e gli elementi

La dissoluzione esterna è la dissoluzione dei sensi e degli elementi. Come la sperimentiamo esattamente al momento della morte?

La prima cosa di cui essere consapevoli è la cessazione del funzionamento sensoriale. Se le persone al nostro capezzale stanno parlando, verrà il momento in cui udremo le voci ma non riconosceremo più le parole. Questo indica che la coscienza uditiva ha smesso di funzionare.

Se guardiamo un oggetto di fronte a noi e ne vediamo i contorni ma non i particolari, significa che ha smesso di funzionare la coscienza visiva. Lo stesso accade con l’odorato, il gusto e il tatto. L’indebolimento dell’esperienza delle funzioni sensoriali segnala la prima fase del processo di dissoluzione.

Le successive quattro fasi del processo di dissoluzione degli elementi avvengono come segue.

Terra

Il corpo inizia a perdere vigore, le forze vengono meno, non riusciamo ad alzarci, stare eretti o tenere un oggetto in mano. Diventa difficile sostenere la testa. Abbiamo la sensazione di cadere, di sprofondare sotto terra, o di essere schiacciati da un peso enorme. Alcuni testi tradizionali usano l’immagine di essere schiacciati sotto una montagna. Ci sentiamo pesanti e a disagio in qualunque posizione.

Forse chiederemo di essere sollevati, di mettere più cuscini per sorreggerci o di togliere le coperte. L’incarnato perde il colore e diventa pallido. Le guance si infossano e sui denti appaiono macchie scure. Aprire e chiudere gli occhi diventa sempre più difficile. L’aggregato della forma si sta dissolvendo, e diventiamo deboli e fragili. La mente, prima agitata e delirante, sprofonda nel torpore.

Questi segni indicano che l’elemento terra si sta dissolvendo nell’elemento acqua. Ciò significa che ilvento connesso con l’elemento terra perde la sua capacità di fornire una base alla coscienza, e prende il sopravvento la qualità dell’elemento acqua. Il ‘segno segreto’ che appare nella mente è la visione di un miraggio scintillante.

Acqua

Incominciamo a perdere il controllo dei fluidi corporei. Il naso cola, la bocca perde bava. Gli occhi possono lacrimare e possono manifestarsi fenomeni di incontinenza. Non riusciamo a muovere la lingua. Gli occhi si fanno asciutti. Le labbra sono contratte e non ricevono più l’afflusso del sangue, labocca e la gola sono impastate e viscose. Le narici si infossano.

Incominciamo a provare sete. Siamo presi da spasimi e tremiti. L’odore della morte inizia ad aleggiare attorno a noi. Mentre l’aggregato della sensazione si dissolve, le sensazioni fisiche si affievoliscono oscillando tra dolore e piacere, caldo e freddo. La mente si annebbia; è frustrata, irritabile e nervosa. Alcuni testi lo paragonano all’inabissarci nell’oceano o a essere trascinati via da un fiume in piena.

L’elemento acqua si dissolve nel fuoco, che prende il sopravvento nel fare da base alla coscienza. Il ‘segno segreto’ è la visione di una foschia con turbinanti fili di fumo.

Fuoco

La bocca e il naso sono completamente prosciugati. Il calore corporeo inizia a dileguare, di solito abbandonando i piedi e le mani in direzione del cuore Dalla corona della testa può uscire un vapore caldo. Il respiro è avvertito freddo nella bocca e nel naso.

Non riusciamo più a bere né a digerire L’aggregato della percezione si dissolve, e la mente oscilla tra lucidità e confusione. Non riusciamo a ricordare i nomi dei nostri cari e degli amici, e ben presto non li riconosciamo più. Percepire l’ambiente circostante è sempre più difficile, perché suoni e immagini diventano confusi.

Scrive Kalu Rinpoche: “L’esperienza interiore del morente è di essere consumato in un fuoco, di trovarsi dentro una vampa ardente, o di percepire il mondo intero distrutto in un olocausto di fuoco”.

L’elemento fuoco si dissolve in aria. È sempre meno in grado di fornire una base alla coscienza, mentre diviene sempre più evidente la qualità dell’elemento aria. Il ‘segno segreto’ è costituito da scintille rosso vivido che danzano come lucciole sopra le fiamme.

Aria

Respirare diventa sempre più difficoltoso. Sembra che l’aria ci esca dalla gola. Ansimiamo e boccheggiamo. L’inspirazione si accorcia e diventa faticosa, mentre l’espirazione si allunga. Gli occhi si rovesciano verso l’alto, e non riusciamo a muoverci. L’aggregato dell’intelletto si dissolve, la mente è disorientata e non percepisce più il mondo esterno. Tutto si fa indistinto.

Anche l’ultima sensazione di contatto con l’ambiente si dissolve Incominciano le allucinazioni e le visioni. Se in vita abbiamo accumulato molta negatività, ci appariranno forme terrificanti. Rivediamo i momenti più terribili e dolorosi della nostra vita, e possiamo cercare di gridare per il terrore. Se invece abbiamo vissuto con amorevolezza e compassione, possiamo sperimentare visioni beatifiche e celestiali, e ‘incontra re’ gli amici più cari o esseri illuminati. Per chi ha vissuto una buona vita, nella morte non c’è paura ma pace.

Scrive Kalu Rinpoche: “L’esperienza interiore del morente è un vento impetuoso che spazza via il mondo intero, compresi se stessi, un’incredibile tempesta di vento che distrugge l’universo”.

L’elemento aria si dissolve nella coscienza. I venti si riuniscono nel ‘vento che sorregge la vita’, che ha sede nel cuore. La ‘visione segreta’ è la visione di una torcia o lampada fiammeggiante a luminescenza rossa.

L’inspirazione si fa sempre più superficiale, e l’espirazione sempre più lunga. Il sangue si assorbe tutto nel ‘canale della vita’, nel centro del cuore. Tre gocce di sangue si raccolgono, una dopo l’altra, e causano tre lunghi respiri finali. Dopo di che improvvisamente il respiro cessa.

Solo un minimo residuo di calore resta nel cuore. Le funzioni vitali sono sospese: è la ‘morte clinica’. Ma i maestri tibetani affermano che è ancora in atto un processo interno che va dall’ultimo respiro alla cessazione del ‘respiro interno’ e che dura ‘il tempo di prendere un pasto’, circa venti minuti. Ma nulla è certo, e il processo può concludersi molto più in fretta.

La dissoluzione interna

Nella dissoluzione interna, in cui si dissolvono i pensieri e le emozioni grossolane e sottili, si sperimentano quattro livelli di coscienza sempre più sottili.

Il processo della morte rispecchia, al rovescio, quello del concepimento. All’unione dello spermatozoo e dell’ovulo dei genitori, la coscienza vi si insedia spinta dal karma. Durante la formazione del feto, l’essenza patema, un nucleo descritto come ‘bianco e beato’, va a disporsi nel cakra della corona del capo, all’imboccatura superiore del canale centrale. L’essenza materna, un nucleo ‘rosso e caldo’, si dispone nel cakra situato quattro dita al di sotto dell’ombelico. Proprio da queste due essenze si sviluppano le fasi successive del processo di dissoluzione.

Con la dissoluzione del vento che la mantiene al suo posto, la bianca essenza ereditata dal padre scende lungo il canale centrale in direzione del cuore. Il segno esterno è una percezione di ‘biancore’, come un ‘cielo terso illuminato dalla luna piena’. Il segno interno è l’estrema lucidità della coscienza, e il cessare di tutti gli stati mentali derivati dalla rabbia, in tutto trentatré. Questa fase è chiamata ‘Apparizione’.

A questo punto, con la dissoluzione del vento che la mantiene al suo posto, l’essenza materna risale lungo il canale centrale. Il segno esterno è una percezione di ‘rosso’, come il sole che sfolgora in un cielo terso. Il segno interno è una grande beatitudine, poiché si dissolvono tutti gli stati mentali derivati dal desiderio, in tutto quaranta. Questa fase è chiamata ‘Incremento’.

Nell’incontro delle essenze rossa e bianca nel cuore è racchiusa la coscienza. Tulku Urgyen Rinpoche, un importante maestro che risiede in Nepal, dice: “L’esperienza è simile all’incontro tra il cielo e la terra”. Il segno esterno è una percezione di ‘nerezza’, come un cielo vuoto avvolto in una densa tenebra. Il segno interno è uno stato mentale privo di pensieri. I sette stati mentali derivati dall’ignoranza e dall’illusione si dissolvono. Questa fase è chiamata ‘Completo conseguimento’.

A questo punto la coscienza si riprende leggermente e sorge la Luminosità fondamentale, simile a un cielo immacolato privo di nubi, nebbia o foschia, chiamato a volte la ‘mente di chiara luce della morte’. Dice Sua Santità il Dalai Lama: “Questa coscienza è la mente più interna e più sottile. È chiamata la natura di buddha, l’origine stessa della coscienza. Il continuum di questa mente perdura anche nellabuddhità”.

La morte dei veleni

In conclusione, che cosa accade con la morte? È come ritornare allo stato originario: tutto si dissolve, il corpo e la mente si disgregano. Muoiono anche i tre ‘veleni’ (ira, desiderio e ignoranza), sospendendo tutte le emozioni negative radice del samsara e creando un momentaneo intervallo.

E dove ci conduce questo processo? Alla base primordiale della natura della mente, in tutta la sua purezza e semplicità originaria. Tutti gli oscuramenti sono rimossi, e la nostra vera natura si rivela.

Un’esperienza simile si può avere, come ho spiegato nel capitolo successivo, quando, in meditazione, proviamo quella beatitudine, quella chiarezza e assenza di pensieri che segnalano rispettivamente che desiderio, ira e ignoranza sono momentaneamente dissolti.

Morendo l’ira, il desiderio e l’ignoranza, diventiamo sempre più puri. Alcuni maestri spiegano che, per un praticante Dzogchen, le fasi della Apparizione, dell’Incremento e del Completo conseguimento sono segni del graduale manifestarsi del Rigpa. A mano a mano che muore ciò che oscura la mente, comincia ad apparire e a rafforzarsi la chiarezza del Rigpa. L’intero processo diventa un graduale sviluppo dello stato di luminosità, sviluppo collegato al riconoscimento da parte del praticante dellachiarezza del Rigpa.

Il Tantra ha sviluppato un’altra modalità di pratica durante il processo di dissoluzione. Il praticante tantrico, mediante lo yoga dei canali, dei venti e delle essenze, si prepara durante la vita al processo della morte simulando i cambiamenti di coscienza che si accompagnano alla dissoluzione e checulminano nell’esperienza della Luminosità, o ‘Chiara luce’.

Il praticante cerca di mantenere lacoscienza di questi cambiamenti anche mentre si addormenta. È infatti importante ricordare chequesta sequenza di stati di coscienza sempre più profondi non si presenta solo al momento della morte ma anche, benché ignorata, nelle fasi dell’addormentamento e ogni volta che passiamo da stati di coscienza più grossolani a stati più sottili. Alcuni maestri hanno dimostrato che è in atto anche nei processi psicologici del normale stato di veglia.

La descrizione particolareggiata del processo di dissoluzione può sembrare complicata ma, se sviluppiamo familiarità con essa, sarà di immenso beneficio. Ci sono pratiche specifiche per ogni fase del processo. Ad esempio, si può trasformare l’intero processo del morire in una pratica del Guru Yoga. A ogni stadio della dissoluzione esterna, sviluppate la devozione e pregate il maestro, visualizzandolo nei vari centri di energia.

Quando si dissolve l’elemento terra e appare il segno del miraggio, visualizzate il maestro nel centro del cuore. Quando si dissolve l’elemento acqua e appare il segno del fumo, lo visualizzate nel centro dell’ombelico. Quando si dissolve l’elemento fuoco e appare il segno delle lucciole, lo visualizzate nel centro della fronte. Quando si dissolve l’elemento aria e appare il segno della torcia, vi concentrate totalmente sul trasferimento della vostra coscienza nella sua mente di saggezza.

Si conoscono molte descrizioni degli stadi del morire, che differiscono nei particolari e nell’ordine in cui si presentano. Qui ho dato una descrizione generica, ma vi possono essere differenze a seconda della struttura individuale. Ricordo che durante la morte di Samten, l’attendente del mio maestro, la sequenza era molto precisa.

Bisogna comunque tenere conto delle variazioni provocate da una malattia o dalle condizioni dei canali, dei venti e delle essenze. I maestri dicono che tutti gli esseri viventi, sino ai più minuscoli insetti, attraversano queste fasi. Lo stesso in caso di morte violenta e improvvisa, anche se con tempi molto più veloci.

L’esperienza mi ha dimostrato che il modo migliore per comprendere ciò che accade durante il processo del morire, con la sua dissoluzione esterna e interna, è lo sviluppo graduale e il sorgere di stati di coscienza sempre più sottili. Ciascuno emerge con la progressiva dissoluzione dei costituenti fisici e mentali, mentre il processo si muove gradualmente verso il rivelarsi della coscienza più sottile di tutte: la Luminosità fondamentale o Chiara luce.

La base.

Si sentono spesso affermazioni quali: “La morte è il momento della verità”, o “La morte è il momento in cui siamo finalmente a faccia a faccia con noi stessi”. Abbiamo già visto che nelle esperienze di pre-morte viene spesso riferito di rivedere tutta la vita scorrere davanti agli occhi e di sentirsi rivolgere domande quali: “Come hai usato la vita? Che cos’hai fatto per gli altri?”.

Tutto indica un unico fatto: al momento della morte non possiamo fuggire da chi o da ciò che siamo davvero. Ci piaccia o no, la nostra vera natura si rivela. Ma è essenziale sapere che gli aspetti del nostro essere che si rivelano al momento della morte sono due: la nostra natura assoluta e la nostra natura relativa, cioè come siamo, e siamo stati, in questa vita.

Come abbiamo visto, con la morte tutti i costituenti del corpo e della mente si separano e si disgregano. Mentre il corpo muore, i sensi e gli elementi sottili si dissolvono, e in seguito muore la mente ordinaria assieme a tutte le sue emozioni negative dell’ira, del desiderio e dell’ignoranza. Alla fine non resta più nulla che possa oscurare la nostra vera natura, perché tutto ciò che in vita nascondeva la mente illuminata è caduto. Ciò che si rivela è la base primordiale della nostra natura assoluta, simile a un cielo limpido e senza nubi.

È chiamato il sorgere della Luminosità fondamentale, o ‘Chiara luce’, in cui la coscienza stessa si dissolve nello spazio della verità che abbraccia tutto. Il Libro tibetano dei morti descrive così questomomento: La natura di tutte le cose è aperta, vuota e nuda come il cielo, luminosa vacuità senza centro né circonferenza: il puro, nudo Rigpa sorge.

La luminosità è così descritta da Padmasambhava:

La Chiara luce, autoprodotta e sin dall’inizio priva di nascita è figlia del Rigpa, anch’esso non generato: che meraviglia! Questa saggezza autoriginata non è stata creata da nessuno: che meraviglia!

Mai ha conosciuto la nascita e non ha in sé le cause della morte: che meraviglia! Benché chiaramente visibile, nessuno la vede: che meraviglia!

Benché vaghi nel samsara, non ne subisce alcun danno: che meraviglia! Benché veda la buddhità, non ne ricava alcun beneficio: che meraviglia! Benché esista in tutti in ogni luogo, non è riconosciuta: che meraviglia!

Eppure tu continui a sperare di ottenere altrove un frutto diverso da questo: che meraviglia! Benché sia la cosa più essenzialmente ma, la cerchi fuori di te: che meraviglia!

Perché questo stato viene chiamato luminosità o Chiara luce? I maestri lo spiegano in modi diversi.Alcuni dicono che esprime la chiarezza radiosa della natura della mente, la sua totale libertà da macchie e oscurità: “libera dall’oscurità del non sapere e dotata della capacità di conoscere”.

Un altro maestro descrive la luminosità, o Chiara luce, come uno “stato di minima distrazione”, perché tutti gli elementi, i sensi e gli oggetti sensoriali si sono dissolti. Non bisogna confonderla con la luce fisica che conosciamo, né con le apparizioni luminose che si presenteranno nel bardo successivo. La luminosità che splende al momento della morte è la naturale radiosità della saggezza del nostro Rigpa, la “natura incomposta presente tanto nel samsara che nel nirvana”.

Il sorgere della Luminosità fondamentale, o Chiara luce, al momento della morte è la grande occasione per liberarci. Bisogna però conoscere i termini in cui questa possibilità ci è data. Gli studiosi contemporanei del fenomeno della morte ne svalutano spesso la complessità. Avendo letto e interpretato il Libro tibetano dei morti senza le indispensabili istruzioni orali e senza la pratica che ne svela il significato sacro, semplificano troppo e saltano a conclusioni affrettate.

Una di queste è che la comparsa della Luminosità fondamentale è l’illuminazione. Tutti vorremmo associare la morte al paradiso o all’illuminazione, ma più importante dei nostri vani desideri è sapere che il momento della morte offre una reale possibilità di liberazione solo se siamo stati già introdotti alla natura della nostra mente, al nostro Rigpa, e solo se abbiamo reso stabile e salda questa introduzione con la meditazione integrandola nella nostra vita.

Anche se la Luminosità fondamentale si manifesta spontaneamente a tutti, la maggior parte di noi è impreparata alla sua nuda immensità, alla vasta e sottile profondità della sua assoluta semplicità. La maggior parte di noi non ha i mezzi per riconoscerla, perché in vita non abbiamo sviluppato la familiarità necessaria. Di conseguenza tendiamo a reagire istintivamente sulla scorta delle nostre paure e abitudini, secondo i vecchi riflessi condizionati.

Sebbene le emozioni negative debbano dissolversi perché la luminosità possa manifestarsi, restano le abitudini contratte nel corso delle vite e celate nelle profondità della mente ordinaria. Anche se con la morte muore anche la nostra confusione, a causa della paura e dell’ignoranza, invece di aprirci e di abbandonarci alla luminosità, ci ritraiamo e ci aggrappiamo istintivamente ai vecchi attaccamenti.

È questo che ci impedisce di utilizzare veramente la potenzialità del momento della morte come occasione di liberazione. Dice Padmasambhava: “Tutti gli esseri sono vissuti, sono morti e sono rinati un numero incalcolabile di volte. Ogni volta hanno sperimentato l’indescrivibile Chiara luce. Ma, oscurati dalle tenebre dell’ignoranza, continuano a vagare eternamente nell’infinito samsara”.

La base della mente ordinaria

Tutte le tendenze abituali, che sono il prodotto del karma negativo e scaturiscono dalle tenebre dell’ignoranza, sono immagazzinate nella base della mente ordinaria. Mi sono chiesto spesso quale sia l’esempio migliore per descriverla. Potremmo paragonarla a una boccia di vetro trasparente, a una sottile membrana elastica, una barriera invisibile o un velo che nasconde la totalità della nostra mente, ma forse l’immagine migliore è quella di una porta a vetri. Immaginate di sedere davanti alla porta a vetri che dà sul giardino e di guardare fuori attraverso il vetro.

Tra voi e il cielo sembra non esservi niente, perché il vetro non si vede, ma se vi alzate e cercate di passarci attraverso ci sbatterete il naso. Basta toccare il vetro per accorgervi immediatamente che c’è qualcosa su cui le vostre dita lasciano un’impronta, che c’è qualcosa tra voi e lo spazio esterno.

Nello stesso modo, la base della mente ordinaria ci impedisce di uscire all’aperto nella natura simile al cielo della mente, anche se possiamo averne dei barlumi. Come ho già detto, i maestri mettono in guardia i meditanti dal pericolo di confondere l’esperienza della base della mente ordinaria con la vera natura della mente stessa. Anche raggiungendo uno stato di grande calma e di pace, il praticante può di fatto rimanere nella base della mente ordinaria.

È la stessa differenza che corre tra il guardare il cielo attraverso una cupola di vetro e trovarci fuori all’aperto. Per sperimentare l’aria fresca del Rigpa dobbiamo realmente varcare il limite della base della mente ordinaria.

Lo scopo della pratica spirituale, e la vera preparazione al momento della morte, è dunque la purificazione di questa sottile barriera, per indebolirla a poco a poco e finalmente infrangerla. Una volta infranta, niente più si frappone tra voi e lo stato di onniscienza.

L’introduzione alla natura della mente, fatta dal maestro, penetra fino alla base della mente ordinaria, dal momento che la mente illuminata si rivela esplicitamente attraverso questa dissoluzione della mente concettuale. Così, ogni volta che dimoriamo nella natura della mente, la base della mente ordinaria si indebolisce.

La durata del nostro permanere nella natura della mente dipende unicamente dalla stabilità della pratica. Purtroppo ‘le vecchie abitudini sono dure a morire’, e la base della mente ordinaria riprende il sopravvento. La mente è come un alcolista: può sbarazzarsi della sua dipendenza per brevi periodi ma, davanti a una tentazione o in momenti di depressione, ci ricade.

Come sul vetro della porta resta l’impronta delle nostre dita, la base della mente ordinaria raccoglie e immagazzina il nostro karma e le abitudini. E come dobbiamo mantenere pulito il vetro, dobbiamo continuare a purificare la base della mente ordinaria. A poco a poco sarà come se il vetro si consumasse, si assottigliasse, vi comparissero piccole crepe e iniziasse a dissolversi.

La pratica rende sempre più stabile la natura della mente, che quindi non si limita più a costituire la nostra natura assoluta ma diventa la nostra realtà quotidiana. In questo processo, più si dissolvono le vecchie abitudini e più si riduce il divario tra la meditazione e la vita quotidiana. A poco a poco potrete uscire in giardino senza che il vetro della porta vi fermi. Il segnale del progressivo indebolimento della base della mente ordinaria è la sempre maggiore facilità con cui dimoriamo nella natura della mente.

All’apparire della Luminosità fondamentale, ciò che conta sarà la nostra capacità di rimanere nella natura della mente, l’abilità che avremo sviluppato di unire natura assoluta e vita quotidiana, e quanto saremo riusciti a purificare la nostra condizione ordinaria riportandola alla purezza primordiale.

L’incontro di madre e figlia

C’è un modo per prepararci al riconoscimento del sorgere della Luminosità fondamentale al momento della morte: il livello più alto della meditazione, il frutto finale della pratica dello Dzogchen. Viene chiamato l’unione delle due Luminosità, o la ‘fusione delle Luminosità madre e figlia’.

La Luminosità madre è un altro nome per indicare la Luminosità fondamentale. È la natura fondamentale, intrinseca di ogni cosa, che è alla base di tutta la nostra esperienza e che si manifesta nel suo pieno fulgore al momento della morte.

La Luminosità figlia, detta anche Luminosità sentiero, è la natura della mente che, se vi siamo stati introdotti dal maestro e l’abbiamo riconosciuta direttamente, possiamo rendere via via più stabile con la meditazione, integrandola sempre più nelle nostre azioni quotidiane. Quando l’integrazione è completa, è completo anche il riconoscimento e avviene la realizzazione.

La Luminosità fondamentale è la nostra natura intrinseca, la natura di tutte le cose; ma, non riconoscendola, rimane celata. Mi piace paragonare la Luminosità figlia alla chiave che il maestro ci dà per aprire la porta del riconoscimento della Luminosità fondamentale ogni volta che si presenta l’occasione.

Immaginate di dover andare all’aeroporto a prendere una donna che non conoscete. Se non avete idea del suo aspetto, vi potrà passare accanto senza che la riconosciate. Ma, se avete in mano una fotografia somigliante, la riconoscerete immediatamente.

Una volta introdotti alla natura della mente, e una volta riconosciutala, avete la chiave per riconoscerla sempre. Ma, così come avete portato la fotografia con voi all’aeroporto per guardarla e imprimervela nella mente, per essere sicuri di riconoscere la persona che aspettate, dovete approfondire e rendere stabile il riconoscimento della natura della mente con una pratica regolare.

Il riconoscimento diventa allora così radicato, così parte di voi, che la fotografia non vi serve più. La persona arriva, e il riconoscimento è immediato. Grazie alla pratica continua del riconoscimento della natura della mente,quando si presenterà al momento della morte la Luminosità fondamentale, saprete riconoscerla e fondervi con essa con la stessa immediatezza, dicono i maestri del passato, di un bambino che corre in braccio alla madre, di due amici che si abbracciano, di un fiume che si mescola al mare.

Eppure, è estremamente difficile. L’unico modo per garantire il riconoscimento è l’assidua e continua pratica di fondere le due luminosità ora, mentre siamo vivi. Ci vuole tutta una vita di allenamento e di impegno. Come diceva il mio maestro Dudjom Rinpoche: a meno che non pratichiamo la fusione delle due luminosità ora, e da ora in avanti, non c’è modo di sapere se il riconoscimento si produrrà spontaneamente al momento della morte.

Come avviene esattamente questa fusione delle due luminosità? Si tratta di una pratica molto profonda e avanzata, e questo non è il luogo adatto per spiegarla in dettaglio. Possiamo dire questo: quando il maestro ci introduce alla natura della mente è come se recuperassimo la vista, perché eravamo ciechi alla Luminosità fondamentale presente in ogni cosa.

L’introduzione del maestro ci apre l’occhio della saggezza con il quale vediamo chiaramente la vera natura di tutto ciò che sorge, la natura di luminosità, di Chiara luce di tutti i pensieri e le emozioni. Immaginate che, rendendo stabile e perfezionando la pratica, il riconoscimento della natura della mente diventi come un sole che divampa immobile nel cielo. Pensieri ed emozioni continuano a prodursi, come onde di oscurità. Ma, non appena si manifestano e vengono in contatto con la luce, si dissolvono.

La capacità di riconoscimento, man mano che viene sviluppata, diventa parte della nostra visione quotidiana. Se siamo capaci di trasportare la realizzazione della nostra assoluta natura nell’esperienza quotidiana, avremo più probabilità di riconoscere la Luminosità fondamentale al momento della morte.

La riprova che possediamo davvero la chiave è il modo di considerare pensieri ed emozioni al loro apparire: se li trapassiamo con la Visione vedendone l’intrinseca natura luminosa, oppure se li oscuriamo sovrapponendovi le abituali reazioni istintive.

Purificare totalmente la base della mente ordinaria è come aver demolito il magazzino del nostro karma distruggendo le scorte karmiche responsabili delle rinascite future. Se invece la purificazione non è stata completa, nel magazzino del karma restano i residui delle abitudini passate e delle tendenze karmiche che si manifesteranno nelle condizioni adatte, spingendoci verso nuove rinascite.

La durata della luminosità fondamentale

Sorge la Luminosità fondamentale; nel caso di un praticante permane tanto a lungo quanto è capace di restare, senza distrazioni, nella natura della mente. Per quasi tutti, non dura più di uno schiocco di dita. Per altri, dicono i maestri, dura “quanto occorre per consumare un pasto”. Ma la maggioranza non la riconosce e cade in uno stato di incoscienza che può protrarsi per tre giorni e mezzo. Dopo di che, infine la coscienza abbandona il corpo.

Di qui deriva l’usanza tibetana di non toccare e non disturbare il cadavere per tre giorni, fatto fondamentale soprattutto per un praticante che forse si è fuso con la Luminosità fondamentale edimora nella natura della mente.

Ricordo che in Tibet tutti erano molto attenti a mantenere il silenzio e un’atmosfera di pace attorno al cadavere, soprattutto se si trattava di un grande maestro o di un grande praticante, per evitare anche la più piccola molestia.

Ma anche il cadavere di una persona comune non viene mosso prima dei tre giorni, perché non si può sapere se una persona è realizzata né il momento preciso in cui la coscienza abbandona il corpo. Si crede che toccare il corpo in un punto, ad esempio praticando un’iniezione, attiri verso quel punto la coscienza che si può così trovare a uscire dall’apertura più vicina invece che dalla fontanella, andando incontro a una rinascita sfortunata.

Alcuni maestri insistono più di altri sulla necessità di non toccare il corpo per tre giorni. Chadral Rinpoche, un maestro tibetano di stile zen che viveva in India e in Nepal, rispondeva a coloro che si lamentavano del cattivo odore del cadavere in climi caldi: “Non dovete mica mangiarlo o venderlo”.

Sia l’autopsia che la cremazione dovrebbero quindi avvenire solo dopo tre giorni. Ma, poiché oggi non sempre è possibile non toccare o muovere il corpo per questo periodo, bisognerebbe almeno effettuare prima la pratica del phowa.

La morte di un maestro

Al momento della morte, un praticante realizzato rimane nel riconoscimento della natura della mente e si risveglia al manifestarsi della Luminosità fondamentale. Può rimanere in questo stato più giorni. Ci sono maestri e praticanti che muoiono seduti in posizione di meditazione, e altri nella posizione del ‘leone dormiente’.

Oltre a queste posture e la padronanza perfette, altri segni possono rivelare che sono nello stato della Luminosità fondamentale: il volto conserva un po’ di colore e di brillantezza, il naso non si infossa, la pelle rimane morbida ed elastica, il corpo non si irrigidisce, si dice che lo sguardo conserva una luce dolce e compassionevole e che ci sia ancora calore nel cuore. Allora il corpo non viene assolutamente toccato, e si mantiene il silenzio finché la persona emerge dallo stato meditativo.

Il Gyalwang Karmapa, grande maestro e capo di una delle quattro principali tradizioni buddhiste tibetane, morì in un ospedale negli Stati Uniti nel 1981. La sua allegria e compassione furono di straordinaria ispirazione per quanti gli erano vicini. Un chirurgo, il dottor Ranulfo Sanchez, disse: “Sono convinto che Sua Santità non era una persona ordinaria.

Quando ti guardava era come se ti frugasse dentro, come se potesse vederti attraverso. Fui colpito dal modo in cui mi guardava, e sembrava sapere che cosa stava accadendo. Destò una grande impressione in tutti quelli che, in ospedale, vennero a contatto con lui. Quante volte, quando eravamo sicuri che ormai fosse la fine, ci sorrideva dicendo che ci eravamo sbagliati, e migliorava di colpo..

Non volle mai nessun trattamento contro il dolore. Quando vedevamo che soffriva e gli chiedevamo: “Sua Santità, ha forti dolori oggi?”, lui rispondeva: “No”. Verso la fine sentivamo che percepiva la nostra ansia, e la cosa divenne uno scherzo usuale: “Sente dolore?”, gli chiedevamo; e lui, con quel sorriso tremendamente gentile: “No”.

Ormai i segni di vita erano debolissimi. Gli feci un’iniezione… perché potesse comunicare nei suoi ultimi momenti. Uscii per pochi minuti dalla stanza mentre parlava con i tulku assicurandoli che per quel giorno non sarebbe morto. Cinque minuti dopo ero di ritorno: Sua Santità sedeva con la schiena eretta e gli occhi aperti. “Salve, come va?”, mi chiese. Le sue condizioni si erano ribaltate e per mezz’ora sedette nel letto parlando e ridendo. Clinicamente era inspiegabile, e le infermiere erano impallidite. Una si arrotolò la manica per mostrarmi il braccio: aveva la pelle d’oca.

Il personale dell’ospedale notò che il corpo del Karmapa non seguiva le fasi del rigor mortis e del disfacimento, ma rimaneva com’era al momento della morte. Poi si accorsero che l’area del cuore conservava ancora del calore”.

Dice il dottor Sanchez: “Mi chiamarono nella stanza circa trentasei ore dopo il decesso. Tastai l’area attorno al cuore e la rilevai più calda delle zone circostanti. Anche per questo la medicina non ha spiegazioni”.

Alcuni maestri muoiono in posizione seduta di meditazione, con il corpo eretto. Alla morte di Kalu Rinpoche, avvenuta nel 1989 nel suo monastero nell’Himalaya in presenza di maestri, del medico e di un’infermiera, il suo discepolo più vicino scrisse: “Rinpoche volle mettersi seduto, ma non ci riusciva. Lama Gyaltsen, sentendo che forse era giunto il momento e che non essere seduto avrebbe creato un ostacolo per Rinpoche, gli sorresse la schiena e lo aiutò a sedere.

Stese la mano verso di me, e lo aiutai anch’io. Desiderava sedere perfettamente eretto, e lo esprimeva a voce e a gesti. Il medico e l’infermiera erano preoccupati, e Rinpoche rilassò un po’ la posizione, che era comunque una postura meditativa… Poi posò le mani in postura meditativa, con gli occhi aperti nello sguardo di meditazione, mentre le labbra si muovevano leggermente. Fummo invasi da un profondo senso di pace e di felicità che impregnava la nostra mente.

Tutti i presenti sentirono che l’indescrivibile felicità che ci colmava non era che un debole riflesso di quella che pervadeva la mente di Rinpoche… Infine, chiuse lentamente le palpebre e il respiro si arrestò”.

Ricorderò sempre la morte del mio amato maestro Jamyang Khyentse Chokyi Lodro, nell’estate del 1959. Negli ultimi anni di vita si era allontanato dal suo monastero il meno possibile. Maestri di tutte le tradizioni gli facevano visita per ricevere insegnamenti, detentori di tutti i lignaggi ricorrevano a lui per istruzioni: era la fonte della loro trasmissione.

Il monastero di Dzongsar era diventato uno dei centri più vibranti di attività spirituale del Tibet, dove andavano e venivano tutti i grandi lama. La sua parola era legge. Era un maestro talmente grande che praticamente tutti erano suoi discepoli, a tal punto che poté evitare una guerra civile minacciando di togliere la sua protezione spirituale a entrambe le fazioni.

Mentre la morsa dell’invasione cinese si stringeva, la situazione nel Kham peggiorava rapidamente eanch’io, un ragazzo, avvertivo la minaccia imminente. Nel 1955 il mio maestro aveva avuto segni precisi di lasciare il Tibet.

Dapprima si recò in pellegrinaggio ai luoghi sacri del Tibet centrale e meridionale; poi, dietro desiderio del suo maestro, visitò i luoghi sacri dell’India, e io andai con lui. Speravamo che, durante la nostra assenza, la situazione migliorasse. In realtà, come venni a sapere in seguito, la decisione di partire presa dal mio maestro fu interpretata da molti altri lama e dalla gente comune come un segno della caduta del Tibet, consentendo a molte persone di mettersi in salvo.

Il mio maestro aveva ricevuto da tempo un invito nel Sikkim, un piccolo paese himalayano e una delle regioni sacre a Padmasambhava. Jamyang Khyentse era l’incarnazione del più grande santo del Sikkim, e il re l’aveva invitato a dare insegnamenti e a benedire il paese con la sua presenza. Avvertiti del suo arrivo, molti maestri vennero dal Tibet per ricevere insegnamenti, portando con sé testi e scritture molto rare che altrimenti non si sarebbero salvate.

Jamyang Khyentse era un maestro dei maestri, e il tempio del palazzo reale dove soggiornò divenne ancora una volta un vivace centro spirituale. Più le cose in Tibet peggioravano, e più erano i lama che si raccoglievano attorno a lui.

Si dice che i maestri che insegnano molto non vivono a lungo, come se prendessero su di sé gli ostacoli che si frappongono agli insegnamenti spirituali. Le profezie dicevano che, se avesse abbandonato l’insegnamento e avesse viaggiato come un eremita sconosciuto in luoghi sperduti, il mio maestro sarebbe vissuto molto più a lungo. Infatti ci provò.

Quando partimmo dal Kham per l’ultimo viaggio, lasciò tutti i suoi averi e si spostava in incognito, con l’intenzione non di insegnare ma di recarsi in pellegrinaggio. Ma, appena scoprivano chi era, tutti gli chiedevano insegnamenti e iniziazioni. Tanto grande era la sua compassione che, conscio del rischio che affrontava, sacrificò la propria vita pur di continuare a insegnare.

Nel Sikkim, Jamyang Khyentse si ammalò. Contemporaneamente giunse la terribile notizia della caduta del Tibet. Uno dopo l’altro, arrivarono i Lama più anziani, detentori dei lignaggi, per pregare e celebrare giorno e notte riti di lunga vita.

Tutti vi presero parte e tutti lo supplicarono di restare in vita, perché un maestro della sua levatura ha il potere di decidere quando lasciare il corpo. Jamyang Khyentse si limitava a stare a letto, accettava le offerte, rideva e diceva con un sorriso d’intesa: “Va bene, tanto per buon auspicio, diciamo che vivrò”.

Invece, avemmo la prima certezza che stava per morire dal Gyalwang Karmapa a cui aveva detto di avere terminato il lavoro che si era assunto in questa vita e che aveva deciso di lasciare questo mondo. Il Karmapa lo riferì a uno dei discepoli più stretti di Khyentse, che scoppiò in pianto.

Così, tutti vennero a saperlo. La morte avvenne subito dopo la notizia che i tre grandi monasteri tibetani, Sera, Drepung e Ganden, erano stati occupati dai cinesi. Sembrò un tragico segno che il Tibet cadesse mentre moriva questo grande essere che rappresentava l’incarnazione del Buddhismo tibetano.

Jamyang Khyentse Chokyi Lodro morì alle tre del mattino, il sesto giorno del quinto mese tibetano. Dieci giorni prima, mentre trascorrevamo la notte celebrando un rito di lunga vita per lui, la terra fu squassata da un forte terremoto. Secondo i sutra buddhisti, è il segno dell’imminente morte di un essere illuminato.

Per tre giorni la sua morte fu mantenuta segreta. Nessuno doveva saperlo. A me dissero che era sopravvenuto un improvviso peggioramento, e mi misero a dormire in un’altra stanza. Lama Chokden, suo assistente principale e maestro delle cerimonie, era la persona che aveva passato più tempo con il mio maestro. Era un uomo taciturno, serio e ascetico, dallo sguardo penetrante e le guance incavate, di modi solenni e raffinati, anche se umili.

Era stimato per l’assoluta integrità, la profonda umanità, la bontà del cuore e la memoria straordinaria. Ricordava ogni parola e ogni episodio raccontato dal mio maestro, e conosceva nei minimi particolari i rituali più complessi e il loro significato. Era inoltre un praticante esemplare e un maestro. Lo vedevamo portare come sempre il cibo nella stanza di Jamyang Khyentse, ma in volto aveva un’espressione cupa. Gli chiedevamo notizie, e ci rispondeva: “Sempre uguale”. In alcune tradizioni è molto importante mantenere il segreto mentre un maestro rimane in meditazione dopo la morte. E dovemmo aspettare tre giorni per sapere la verità.

Il governo indiano mandò un telegramma a Pechino, che fu ritrasmesso al monastero tibetano di Dzongsar dove molti monaci erano in lacrime perché in qualche modo sapevano già della morte. Prima della nostra partenza, Jamyang Khyentse aveva dato la misteriosa assicurazione che sarebbe ritornato una volta prima di morire. La mantenne.

Il giorno di capodanno, sei mesi prima che morisse, durante una danza rituale molti monaci anziani ebbero una visione: lo videro manifestarsi nel cielo nel suo aspetto di sempre. Jamyang Khyentse aveva fondato al monastero un centro di studi, famoso per avere prodotto i migliori studiosi dell’epoca. Nel tempio principale c’era una grande statua del futuro Buddha, Maitreya.

Un mattino presto, poco dopo la visione prodottasi in cielo il giorno di capodanno, il guardiano aprì la porta e Jamyang Khyentse era seduto in grembo al Buddha Maitreya.

Morì nella posizione del ‘leone dormiente’. Tutti i segni indicavano che era ancora in stato meditativo, e per tre giorni nessuno toccò il corpo. Non mi abbandonerà mai il ricordo del momento in cui uscì dalla meditazione: il naso s’infossò di colpo, la pelle perse il colore e la testa gli cadde di lato. Ma, fino a quel momento, il suo corpo aveva conservato un certo equilibrio, forza e vita.

Era sera quando lavammo il corpo. Lo rivestimmo e lo trasferimmo dalla sua stanza al tempio principale del palazzo, traboccante di folla venuta a porgere l’ultimo omaggio circumambulando iltempio

Allora accadde qualcosa di straordinario: a poco a poco si manifestò e si propagò ovunque una luce lattea incandescente, come una fine nebbia luminosa. All’esterno del tempio del palazzo c’erano quattro grandi lampade elettriche che a quell’ora splendevano intensamente, perché alle sette era già buio. Ma il loro chiarore era offuscato dalla luce misteriosa.

Apa Pant, che era il Rappresentante politico in Sikkim, fu il primo a chiamare per scoprire di cosa si trattava. Poi seguirono le telefonate di molti altri, perché quella strana luce ultraterrena era stata vista da centinaia di persone. Un maestro disse che, secondo i tantra, manifestazioni luminose come quella sono il segno dell’ottenimento della buddhità.

Inizialmente si era deciso di tenere il corpo di Jamyang Khyentse nel tempio del palazzo per una settimana, ma presto incominciarono ad arrivare telegrammi dai discepoli. Era il 1959 e molti, tra cui Dilgo Khyentse Rinpoche, erano appena riusciti a fuggire dal Tibet dopo un viaggio lungo e pericoloso. Tutti chiedevano che il corpo rimanesse esposto per poterlo vedere. Così, restò per altre due settimane.

Ogni giorno si tenevano quattro sessioni di preghiera con centinaia di monaci, guidati da lama di tutte le scuole e spesso in presenza dei detentori dei lignaggi. Furono offerte migliaia e migliaia di lampade al burro. Poiché non c’era segno di putrefazione e il corpo non mandava odore, lo tenemmo esposto per un’altra settimana. L’estate indiana è caldissima, ma le settimane passavano e il corpo non presentava segni di disfacimento. Rimase esposto per sei mesi.

Alla sua sacra presenza si tenevano pratiche e insegnamenti. Gli insegnamenti lasciati a metà dalla morte di Jamyang Khyentse vennero portati a termine dai discepoli anziani, e furono ordinati moltissimi nuovi monaci.

Alla fine portammo il cadavere nel luogo scelto da Jamyang Khyentse per la cremazione: Tashiding, una delle località più sacre del Sikkim, in cima a una collina. Tutti i discepoli si radunarono lì e costruimmo lo stupa per conservare le reliquie con le nostre mani, anche se in India i faticosi lavori manuali sono in genere commissionati dietro pagamento a operai.

Tutti, giovani e vecchi, dai grandi maestri come Dilgo Khyentse Rinpoche alle persone comuni trasportarono pietre sulla collina e costruirono lo stupa con le loro mani. Fu la più grande testimonianza della devozione che ispirava.

Le parole non possono descrivere la perdita rappresentata dalla sua morte. Quando lasciammo il Tibet, la mia famiglia e io perdemmo tutte le nostre terre e proprietà, ma ero ancora troppo giovane per sentirmi già attaccato. Invece la perdita di Jamyang Khyentse fu così grande che ancora oggi, dopo tanti anni, ne provo dolore. Tutta la mia fanciullezza trascorse illuminata dalla sua presenza.

Dormivo in un lettino ai piedi del suo letto, e per tanti anni mi svegliai al suono della sua voce che pregava e dello schiocco dei grani del suo rosario. Le sue parole, gli insegnamenti, la grande e pacifica radiosità della sua presenza, il sorriso, sono impressi indelebilmente nella mia memoria.

È la fonte d’ispirazione della mia vita. Nei momenti difficili e mentre dò insegnamenti invoco sempre la sua presenza, assieme a quella di Padmasambhava. La sua morte rappresentò una perdita incalcolabile per il Tibet e per il mondo. Pensavo che se il Buddhismo fosse svanito e solo lui fosse rimasto (e la stessa cosa per Dilgo Khyentse Rinpoche), allora anche il Buddhismo sarebbe rimasto, perché era la perfetta incarnazione di ciò che il Buddhismo insegna. Con la fine di Jamyang Khyentse finì un’era, e forse tutta una dimensione di forza e conoscenza spirituale.

Morì a soli sessantasette anni, e spesso mi chiedo quale sarebbe stato lo sviluppo del Buddhismotibetano se Jamyang Khyentse ne avesse continuato a ispirare la crescita dall’esilio in Occidente con la stessa autorità e l’infinito rispetto per tutte le tradizioni e i lignaggi che l’aveva fatto tanto amare in Tibet. Poiché era il maestro dei maestri, e poiché tutti i detentori dei lignaggi avevano ricevuto da lui iniziazioni e insegnamenti, venerandolo come il proprio maestro-radice, aveva l’autorità per mantenerli uniti in uno spirito di devota armonia e cooperazione.

Ma un grande maestro non muore mai. Jamyang Khyentse è qui e continua a ispirarmi mentre scrivo queste pagine. È la forza che sorregge questo libro e tutti i miei insegnamenti, è il fondamento e lo spirito di tutto ciò che faccio, è lui che continua a darmi la mia direzione interiore. La sua benedizione e la sua fiducia sono sempre con me, guidandomi nel difficile compito di rappresentare, come posso, la tradizione di cui fu un così sublime rappresentante. Il suo nobile volto è più vivo per me di qualunque altro, e nei suoi occhi vedo quella luce di saggezza e di compassione trascendenti che nessun potere, nel cielo o sulla terra, può spegnere.

Possano i lettori conoscerlo un po’ attraverso questo libro, possiate voi tutti essere ispirati, come io lo sono stato, dall’impegno della sua vita e dal fulgore della sua morte, possiate voi tutti ricavare dal suo esempio di dedizione totale al bene di tutti gli esseri senzienti il coraggio e la saggezza necessari per agire per la verità nell’epoca contemporanea!

La radiosità intrinseca

Quando al momento della morte si rivela la Luminosità fondamentale, un praticante esperto, mantenendo la piena consapevolezza, si fonde con essa e raggiunge la liberazione. Se invece la Luminosità fondamentale non viene riconosciuta, sperimentiamo il bardo successivo: il bardo luminoso della dharmata.

L’insegnamento del bardo della dharmata appartiene specificamente allo Dzogchen e fu preservato nei secoli al cuore degli insegnamenti Dzogchen. Avevo qualche esitazione nel rendere pubblico quello che è tra i più sacri insegnamenti, e se non vi fossero già alcuni precedenti non avrei assolutamente potuto esporlo.

Ma sono già stati pubblicati il Libro tibetano dei morti e altri testi che parlano del bardo della dharmata, portando però a conclusioni ingenue. Ritengo sia estremamente importante, e che il momento sia giusto, per fare chiarezza su questo bardo inserendolo nel suo autentico contesto.

Sottolineo che non parlerò dettagliatamente delle pratiche avanzate connesse con questo insegnamento, nessuna delle quali può, in nessuna circostanza, essere seguita senza la guida e le istruzioni di un maestro qualificato verso il quale si deve avere una connessione e una dedizione assolutamente pure.

Ho attinto a fonti diverse per rendere più chiaro possibile il capitolo, che ritengo sia uno dei più importanti di tutto il libro. Mi auguro che, leggendolo, molti di voi possano creare un legame con questo straordinario insegnamento e ricevano l’ispirazione per saperne di più e per incominciare a praticarlo.

Le quattro fasi della dharmata

La parola sanscrita dharmata (tibetano cho nyi) indica la natura intrinseca di tutte le cose, l’essenza delle cose così come sono. La dharmata è la nuda verità incondizionata, la natura della realtà o vera natura dell’esistenza fenomenica. Stiamo parlando di qualcosa di fondamentale per la comprensione globale della natura della mente e di tutte le cose.

La fine del processo di dissoluzione e il sorgere della Luminosità fondamentale ci apre una dimensione totalmente nuova che ora comincia a manifestarsi. Credo che una buona analogia sia quella della notte che trapassa nel giorno. La fase finale del processo di dissoluzione della morte è l’oscura esperienza dello stadio del ‘Completo conseguimento’, descritta come un ‘cielo avvolto nell’oscurità’.

Il presentarsi della Luminosità fondamentale è come il chiarore nel cielo vuoto che precede l’alba. Poi, a poco a poco, si leva in tutto il suo fulgore il sole della dharmata, illuminando il profilo della terra in tutte le direzioni. È la spontanea manifestazione della naturale radiosità del Rigpa, che divampa in forma dienergia e di luce.

Come il sole sorge nel limpido cielo vuoto, la luminosa manifestazione del bardo della dharmata sorge dallo spazio onnipervadente della Luminosità fondamentale. Noi chiamiamo questa manifestazione di suono, luce e colore ‘presenza spontanea’, perché è sempre e intrinsecamente presente nella vastità della ‘purezza primordiale’ che ne costituisce la base.

Quel che avviene in realtà a questo punto è un processo di dispiegamento in cui si rendono sempre più manifeste la mente e la sua natura fondamentale. Il bardo della dharmata è uno stadio di questo processo. Attraverso la sua dimensione di luce ed energia, la mente si dispiega dal suo stato più puro, la Luminosità fondamentale, verso la sua manifestazione come forma nel bardo successivo, il bardo del divenire.

Trovo molto significativo che la fisica moderna abbia scoperto che la materia, indagata sempre più a fondo, si rivela come un oceano di luce e di energia. “La materia è, per così dire, luce condensata o congelata… tutta la materia è una condensazione della luce in configurazioni che si muovono a una velocità media inferiore alla velocità della luce”, scrive David Bohm. Anche la luce è, per la fisica moderna, un fenomeno multidimensionale: “È energia e anche il suo atto di formarsi, prendendo contenuto, forma e struttura. È potenzialità totale”.

Il bardo della dharmata si svolge in quattro fasi, ciascuna delle quali presenta un’opportunità di liberazione. Se questa non viene colta, si mette in moto la fase successiva. La spiegazione che ne darò è ricavata dai Tantra Dzogchen, dove si insegna che solo mediante la speciale pratica avanzata della Luminosità, il Togal, si può realmente comprendere il vero significato del bardo della dharmata.

Negli insegnamenti di altre tradizioni tibetane riguardanti la morte, il bardo della dharmata riceve minor attenzione. Persino nel Libro tibetano dei morti, che appartiene anch’esso allo Dzogchen, la sequenza di queste quattro fasi è solo adombrata, come se la si volesse tenere nascosta, e non viene spiegata in modo chiaro e strutturato.

Devo ricordare che le parole non possono far altro che fornire una rappresentazione concettuale di quanto accade nel bardo della dharmata, una rappresentazione che rimarrà concettuale finché il praticante non abbia perfezionato la pratica del Togal trasformando in innegabile esperienza personale ogni dettaglio di ciò che ora descriverò. 

Il mio tentativo è di comunicarvi la possibilità di una dimensione meravigliosa e stupefacente, completando così la descrizione degli stati di bardo. Mi auguro sinceramente che questa descrizione possa risvegliarvi il ricordo quando attraverserete il processo della morte.

Luminosità: il paesaggio di luce

Nel bardo della dharmata assumete un corpo di luce. La prima fase corrisponde al momento in cui lo‘spazio si dissolve in luminosità’.

Improvvisamente siete consapevoli di un vibrante mondo fluido di suoni, luci e colori. Le forme del nostro paesaggio abituale si fondono in un onnipervadente paesaggio luminoso. È brillante, luminoso e raggiante, trasparente e ricco di colori, non delimitato da dimensioni o direzioni sfolgorante e in continuo movimento. 

Il Libro tibetano dei morti lo paragona a un ‘miraggio in una torrida pianura estiva’. I suoi colori sono la naturale espressione delle qualità elementari e intrinseche della mente: lo spazio è percepito come luce azzurra, l’acqua come luce bianca, la terra come luce gialla, il fuoco come luce rossa e l’aria come luce verde.

La stabilità delle scintillanti manifestazioni luminose del bardo della dharmata è in rapporto diretto con la stabilità che avete raggiunto nella pratica del Togal. Solo una reale padronanza del Togal vi permetterà di rendere stabile la vostra esperienza in modo da usarla come strumento di liberazione. 

Altrimenti il bardo della dharmata vi baluginerà davanti come un lampo di luce, e non vi accorgete neppure che si è manifestato. Desidero sottolineare ancora che solo un praticante di Togal è capace del riconoscimento risolutivo che queste sfolgoranti manifestazioni luminose non sono separate dalla natura della mente.

Unione: le divinità

Se non avviene il riconoscimento della luce come manifestazione spontanea del Rigpa, le luci e i colori iniziano a unirsi e agglomerarsi in punti o sfere luminose di varie dimensioni, chiamate tiklé. Al loro interno appaiono i ‘mandala delle divinità pacifiche e irate’, in forma di enormi concentrazioni sferiche di luce che sembrano occupare la totalità dello spazio.

È la seconda fase, in cui la ‘luminosità si dissolve nell’unione’ manifestandosi come Buddha o divinità di varie dimensioni, colori e forme, ciascuna con i propri attributi. Emanano una luce brillante, fulgida, accecante; suoni fragorosi paragonabili al rombo di migliaia di tuoni; raggi di luce perforanti come fascilaser.

Si tratta delle ‘quarantadue divinità pacifiche e delle cinquantotto divinità irate’ descritte nel Libro tibetano dei morti, che si manifestano per un certo numero di ‘giorni’ entro il proprio mandala specifico ripartito in cinque parti. La visione occupa la vostra percezione con tale intensità che provoca paura e terrore, se non la riconoscete per ciò che è: una paura e un panico cieco possono invadervi fino a farvi perdere la coscienza.

Tra voi e le divinità scorrono sottilissimi raggi di luce, che uniscono il vostro cuore al loro. Nei raggi che emanano dalle divinità appaiono innumerevoli sfere luminose, che aumentano di dimensione e si avvolgono mentre le divinità si dissolvono dentro di voi.

Fonte: Il libro tibetano del vivere e del morire.

 

sabato 20 agosto 2022

Cronaca dell’Akasha di Rudolf Steiner


Cabinet de reflexion «se la curiosità ti ha condotto qui esci» 

I nostri progenitori dell’Atlantide

Da “Cronaca dell’Akasha” di Rudolf Steiner
Osservando l’umanità atlantica dei primi tempi, vi troviamo facoltà spirituali diverse in tutto dalle nostre. 
L’intelletto razionale, la facoltà di combinare e di calcolare sulla quale oggi è basato tutto ciò che si produce, mancavano interamente ai primi Atlanti. 
Essi possedevano invece una memoria sviluppatissima che era una delle loro facoltà spirituali più spiccate. 
Il loro modo di calcolare, per esempio non consisteva, come il nostro, nell’imparare alcune regole per poi applicarle. 

L’abbaco, nei primi tempi dell’Atlantide, era ancora sconosciuto; nessuno aveva impresso nel proprio intelletto che tre per quattro fa dodici; il fatto che chi aveva bisogno di fare questo calcolo sapesse trarsi d’impaccio, dipendeva da ciò: ch’egli si riportava ad altri casi simili o uguali avvenuti precedentemente; si ricordava di quello ch’era stato applicato prima in circostanze analoghe.

Dobbiamo chiarirci che, ogni qualvolta in un essere si sviluppa una nuova facoltà, un’altra perde di forza e d’acutezza. L’uomo odierno possiede, di fronte a quello dell’Atlantide, l’intelletto razionale e la facoltà combinativa; la memoria invece è venuta meno.

Oggi gli uomini pensano per concetti; gli Atlanti pensavano per Immagini. 

E allorché un’immagine sorgeva nella loro anima, essi si ricordavano di tante e tante altre immagini simili già vedute; e a seconda di ciò formavano il loro giudizio.

Perciò anche l’insegnamento era diverso a quei tempi; non rivolto a corazzare il fanciullo di regole o ad acuire il suo intelletto, ma piuttosto a fargli conoscere la vita per mezzo di immagini evidenti, in modo da dargli un largo patrimonio di ricordi sul quale regolare la sua azione avvenire nelle diverse circostanze.

Allora, cresciuto ed entrato nella vita, egli ricordava, in ogni sua azione di aver già veduto qualcosa di simile durante gli anni di scuola; e quanto più il nuovo caso somigliava a qualche caso già veduto, tanto più facilmente vi si raccapezzava.

Trovandosi in circostanze nuove, l’uomo atlantico doveva sempre provare e riprovare, mentre l’uomo d’oggi si risparmia molte esperienze, fornito com’è di regole che può applicare facilmente anche nei casi non ancora incontrati. Untale sistema d’educazione dava a tutta la vita un carattere di monotonia. Si facevano le stesse cose allo stesso modo per lunghi periodi di tempo.

La memoria fedele non permetteva nulla che somigliasse, anche lontanamente, alla celerità del progresso attuale. Si faceva ciò che si era sempre veduto fare. Non si rifletteva, si ricordava. Non era un’autorità chi aveva molto studiato, ma chi aveva molto vissuto, e poteva per conseguenza molto ricordare. 

Sarebbe stato assolutamente escluso che, prima di una certa età, qualcuno potesse prendere qualsiasi decisione in una materia importante; si aveva fiducia solo in chi aveva dietro di sé una lunga esperienza.

Tutto ciò però non si riferisce né agli iniziati né alle loro scuole, poiché gli iniziati sono sempre in anticipo nell’evoluzione, e l’essere ammessi in una tale scuola non dipende dall’età ma dal fatto che il candidato abbia acquistato nelle precedenti incarnazioni le facoltà necessarie a ricevere la sapienza superiore. 

La fiducia che nell’epoca atlantica si aveva negli iniziati e nei loro accoliti, non riposava sulla misura della loro esperienza personale, ma sull’antichità della loro sapienza.

Nell’iniziato la personalità non ha più alcuna importanza. Egli è esclusivamente al servizio della saggezza eterna; e perciò le caratteristiche di qualsiasi epoca non valgono per lui. Mentre dunque gli Atlanti (specialmente i primi) mancavano di pensiero logico, possedevano una memoria eminentemente evoluta, la quale conferiva a tutte le loro azioni un carattere speciale.

Ma all’essenza di ogni facoltà umana se ne allacciano sempre altre. La memoria è più strettamente collegata ai più profondi sostrati naturali dell’uomo di quanto non lo siano le forze dell’intelletto, e con la memoria si erano sviluppate anche altre forze naturali, anch’esse più affini alle forze degli esseri naturali inferiori di quanto non lo siano le forze motrici di cui attualmente l’uomo si serve.

Gli Atlanti erano così in grado di servirsi di quella che chiamiamo forza vitale. Come oggi si trae dal carbone la forza del calore che si trasforma nell’energia dinamica dei nostri mezzi di locomozione, così gli Atlanti sapevano servirsi a scopi tecnici della forza germinatrice contenuta negli esseri viventi.

Cerchiamo di formarcene un’idea giusta, pensando a un chicco di grano. In esso esiste un’energia latente, ed è questa che dal grano fa germogliare la spiga. La natura ha la facoltà di risvegliare questa forza che dorme nel grano; l’uomo d’oggi non può farlo con la sua volontà; deve quindi immergere il chicco di grano nella terra e affidarlo alle forze naturali perché lo risveglino.

L’uomo atlantico faceva di più. Egli conosceva l’arte di trasformare in forza motrice l’energia contenuta in un mucchio di grano, come l’uomo d’ora è capace di trasformare in forza motrice l’energia contenuta in un mucchio di carbone fossile. Le piante, allora, non venivano soltanto coltivate a scopo alimentare, ma anche a fine di adoperare le forze in esse racchiuse, per l’industria e la locomozione.

E come noi abbiamo degli apparecchi per trasformare la forza latente del carbone fossile nell’energia dinamica delle nostre locomotive, così gli Atlanti avevano degli apparecchi di cui alimentavano, per così dire, la combustione coi germi delle piante, trasformando la forza vitale di questi germi in energia applicabile alla tecnica * 

Così riuscivano a far muovere i loro veicoli a piccola altezza al di sopra del suolo, a un’altezza inferiore a quella dei monti di allora; e, per mezzo di un congegno speciale del timone, potevano anche elevarsi al di sopra dei monti.

Non dimentichiamo che tutte le condizioni della nostra Terra si sono assai modificate nel corso dei millenni. Quei veicoli degli Atlanti non sarebbero affatto adoperabili ai giorni nostri, poiché il loro uso dipendeva dal fatto che l’involucro d’aria che circonda la nostra Terra era a quell’epoca assai più denso di ora.

Se dal punto di vista scientifico odierno una tale densità sia ammissibile o no, non ci deve oggi preoccupare. 

La scienza e il ragionamento logico non potranno mai, in virtù della loro natura, stabilire che cosa sia possibile o impossibile; il loro compito è soltanto di spiegare quello che l’esperimento e l’osservazione hanno accertato. Per l’esperienza occulta, la densità dell’aria, di cui parlavamo or ora, è altrettanto certa quanto può esserlo qualunque fatto fisico attuale.

Altrettanto reale, e forse ancora più inverosimile per la fisica e per la chimica d’oggi, è però il fatto che a quell’epoca l’acqua era su tutta la Terra assai più fluida di ora; e per questa sua fluidità l’acqua, patera [1](poteva?), mercé la forza germinatrice di cui gli Atlanti sapevano servirsi, essere diretta a usi tecnici tali che oggi sarebbero impossibili. Per il condensarsi dell’acqua, è divenuto impossibile guidarla e dirigerla con l’arte mirabile di allora.

Si comprenderà dunque facilmente come la civiltà atlantica fosse del tutto diversa dall’attuale, e come pure la natura fisica degli uomini di quel tempo – differisse interamente dalla nostra. L’uomo atlantico assorbiva un’acqua che la forza vitale propria al suo corpo poteva elaborare ben diversamente da come è possibile nel corpo fisico d’oggi, e in virtù di ciò egli poteva servirsi volontariamente delle proprie forze fisiche altrimenti che non l’uomo attuale. Possedeva cioè il mezzo di aumentare in sé le proprie forze fisiche quando ne aveva bisogno per le proprie occorrenze.

Ci formiamo un’idea giusta degli Atlanti solo se teniamo conto che essi avevano della stanchezza e dell’uso delle forze un concetto ben diverso dal nostro. Una colonia di Atlanti – e ciò risulta chiaro da quanto siamo venuti dicendo – aveva un carattere che non ha nulla in comune con quello di una città moderna.

Tutto vi era ancora in relazione diretta con la natura. Ne daremo un’immagine debolmente somigliante, dicendo che nei primi tempi atlantici, fin circa la metà della terza sottorazza, una colonia era una specie di giardino nel quale le case erano costruite con alberi congiunti per mezzo dei loro rami intrecciati ad arte. Ciò che la mano dell’uomo elaborava allora, sorgeva dal seno stesso della natura, e l’uomo stesso si sentiva strettamente congiunto ad essa.

Ne seguiva che anche il sentimento sociale dell’uomo era ben diverso da quello d’oggi. La natura era comune a tutti gli uomini; e ciò che l’uomo atlantico costruiva su basi naturali era considerato come bene pubblico, allo stesso modo come all’uomo d’oggi viene naturale di considerare come proprietà privata il prodotto del suo acume e della sua intelligenza.

Chi si è familiarizzato con l’idea che gli Atlanti erano in possesso delle forze fisiche e spirituali descritte più sopra, imparerà pure a comprendere come, risalendo a tempi ancor più remoti, l’umanità debba mostrare un aspetto che in ben poche cose somiglia a ciò che siamo abituati a vedere oggi. E non soltanto gli uomini, ma anche la natura che li circonda si è profondamente trasformata nel corso dei tempi [2]; tanto le forme delle piante quanto quelle degli animali si sono mutate.

Tutta la natura terrestre ha subito delle trasformazioni; continenti prima abitati furono distrutti, altri ne sono sorti. I predecessori degli Atlanti abitavano un continente, ora sparito, la cui parte principale si estendeva a sud dell’Asia attuale; negli scritti teosofici vengono chiamati Lemuri. 

Dopo esser passati attraverso diversi gradi d’evoluzione, degenerarono in gran parte, e i loro discendenti intristiti si trovano oggi, tra i popoli selvaggi, in alcune parti del globo. Solo una piccola parte dell’umanità lemurica era capace di continuare a evolversi, e da questa ebbero origine gli Atlanti.

Anche più tardi si svolse di nuovo un fatto simile: la maggior parte della popolazione atlantica degenerò, e da una piccola parte di essa ebbero origine i così detti Ariani che costituiscono la nostra attuale umanità civilizzata. I Lemuri, gli Atlanti e gli Ariani sono, secondo la denominazione della scienza occulta, razze radicali dell’umanità.

Si pensino, oltre a queste, due razze radicali precedenti i Lemuri, e due razze radicali successive agli Ariani; in tutto abbiamo sette razze. Queste razze radicali provengono sempre l’una dall’altra nel modo già accennato a proposito dei Lemuri, degli Atlanti e degli Ariani; ed ogni razza radicale ha qualità fisiche e spirituali completamente diverse da quelle della razza precedente.

Mentre gli Atlanti, per esempio, svilupparono in modo speciale la memoria e tutto ciò che ad essa si ricollega, è ora compito degli Ariani di sviluppare la forza del pensiero con tutti i suoi attributi [3]. Ma anche ogni razza radicale deve passare per diversi stadi, e sempre in numero di sette.

Al principio dell’epoca in cui si svolge una razza radicale, le sue qualità principali si trovano ancora in uno stato giovanile, giungono poi gradatamente a maturità e per ultimo alla decadenza. Perciò la popolazione di una razza radicale si suddivide in sette sottorazze; non si deve però immaginare che una sottorazza sparisca appena ne sorge una nuova. 

Al contrario, ognuna si mantiene ancora per lungo tempo, mentre le altre le si sviluppano accanto; così si trovano sempre sulla Terra, l’una vicino all’altra, popolazioni che mostrano gradi diversi d’evoluzione.

La prima sottorazza degli Atlanti si sviluppò da un ramo dei Lemuri già molto avanzato e molto suscettibile di sviluppo. Nei Lemuri la facoltà della memoria era apparsa soltanto nei primissimi e negli ultimi tempi della loro evoluzione. 

Dobbiamo immaginare che il lemure era bensì capace di formarsi delle rappresentazioni di ciò che egli sperimentava, ma non era in grado di conservare queste rappresentazioni; dimenticava immediatamente quello che si era rappresentato.

Il fatto che, ciò nonostante, egli vivesse in una certa forma di civiltà, che possedesse, per esempio, utensili, innalzasse edifici, ecc., non era dovuto alla sua propria facoltà di rappresentazione, ma ad una forza spirituale ch’egli aveva in sé e ch’era, per così dire, istintiva; tale forza, però, non era simile all’istinto attuale degli animali, ma era un istinto di natura tutta particolare [4].

La prima sottorazza degli Atlanti viene chiamata, negli scritti teosofici, Rmoahals. La memoria di questa razza si rivolgeva specialmente alle vive impressioni dei sensi. I colori che l’occhio aveva veduto, i suoni percepiti dall’orecchio, agivano a lungo nell’anima, e ciò si esprimeva nel fatto che i Rmoahals sviluppavano sentimenti ancora sconosciuti ai loro antenati Lemuri.

Per esempio, l’attaccamento a ciò ch’era stato sperimentato nel passato, faceva parte di questi sentimenti. Con lo sviluppo della memoria stava in relazione anche lo sviluppo del linguaggio. Finché l’uomo non conservava in sé il passato, non poteva nemmeno comunicare le proprie esperienze per mezzo della parola.

E poiché nell’ultimo periodo dell’epoca lemurica cominciò ad apparire la memoria, così a quel tempo poté pure sorgere, il primo inizio della facoltà di dare un nome a ciò ch’era stato veduto e udito. Soltanto per chi abbia la facoltà, della memoria può aver senso il nome attribuito a una cosa.

Perciò l’epoca atlantica fu quella in cui il linguaggio cominciò a svilupparsi; e col linguaggio venne a stabilirsi un vincolo tra l’anima umana e le cose fuori dell’uomo. L’uomo generava la parola nel proprio interno; e questa parola era in rapporto con le cose del mondo esterno. E anche tra uomo e uomo si formò un nuovo legame, grazie alla comunicazione per il tramite della parola. Benché presso i Rmoahals tutto ciò avesse ancora una forma primitiva, pure li distingueva profondamente dai loro antenati Lemuri.

Ora le forze animiche di questi primi Atlanti avevano ancora alcunché delle forze della natura; essi, in, certo modo, erano più prossimi agli esseri della natura che li circondavano, di quanto non lo fossero più tardi i loro discendenti. Le loro forze animiche erano simili alle forze naturali più che non lo siano quelle degli uomini attuali. Così anche la parola che essi pronunciavano aveva il potere di una forza naturale. Non soltanto essi denominavano la cose, ma le loro parole contenevano anche un potere sulle cose e sugli uomini.

La parola dei Rmoahals non aveva soltanto significato, ma anche potere. Quando si parla di “forza magica” delle parole, si accenna a una cosa ch’era assai più reale per i Rmoahals che non per gli uomini d’oggi. 

Allorché uno di loro pronunciava una parola, questa parola sviluppava una forza analoga a quella dell’oggetto stesso a cui si riferiva. Per questo le parole avevano, a quell’epoca, il potere di guarire le malattie, di favorire la crescita delle piante, di domare la furia degli animali, ed altri effetti simili.

Nelle sottorazze atlantiche che seguirono, tutto ciò andò sempre più diminuendo, e si potrebbe dire che quella forza elementare naturale andò a poco a poco disperdendosi. I Rmoahals sentivano quella loro forza come un dono della potente natura, e questa loro relazione con la natura aveva un carattere religioso.

Il linguaggio specialmente era per loro qualcosa di sacro, e l’abuso di certe parole, nelle quali risiedeva una gran forza, sarebbe stato cosa impossibile. Tutti sentivano che untale abuso avrebbe loro portato un danno gravissimo; la forza magica di queste parole si sarebbe trasformata nel suo contrario. Quello che, usato giustamente, era fonte di bene, diventava rovina per chi ne abusasse. Una certa purezza di sentimento faceva si che i Rmoahals attribuissero quella forza non tanto a sé quanto alla natura divina che agiva in loro.

Nella seconda sottorazza, quella dei così detti Tlavatli tutto ciò andò mutandosi. Gli uomini di questa razza cominciarono a sentire il proprio valore personale, e l’ambizione, qualità sconosciuta ai Rmoahals, regnò tra loro. La memoria cominciò, ad aver parte nell’ordine della vita sociale; chi poteva ricordare talune gesta da lui compiute, ne richiedeva dagli altri il riconoscimento, esigeva che delle opere fosse serbato il ricordo.

E su questo ricordo delle opere si fondava anche il fatto che gli individui di un medesimo gruppo scegliessero tra loro un capo.

Ne derivò una specie di dignità regale; e questo riconoscimento si conservava fin oltre la morte, sviluppando così la memoria, il ricordo degli avi o di coloro che durante la vita avevano acquistato qualche merito. Veniva così formandosi, presso alcune stirpi, una specie di venerazione religiosa dei morti, un culto degli avi, che sotto le più svariate forme durò lungamente anche in epoche posteriori.

Ancora tra i Rmoahals, l’uomo aveva valore soltanto per il potere che, al momento, egli si procurava mediante la propria forza [5]. Chi voleva un riconoscimento delle gesta compiute in passato, doveva dimostrare, con nuove imprese, che l’antica forza non lo aveva abbandonato. Per mezzo di nuove gesta doveva, per così dire, richiamare alla memoria anche le antiche. I fatti compiuti, come tali, non avevano valore presso i Rmoahals; soltanto durante la seconda sottorazza si cominciò a dar tanto peso al carattere personale di un individuo da tener conto, in questa valutazione, anche della sua vita passata.

Un’ulteriore conseguenza della facoltà della memoria per la vita sociale, fu il formarsi di raggruppamenti di uomini uniti dal ricordo di gesta compiute in comune. Fino allora gli uomini si erano raggruppati esclusivamente secondo forze naturali, secondo la comune origine. L’uomo, per virtù del suo proprio spirito, non aveva ancora aggiunto nulla a ciò che la natura aveva fatto di lui. Ora invece una personalità potente era capace di riunire intorno a sé un certo numero di individui per un’impresa comune, e più tardi il ricordo di questa impresa li fondeva in un solo gruppo sociale.

Questa forma di vita sociale s’impresse nettamente soltanto nella terza sottorazza, quella dei Tolteki. Gli uomini di questa razza cominciarono infatti a fondare ciò che si può chiamare una prima forma di comunità, una prima forma di stato; e la direzione, il governo ditali comunità divenne ereditario. Ciò che prima continuava a vivere soltanto nella memoria dei contemporanei, si trasmise ora dal padre al figlio. E a tutta la discendenza doveva essere serbato grato ricordo per le gesta degli avi; nei nipoti lontani si dovevano ancora apprezzare le gesta degli antenati.

Bisogna però considerare che, a quei tempi, gli uomini avevano realmente la forza di tramandare le proprie qualità ai loro discendenti. Tutta l’educazione consisteva specialmente nel mettere sotto gli occhi dei discepoli esempi di vita in forma d’immagini evidenti, e l’efficacia di questa educazione dipendeva dall’influenza personale esercitata dall’educatore. 

Questi non cercava di aguzzare l’ingegno, ma di sviluppare piuttosto qualità di natura più istintiva. E in virtù ditale sistema di educazione, le facoltà del padre venivano realmente, nella maggior parte dei casi, tramandate al figlio.

Così l’esperienza personale acquistava, nella terza sottorazza, un’importanza sempre maggiore; e allorché un gruppo si segregava da un altro per formare una nuova comunità, portava con sé il ricordo vivente di ciò che aveva sperimentato nell’antica dimora. Ma in tale ricordo questo nuovo gruppo sentiva anche degli elementi che non gli erano conformi, che non gli si confacevano, e, sotto questo rispetto, tentava allora qualcosa di nuovo.

Cosi, con ogni nuova comunità che veniva formandosi, le condizioni andavano migliorando, ed era ben naturale che i miglioramenti venissero imitati. Grazie a questi fatti si produssero, all’epoca della terza sottorazza, quelle fiorenti comunità che ci vengono descritte nella letteratura teosofica. E le esperienze personali che si andavano facendo, trovavano appoggio da parte di coloro che erano iniziati nelle leggi eterne dell’evoluzione spirituale.

Gli stessi potentissimi re ricevevano l’iniziazione, affinché la capacità personale avesse in essa un sostegno completo. Pel suo valore personale l’uomo a poco a poco si rende atto all’iniziazione; egli deve, prima, sviluppare le proprie forze, da sotto in su, perché poi gli possa venir conferita l’illuminazione dall’alto. Così ebbero origine i re e le guide iniziate degli Atlanti. Un potere immenso stava nelle loro mani; e immensa era pure la venerazione che veniva loro tributata.

Ma in questo fatto si nascondeva anche il germe della decadenza e della rovina. Lo sviluppo della memoria condusse all’esaltazione della personalità; l’uomo volle essere esaltato per la sua potenza personale, e quanto più la sua potenza aumentava, tanto più egli voleva sfruttarla a scopi personali. L’ambizione, che si era sviluppata, divenne egoismo, e quest’ultimo condusse all’abuso della forza.

Se pensiamo al potere che gli Atlanti avevano acquistato col dominio sulla forza vitale, comprenderemo come l’abusarne dovesse condurre a gravissime conseguenze. Un ampio potere sulle forze della natura poteva venir messo così al servizio dell’egoismo. Ciò avvenne, pienamente, nella quarta sottorazza, nei Turani primitivi. Questi uomini, avendo appreso a dominare tali forze, se ne servirono spesso per soddisfare le proprie brame egoistiche.

Ma, adoperate cosi, queste forze si distruggono per i loro vicendevoli effetti. È come se in una persona i piedi volessero a tutti i costi avanzare, mentre il resto del corpo volesse retrocedere. Tali rovinosi effetti poterono essere arrestati soltanto pel fatto che una forza superiore si sviluppò nell’uomo: la forza del pensiero. Il pensiero logico domina e frena i desideri personali egoistici. L’origine del pensiero logico è da ricercarsi nella quinta sottorazza, quella dei protosentiti.

Gli uomini cominciarono ad arrivare più in là del semplice ricordo del passato e a confrontare tra loro le diverse esperienze. Si sviluppò la facoltà del giudizio, la quale regolò i desideri e le passioni. Si cominciò a calcolare e a combinare; s’iniziò il lavorio del pensiero. Se prima gli uomini si abbandonavano a ogni desiderio, ora soltanto cominciarono a chiedere se il pensiero lo approvasse o no.

Mentre gli uomini della quarta sottorazza cercavano – violentemente la soddisfazione delle loro passioni, quelli della quinta cominciarono a porgere ascolto ad una voce interiore. E questa voce interiore mette un argine alle passioni, anche se non riesce a distruggere le pretese della personalità egoistica. Cosi, la quinta sottorazza ha trasferito entro l’intimo dell’uomo l’impulso all’azione. L’uomo, nel suo intimo vuol rendere conto a se stesso di ciò che deve o non deve fare.

Ma quello che interiormente si acquistava così nella forza del pensiero, si perdeva, d’altra parte, nel dominio sulle forze naturali esteriori. Per mezzo del pensiero logico si possono soggiogare soltanto le forze del mondo minerale, non la forza vitale. La quinta sottorazza sviluppò quindi la forza del pensiero a detrimento del dominio sulla forza vitale. Ma appunto con ciò essa produsse il germe dell’evoluzione successiva dell’umanità.

Per quanto si sviluppassero ora la personalità, l’amore di sé e l’egoismo, il semplice pensiero che lavora soltanto nell’interiorità e non può impartire ordini diretti alla natura è incapace di produrre le nefaste conseguenze che erano derivate dall’abuso delle forze di prima. La parte meglio dotata di questa quinta sottorazza venne scelta a sopravvivere alla rovina della quarta razza radicale e formò il germe della quinta razza radicale, della razza ariana, che ha il compito di sviluppare interamente la facoltà del pensiero con tutto ciò che vi si connette[6].

Gli uomini della sesta sottorazza (gli Akkadi) svilupparono, ancora più di quelli della quinta, la facoltà di pensare; si distinsero dai così detti protosemiti per una più estesa applicazione di questa facoltà. Come fu detto, lo sviluppo della forza del pensiero impedì che le esigenze della personalità egoistica provocassero quell’azione devastatrice ch’era ancora possibile nelle razze precedenti; non riuscì però a sopprimere quelle esigenze.

I protosemiti regolarono dapprima le loro condizioni personali secondo i suggerimenti del pensiero. Al posto delle sole brame e dei soli desideri subentrò l’intelletto e nuove forme di vita si manifestarono. Mentre le razze antecedenti erano inclini a riconoscere come guida l’individuo le cui gesta avessero lasciato una profonda traccia nella loro memoria o la cui vita fosse ricca di ricordi, ora venne riconosciuto come, tale il più intelligente. E mentre prima si dava importanza a ciò di cui si serbava buon ricordo, ora si teneva in maggior conto ciò che meglio persuadeva il pensiero.

Un tempo, sotto l’influenza della memoria, si restava fedeli a una cosa fino al giorno in cui la si trovava insufficiente, e in tal caso riusciva naturalmente a vincere colui ch’era in grado di colmare la lacuna per mezzo di una innovazione. Come effetto della facoltà di pensare, nacque invece, una smania d’innovazione e di cambiamento; ognuno volle attuare le trovate del proprio intelletto.

Così che, durante la quinta sottorazza, cominciò una certa irrequietudine che produsse poi, durante la sesta, la necessità di sottomettere a leggi comuni il dispotico pensiero del singolo individuo. Lo splendore degli stati della terza sottorazza aveva la sua base nell’ordine e nell’armonia che i comuni ricordi generavano; nella sesta invece quest’ordine dovette essere prodotto a mezzo di leggi pensate.

In questa sesta sottorazza dobbiamo dunque ricercare l’origine del diritto e degli ordinamenti legislativi. Nella terza sottorazza un gruppo di persone non si segregava dal resto, se non quando si sentiva come espulso dalla propria comunità, perché le condizioni sorte dai ricordi comuni più non gli si confacevano.

Nella sesta sottorazza invece ciò era essenzialmente di verso. Il pensiero calcolatore cercava la novità per se stessa, incitava a intraprese e a nuove istituzioni. Gli Akkadi erano perciò un popolo intraprendente, incline alla colonizzazione, e che trovava, specialmente nel commercio, alimento alla forza, allora appena germogliata, del pensiero e del giudizio.

Anche nella settima sottorazza, in quella dei Mongoli, si sviluppò la facoltà di pensare. Ma alcune qualità delle sottorazze precedenti, specialmente della quarta sussistevano in essa ancor più accentuate che non nella quinta e nella sesta razza. 

I Mongoli si serbano fedeli alla memoria; e così giungono alla convinzione che ciò ch’è più antico sia anche più intelligente, riesca cioè a meglio trionfare anche di fronte alla facoltà del pensiero. Sebbene ormai privi anch’essi del dominio sulle forze vitali, la stessa loro forza di pensiero aveva però in parte raggiunta la potenza elementare della forza vitale.

Avevano bensì perduto il potere sulla vita, ma non la immediata, ingenua fede in essa. Questa forza era diventata il loro dio, per ordine del quale essi facevano quanto ritenevano giusto; cosi, ai popoli vicini apparivano come posseduti da questa occulta potenza, e si abbandonavano realmente ad essa con cieca fede. 

I loro discendenti nell’Asia e in alcune parti d’Europa mostravano e mostrano ancora gran parte ditale carattere.

La forza del pensiero infusa nell’uomo poté raggiungere il suo completo valore nell’evoluzione soltanto quando, nella quinta razza radicale, ricevette un nuovo impulso. La quarta aveva potuto mettere il pensiero soltanto al servizio di ciò che aveva acquistato per mezzo della memoria. La quinta, invece, è giunta a quelle forme di vita per le quali la facoltà del pensiero è lo strumento giusto.

[1] Parola nel testo originale ma forse da sostituire con poteva.La patera è una coppa usata per offrire bevande durante i sacrifici rituali. Generalmente a forma di scodella o tazza poco profonda con un’ansa con la funzione di manico, la si usava per versare liquidi, in particolare vino o latte, sulla testa delle vittime o sull’ara prima del sacrificio.
[2] Ritorneremo più avanti sulla cronologia ditali avvenimenti. Intanto il lettore non si formalizzi se alcune date più sopra, gli sembrano in contraddizione con quanto, in proposito può aver letto altrove.
[3] Descriveremo più avanti le qualità e la vita dei Lemuri, conie pure l’evoluzione degli Ariani fino ai tempi nostri, riattaccandovi altre comunicazioni intorno all’evoluzione del cosmo e dell’umanità,
[4] Tratteremo in seguito anche di questo
[5] Intorno alle entità dirigenti al tempo dei Rmoahals daranno notizie le comunicazioni seguenti in rapporto con la vita dei Lemuri.
[6] Diremo in seguito come avvenga lo sviluppo della forza del pensiero nella quinta razza radicale, e che importanza abbia in seno ad essa l’umanità attuale.