venerdì 5 agosto 2022

Bardo Tödröl commentato da Gustav Jung


Atto di Restituzione 


Commento Psicologico al Bardo Thodrol

 di Gustav Jung
 

Vorrei premettere al mio commento introduttivo una breve scorsa del testo. Il Bardo Thodol è un libro di istruzioni per la persona testé defunta, destinato a servirle da guida durante la sua esistenza bardo, stato intermedio di quarantanove giorni che intercorrono tra la sua morte e la sua rinascita; è qualcosa di simile al Libro egiziano dei morti.

Il testo è diviso in tre parti.

  1. La prima, detta Chikhai bardo, narra gli eventi psichici al momento della morte.  
  2. La seconda, il cosiddetto Chonyid-bardo, si occupa dello stato di sogno che subentra alla morte definitiva, le cosiddette illusioni karmiche. 
  3. La terza, detta Sidpa-bardo, riguarda l’inizio dell’impulso alla nascita e degli eventi prenatali.

E’ caratteristico il fatto che la più alta penetrazione e illuminazione, e quindi la massima possibilità di liberarsi, si hanno proprio al momento della morte. Poco dopo cominciano le “illusioni” che finiscono per condurre alla reincarnazione, e durante le quali le luci ispirate si fanno sempre più torbide e molteplici, e le visioni sempre più spaventose.

Questa discesa rappresenta l’estraniarsi della coscienza dalla verità liberatrice e il suo riavvicinarsi all’esistenza fisica. Le istruzioni hanno lo scopo di richiamare l’attenzione del dipartito, ad ogni stadio del periodo in cui può essere accecato e irretito, sul fatto che egli può ancora liberarsi, e illuminarlo sulla natura delle sue visioni.

Il lama legge i testi del Bardo in presenza del cadavere.

Credo di poter assolvere nel modo migliore il mio debito verso i due primi traduttori del Bardo Thodol, il defunto lama Kazi-Dava Samdup e il dottor Evans-Wentz tentando, attraverso un commento psicologico all’edizione tedesca dell’opera, di avvicinarne la problematica e il grandioso mondo di idee alla comprensione dell’Occidente.

Sono certo che chiunque legga questo libro a occhi aperti, lasciandolo operare in lui senza opporgli alcun pregiudizio, ne trarrà un grande vantaggio.

Il Bardo Thodol, giustamente intitolato Libro tibetano dei morti dal suo curatore W. Y. Evans-Wentz, fece, al suo apparire nel 1927, non poca sensazione nei paesi di lingua inglese. 

Esso va annoverato tra quelle opere che non soltanto interessano gli specialisti del buddhismo mahayana, ma che, grazie alla loro profonda umanità e ancor più profonda penetrazione dei misteri della psiche, attraggono soprattutto il profano che tende ad ampliare la propria conoscenza della vita.

Dall’anno del suo primo apparire, il Bardo Thodol mi ha, per così dire, sempre accompagnato; ad esso devo non soltanto molte cognizioni e incoraggiamenti, ma anche intuizioni veramente essenziali.

A differenza del Libro egiziano dei morti,· del quale si può dire soltanto troppo o troppo poco, il Bardo Thodol contiene una filosofia a portata dell’essere umano e si rivolge all’uomo, non a dèi o a primitivi.

 La sua filosofia è la quintessenza della critica psicologica buddhistica e come tale, è il caso di dirlo, d’inaudita sublimità. Non soltanto le divinità “irate”, ma anche quelle “pacifiche” sono proiezioni samsariche della psiche umana; questo pensiero è fin troppo comprensibile per l’europeo illuminato, perché gli rammenta le sue banali semplificazioni.

Ma lo stesso europeo non sarebbe in condizioni di considerare al tempo stesso reali quelle divinità dichiarate inesistenti in quanto proiezioni. Può invece farlo il Bardo Thodol che ha il vantaggio tanto sull’europeo illuminato quanto su quello non illuminato di possedere alcune delle premesse metafisiche più essenziali. 

Il carattere antinomico di ogni affermazione metafisica è tacita, onnipresente premessa del Bardo Thodol, così come l’idea della differenza qualitativa dei gradi di coscienza e delle realtà metafisiche che essi condizionano.

Un grandioso tanto quanto è lo sfondo di questo libro singolare, che forse non riesce congeniale ai filosofi occidentali, perché l’Occidente ama ciò che è chiaro e univoco, sicché l’uno afferma: “Dio è” e l’altro nega con ugual fervore dicendo: “Dio non è.” 

Che se ne farebbero questi fratelli nemici di una frase come questa: “Riconoscendo come buddhità la vacuità del tuo proprio intelletto c considerandola come la tua propria coscienza, perseveri nello stato dello spirito divino del Buddha”?

Temo che simili proposizioni non convengano né alla nostra filosofia né alla nostra teologia occidentali. Il Bardo Thodol è sommamente psicologico, mentre quelle discipline si trovano ancora in uno stadio pre- psicologico medievale dove soltanto le asserzioni sono ascoltate, spiegate, difese, criticate e disputate, ma dove l’istanza che le crea è stralciata di comune accordo dall’ordine del giorno come non appartenente al programma.

Le affermazioni metafisiche sono asserzioni della psiche, e pertanto psicologiche. Allo spirito occidentale tuttavia questa verità evidente appare o troppo evidente in quanto esso, per i suoi noti risentimenti, indulge troppo all’illuminismo oppure inammissibile negazione della “verità” metafisica. Quando sente la parola “psicologico”, per lui è sempre come se sentisse “soltanto psicologico”.

La “psiche” gli appare come qualcosa di molto piccolo, di qualità inferiore, personale, soggettivo, e via dicendo. Egli impiega perciò più volentieri la parola “spirito”, perché in questo modo finge sempre che sia lo “spirito” a fare un’affermazione, in realtà forse molto soggettiva; si tratta naturalmente sempre dello spirito generale e perfino, se possibile, “assoluto”. Questa un po’ ridicola presunzione è forse una compensazione per la deplorevole piccolezza della psiche.

Sembra quasi che Anatole France quando nella sua Ile des Pinguins fa dare a Dio da Caterina di Alessandria il consiglio: “Donnez-leur une àme, mais une petite!” abbia pronunciato una verità impegnativa per l’intero Occidente.

È la psiche che pronuncia asserzioni metafisiche in virtù della sua innata divina forza creatrice; è la psiche che stabilisce la distinzione delle entità metafisiche. Essa non è soltanto la condizione della realtà metafisica, ma questa realtà stessa.

Con questa grande verità psicologica comincia il Bardo Thodol, che non è un cerimoniale sepolcrale ma una “istruzione per i morti”, una guida attraverso le mutevoli apparizioni della vita-bardo, cioè di quell’esistenza che si prolunga per quarantanove giorni dalla morte fino alla prossima incarnazione.

Prescindendo in un primo momento dall’ipotesi, ovvia per l’Oriente, della sovratemporalità. della psiche, possiamo, quali lettori del Thodol, trasportarci senza difficoltà nella situazione del defunto e considerare attentamente la dottrina del primo paragrafo che ho poc’anzi delineata. Qui ci viene detto in linguaggio garbato, privo di presunzione:

O [tal dei tali] di nobile nascita, ascolta. Adesso tu sperimenti l’irradiare della chiara luce della pura realtà. Riconoscila. O tu di nobile nascita, il tuo attuale intelletto, per sua reale natura vuoto, non formato ad alcunché di caratteristico o di colorato, vuoto per natura, è la vera realtà, l’Interamente Buono.

Il tuo proprio intelletto, che adesso è vuoto, non· va però considerato come la vacuità del nulla, ma piuttosto come intelletto in sé, non impedito, luminoso, eccitante e beato, è la vera coscienza, il Buddha interamente buono.

Questa conoscenza è lo stato di dharma-kàya della perfetta illuminazione, che nel nostro linguaggio si esprime così: causa prima creatrice di tutte le asserzioni metafisiche è la coscienza come visibile e afferrabile manifestazione della psiche. La “vacuità” è lo stato che precede tutte le asserzioni, tutte le “posizioni”. La pienezza delle differenti manifestazioni è ancora latente nella psiche.

La tua propria coscienza – continua il testo – splendente, vuota, e indivisibile dal gran corpo dell’irradiazione, non ha nascita né morte ed è l’immutabile luce – Buddha Amitabha.

In verità, l’anima non è piccola, è la splendente divinità stessa.

L’Occidente o trova quest’asserzione molto rischiosa, quando non biasimevole, o se ne appropria senza scrupoli buscandosi poi un’inflazione teosofica. In qualche modo, noi prendiamo queste cose di traverso. 

Ma se saremo capaci di dominarci fino al punto di astenerci dal nostro errore capitale che è quello di voler sempre fare qualcosa con le cose, riusciremo forse a trame una lezione per noi importante o almeno a misurare la grandezza del Bardo Thodol, che elargisce ai defunti l’ultima e massima verità, cioè che anche gli dèi sono splendore e luce dell’anima personale.

Così per l’orientale non tramonta il sole come per il cristiano al quale Dio verrebbe, con questo mezzo, rubato: la sua anima stessa è la luce della divinità, e la divinità è l’anima. L’Oriente può sopportare questo paradosso meglio di quanto sia stato concesso al povero Angelo Silesio (che del resto sarebbe anche oggi psicologicamente anacronistico).

È cosa ragionevole chiarire in primissima linea al defunto il primato della psiche, poiché la vita gli chiarisce in primo luogo tutto il resto.

Nella vita siamo incastrati a viva forza in un’infinità ·di cose che si urtano, si oppongono a vicenda, dove non si riesce mai a capire chi in realtà abbia “dato” tutte queste cose date. Il defunto si libera da queste “cose date”, e l’insegnamento ha lo scopo di assisterlo sulla via della liberazione.

Mettendoci al suo posto ricaveremo da quell’insegnamento un vantaggio non minore, in quanto fin dai primi paragrafi apprendiamo che il datore di tutte le cose date abita in noi stessi; una verità questa che non è mai conosciuta, benché sia evidente tanto nelle cose più grandi quanto in quelle più piccole, mentre sarebbe troppo spesso necessario, anzi indispensabile, conoscerla.

Certamente una tale scienza si confà soltanto a nature contemplative che con ogni forza aspirano a capire perché stiano al mondo, a temperamenti in qualche modo di gnostici, che credono in un salvatore che chiama sé stesso, come· quello dei mandei, “conoscenza della vita” (Manda d Hayya). Non è forse concesso a molti vedere il mondo anche come “cosa data”.

Occorre forse un mutamento largo e aperto al sacrificio per vedere come il mondo sia tratto fuori dall’essenza della psiche e “dato”. È tanto più diretto, vistoso, impressionante, e perciò convincente, vedere ciò che ci accade anziché ciò che facciamo. Sì, la natura animale dell’uomo lo spinge a rifiutare di sentire sé stesso fattore delle sue “cose date”.

Perciò tentativi di questo tipo furono sempre oggetto d’iniziazioni segrete, alle quali di solito si accompagnava una morte figurata, simboleggiante il carattere totale della conversione. In realtà anche l’istruzione del Thodol ha lo scopo di richiamare alla mente del defunto le esperienze iniziatiche o le dottrine del guru, poiché essa in sostanza non è altro che un'”iniziazione del defunto” alla vita-bardo, così come l’iniziazione dei viventi non è che una preparazione all’aldilà; questo almeno accade in tutti i culti misterici, a cominciare dagli egizi e dagli eleusini.

Ma nell’iniziazione dei vivi, l’aldilà non è affatto per prima cosa un aldilà della morte, bensì un rivolgimento nel modo di pensare, quindi un aldilà psicologico che si esprime cristianamente in una “redenzione” dai vincoli del mondo e del peccato. 

La redenzione è un distacco e una liberazione che conducono da un precedente stato di tenebre e d’inconsapevolezza a uno stato d’illuminazione, di liberazione, superamento e trionfo sulle “cose date”.

Per conseguenza il Bardo Thodol, come sembra anche a Evans Wentz, è un processo d’iniziazione inteso a ricostituire la divinità che l’anima ha perduto con la nascita. È caratteristico dell’Oriente il fatto che l’insegnamento comincia sempre con la parte essenziale, cioè con gli ultimi e sommi princìpi, con tutto ciò che da noi verrebbe per ultimo, un po’ come in Apuleio, dove Lucio è venerato come Helios soltanto alla fine. Conseguentemente nel Bardo Thodol l’iniziazione discende come un climax, a majori ad minus, e termina con la rinascita in utero.

L’unico “processo d’iniziazione” tuttora esistente e usato praticamente nella sfera culturale occidentale è l’ “analisi dell’inconscio” praticata dai medici. Questa penetrazione nelle profondità e nelle radici della coscienza, operata per motivi terapeutici, è per prima cosa una maieutica razionale in senso socratico, una presa di coscienza del contenuto psichico non ancora nato, ancora in germe, subliminale. 

La forma originaria di questa terapia è, com’è noto, la psicoanalisi freudiana che si occupa soprattutto di fantasie sessuali.

Questo settore corrisponde all’ultimo capitolo del Sidpabardo in cui il dipartito, incapace di fare proprie le dottrine del Chikhai e del Chonyid-bardo, comincia ad abbandonarsi a fantasie sessuali per mezzo delle quali è attratto da coppie coabitanti per essere poi imprigionato in un utero e messo di nuovo al mondo. Qui entra anche in scena, come si conviene, il “complesso edipico”.

Se il karma destina il defunto a reincarnarsi come uomo, egli s’innamorerà di sua madre e troverà ripugnante e odioso il padre; inversamente la futura figlia proverà una forte attrazione per il padre e ripugnanza per la madre. L’europeo passa per questo campo specificamente freudiano quando si sottopone al processo analitico di presa di coscienza dei suoi contenuti inconsci, ma in senso inverso.

Egli ritorna, per così dire, indietro nel mondo delle fantasie sessuali infantili “usque ad uterum”. Da parte psicoanalitica si è perfino espressa l’opinione che il trauma per eccellenza sia la nascita stessa; anzi, si arriva a dire di essere risaliti fino a ricordi della vita intrauterina.

Con ciò la ragione occidentale raggiunge purtroppo il suo limite, mentre sarebbe stato auspicabile che la psicoanalisi freudiana avesse potuto allegramente inseguire, retrocedendo ancor più, le cosiddette tracce di esperienza intrauterina; con quest’ardita impresa essa sarebbe uscita al di là del Sidpa-bardo penetrando da dietro nell’ultimo capitolo del Chonyid-bardo che lo precede.

Comunque, con il corredo delle nostre idee biologiche, una simile impresa non sarebbe stata coronata da successo; per ottenere questo sarebbe occorsa una preparazione del tutto diversa da quella dei nostri presupposti scientifici. Il conseguente procedimento all’indietro ci avrebbe condotti a postulare una preesistenza prenatale, una vera vita-bardo, se fosse stato possibile scoprire almeno le tracce di un soggetto sperimentante.

Non si è giunti più in là del supporre tracce di esperienza intrauterina, e anche il cosiddetto “trauma della nascita” è rimasto una verità talmente banale che non spiega nulla, così come l’ipotesi che la vita sia una malattia con prognosi nefasta poiché termina sempre con la morte.

Così la psicoanalisi freudiana si è fermata in sostanza alle esperienze del Sidpa-bardo, cioè alle fantasie sessuali e simili tendenze “incompatibili” che causano angoscia e altri stati affettivi. La teoria freudiana è però il primo tentativo occidentale d’investigare, per così dire da sotto, cioè dalla sfera istintuale animale, quella zona psichica che nel lamaismo tantrico corrisponde al Sidpa-bardo. 

Certo una anche troppo giustificata paura metafisica ha impedito a Freud di fare irruzione nella sfera “occulta”.

Inoltre, se dobbiamo prestar fede alla psicologia del Sidpa-bardo, lo stato Sidpa è caratterizzato dall’impetuoso vento del karma, che fa rotare il dipartito finché questi abbia trovato il luogo dove rinascere; cioè lo stato Sidpa non permette di retrocedere maggiormente perché è reso inaccessibile allo stato di Chonyid da un’intensa tendenza verso il basso, verso la sfera istintuale animale e la rinascita fisica.

In altre parole: chi penetra nell’inconscio con preconcetti biologici rimane fermo nella sfera sessuale, né può procedere verso l’esterno, ma continuare soltanto a retrocedere verso· l’esistenza fisica. La premessa freudiana non può perciò fare nient’altro se non concludere con una valutazione essenzialmente negativa dell’inconscio.

Esso è “nient’altro che ... ” Tuttavia, questo modo di vedere la psiche è soprattutto occidentale, espresso soltanto a voce più alta, in modo più chiaro, senza riguardi, di quanto abbiano osato fare altri che, in fin dei conti, non pensano molto diversamente. E per quanto riguarda il significato di “spirito” in quest’ accezione, bisogna accontentarsi del pio desiderio che esso possa riuscire convincente. Lo stesso Max Scheler si è accorto con rincrescimento del fatto che la forza di questo spirito è almeno dubbia.

Si potrebbe forse tenere per dato il fatto che lo spirito razionalistico occidentale si è spinto avanti con la psicoanalisi fino al cosiddetto stato nevrotico Sidpa e quivi sia pervenuto a una inevitabile battuta d’arresto a causa della premessa acritica che tutta la psicologia sia una faccenda soggettiva e personale. Purtuttavia, con questo passo avanti abbiamo tanto progredito da essere giunti almeno un gradino più indietro nella nostra esistenza conscia.

Questa conoscenza ci dà anche degli accenni su come leggere il Thodol, cioè all’indietro.

Se riusciamo a comprendere un poco il carattere psicologico del Sidpa-bardo con l’aiuto della scienza occidentale, ci s’impone il dovere di rendere intelligibile anche il precedente Chonyid-bardo. Lo stato Chonyid è uno stato di “illusioni karmiche”, dunque di quelle illusioni che poggiano sui resti psichici (o meriti) delle vite precedenti. L’idea orientale del karma è una specie di teoria psichica dell’ereditarietà, basata sull’ipotesi della reincarnazione, cioè in ultima analisi della sovratemporalità della psiche.

Né il nostro sapere né la nostra ragione possono accordarsi con questo modo di vedere che contiene per noi troppi se e troppi ma. Anzitutto, quel che sappiamo di una possibile sopravvivenza della psiche individuale oltre la morte è desolatamente scarso, tanto scarso che non è nemmeno possibile determinare come si potrebbe dimostrare qualcosa in proposito.

Inoltre sappiamo fin troppo bene che dimostrare questo è, per motivi gnoseologici, altrettanto impossibile quanto dimostrare Dio. Possiamo accettare prudentemente il concetto di karma solo in quanto esso è in generale compreso come ereditarietà psichica nel senso più ampio della parola. 

C’è un’ereditarietà psichica, cioè eredità di peculiarità psichiche come disposizione alle malattie, tratti del carattere, talenti ecc... Si tratta di fenomeni vitali essenziali che agiscono soprattutto psichicamente, come vi sono anche caratteristiche ereditarie che agiscono soprattutto fisiologicamente, cioè fisicamente.

Una classe particolare di queste eredità psichiche non è essenzialmente delimitata né dalla famiglia né dalla razza. Si tratta delle disposizioni spirituali generali, con il che va inteso un tipo di forme secondo le quali lo spirito classifica in certo qual modo i suoi contenuti.

Queste forme si potrebbero anche chiamare “categorie” in analogia con le categorie logiche che, sempre e dovunque presenti, sono premesse indispensabili della ragione. Soltanto che per queste forme non si tratta di categorie della ragione, ma di categorie dell’immaginazione.

Dato che le immagini della fantasia nel senso più ampio sono sempre evidenti, le loro forme hanno a priori il carattere di immagini, anzi di immagini tipiche che io per questa ragione designo, basandomi sull’antichità classica, col nome di archetipi. Lo studio comparato delle religioni e dei miti è una vera miniera, così come la psicologia dei sogni e delle psicosi.

Il sorprendente parallelismo di tali immagini e delle idee che esse esprimono ha dato spesso motivo alle più audaci ipotesi di migrazioni, dove sarebbe stato più opportuno pensare a una significativa somiglianza della psiche umana in tutti i tempi e in tutti i luoghi. 

Infatti, forme archetipiche fantastiche si riproducono spontaneamente sempre e dovunque, senza che sia neppur pensabile la minima trasmissione diretta. Le componenti strutturali primigenie della psiche hanno la stessa sorprendente uniformità di quelle del corpo visibile.

Gli archetipi sono in certo qual modo organi della psiche prerazionale.

Sono strutture basilari caratteristiche eternamente ereditate, prive dapprima di contenuto specifico, che si manifesta solamente nella vita individuale, dove l’esperienza personale è rintracciabile proprio in queste forme. Se questi archetipi non fossero dovunque presenti in forma identica, come si potrebbe, ad esempio, spiegare il fatto che il Bardo Thodol presuppone ad ogni passo che i morti non sappiano di essere morti, e che quest’affermazione è rintracciabile con la stessa frequenza nella più banale, più incolta letteratura spiritistica d’Europa e d’America?

Sebbene noi incontriamo già quest’affermazione in Swedenborg, la conoscenza dei suoi scritti non è poi tanto diffusa che proprio un qualunque medium debba esservi incappato è assolutamente impensabile un collegamento tra Swedenborg e il Bardo Thodol. 

È un’idea delle più primordiali e universali quella che i morti continuino semplicemente la loro vita terrestre e che, implicite, frequentemente non sappiano di essere spiriti di defunti è un’idea archetipica che si manifesta subito in modo evidente non appena qualcuno vede uno spirito.

È anche degno di nota il fatto che gli spiriti di tutto il mondo abbiano determinati tratti comuni.

Conosco naturalmente le indimostrabili ipotesi spiritiche, senza farle mie, e mi contento dell’ipotesi di una struttura psichica universalmente presente, differenziata e in questa forma ereditata, che determina, anzi costringe, tutte le esperienze ad avere direzione e forma determinate. 

Poiché, come gli organi del corpo non sono dati indifferenti e passivi, bensì piuttosto dinamici complessi di funzioni che manifestano la loro presenza con inevitabile necessità, così anche gli archetipi, specie di organi psichici, sono complessi dinamici (istintuali) che determinano in grado altissimo la vita psichica.

Perciò ho chiamato gli archetipi anche “dominanti dell’inconscio”, ho chiamato “inconscio collettivo” lo strato della psiche inconscia che consiste in queste forme dinamiche universalmente diffuse. Per quanto io sappia, non esistono ereditarietà mnemoniche individuali prenatali; esistono invece strutture basilari archetipiche ereditate, prive tuttavia di contenuto poiché inizialmente non contengono esperienze soggettive. Come ho già detto, esse diventano coscienti soltanto quando sono rese visibili da esperienze personali.

Secondo quanto abbiamo visto sopra, la psicologia Sidpa consiste nel voler vivere e nascere. (Sidpa = “bardo della ricerca della rinascita”.)

Questo stato in sé non consente perciò esperienze di realtà psichiche trans-soggettive, a meno che l’individuo si rifiuti categoricamente di rinascere nel mondo della coscienza. Secondo la dottrina del Thodol, in ogni stato bardo sussiste la possibilità di ascendere il quadrifronte monte Meru verso il dharma·kiiya, purché il defunto non si lasci andare alla propria tendenza di seguire le luci fioche.

Tradotto nel nostro linguaggio, questo non vorrebbe dir altro che opporre una resistenza disperata al preconcetto razionalistico, rinunciando così alla supremazia, consacrata dalla ragione, del proprio essere Io. Si tratta in pratica di una capitolazione gravida di conseguenze alle forze oggettive della psiche, una specie di morte figurata corrispondente al capitolo del giudizio dei morti nel Sidpa-bardo.

Essa significa la fine della vita coscientemente razionale e moralmente responsabile e una sottomissione volontaria a ciò che il Thodol chiama l’illusione karmica.

L’illusione karmica è una convinzione o un’immagine del mondo di natura estremamente irrazionale, che non corrisponde mai, in alcun tempo e in alcun luogo, ai giudizi dell’intelletto e non ne scaturisce, ma è prodotta esclusivamente da un’immaginazione sfrenata. è semplicemente un sogno o una “fantasia” che nessun benintenzionato può esimersi dallo sconsigliare, e in effetti non si comprende dapprima quale differenza sussisterebbe tra una simile fantasia e le chimere di un pazzo.

Comunque, basta spesso un leggero “abaissement du niveau mental” per scatenare questo mondo illusorio. La paura e la tenebra di quel momento corrispondono ai primi capitoli del Sidpa-bardo, ma i contenuti di questo bardo svelano gli archetipi, le immagini karmiche nella loro forma a tutta prima spaventosa. Lo stato Chonyid corrisponde a una psicosi intenzionale.

Si parla e si scrive spesso dei pericoli dello yoga, specialmente del malfamato yoga kundalini. Lo stato psicotico prodotto intenzionalmente che talvolta, nel caso d’individui dalla mente turbata, si trasforma, in determinate circostanze, in una psicosi vera e propria, è un pericolo che va preso molto sul serio.

Si tratta qui infatti di cose pericolose, con le quali non dovremmo fare nulla, anche se ne sentiamo la tentazione: è un’intromissione nel destino che, operando nel più profondo dell’esistenza umana, può aprire la strada a molti dolori, ai quali a mente sana non ci saremmo mai sognati di pensare, e ai quali corrispondono le torture infernali dello stato Chonyid che il testo illustra nel modo seguente:

“Il dio della morte ti avvolge una fune intorno al collo e ti trascina, ti taglia la testa, ti estrae il cuore, ti strappa le budella, ti lecca. via il cervello, ti beve il sangue, ti mangia la carne e ti rosica le ossa; ma tu non riesci a morire. Il tuo corpo, anche quando è fatto a pezzi, si ricostituisce. Questo ripetuto smembramento è causa di dolori e tormenti spaventosi.”[1]

Questa tortura illustra in modo eccellente il carattere del pericolo; si tratta di una disintegrazione dell’interezza del corpo-bardo che, come un cosiddetto subtle body, rende visibile la psiche nello stato che segue la morte. L’equivalente psicologico di questo smembramento è la· dissociazione psichica nella sua forma deleteria, la schizofrenia (dissociazione dello spirito).

Questa frequentissima malattia mentale consiste essenzialmente in un pronunciato “abaissement du niveau mental”, che elimina l’ostacolo normalmente posto dalla coscienza, dando il via al libero gioco delle dominanti inconsce.

Anche il passaggio dallo stato Sidpa a quello Chonyid è un pericoloso rovesciamento delle aspirazioni e delle intenzioni dello stato conscio, un sacrificio della sicurezza del conscio essere Io e un abbandonarsi alla massima insicurezza d’un gioco caotico di figure fantastiche.

Coniando l’espressione “L’Io è la vera sede dell’angoscia”, Freud ha formulato un’intuizione molto vera e profonda. La paura del sacrificio di sé sta in agguato in ogni Io e dietro ogni Io, poiché quella paura è la pretesa, spesso contenuta solo a stento, delle potenze inconsce di giungere a esercitare interamente la propria influenza.

Nessuno può divenire Sé (individuazione) senza sottostare a questo pericoloso passaggio, poiché anche ciò che temiamo fa parte dell’interezza della psiche, il sub o supermondo delle dominanti psichiche, dal quale l’Io si è emancipato soltanto a fatica e soltanto fino a un certo livello, verso una libertà più o meno illusoria.

Questa liberazione è un’impresa eroica certamente necessaria, ma niente di definitivo, perché è la creazione di un soggetto al compimento del quale occorre ancora l’opposizione dell’oggetto. Sembra a prima vista che questo oggetto sia il mondo che anche a questo fine è gonfiato dalle proiezioni.

Cerchiamo e troviamo le nostre difficoltà, cerchiamo e troviamo il nostro nemico, cerchiamo e troviamo ciò che è amato e prezioso, e fa piacere sapere che tutto il male e tutto il bene sono al di fuori, in un oggetto visibile dove è possibile superarli, punirli, annientarli o benedirli. Ma la natura stessa non permette il perdurare di questo paradisiaco stato d’innocenza del soggetto. 

Ci sono persone, e ci sono sempre state, che non possono far a meno di ritenere che il mondo e quel che vi si esperimenta siano di natura allegorica e rappresentino esattamente quel che giace profondamente nascosto nel soggetto stesso, nella sua propria realtà trans-soggettiva.

Secondo la dottrina lamaistica, questa profonda intuizione è lo stato Chonyid, ragione per cui il Chonyid- bardo porta anche il titolo bardo dell’esperienza della realtà.

La realtà, di cui si fa esperienza nello stato Chonyid è, come insegna il testo nell’ultimo capitolo del Chonyid- bardo, la realtà dei pensieri.

Le “forme del pensiero” appaiono come realtà, la fantasia assume forma reale, e il sogno spaventoso, evocato dal karma e dalle dominanti inconsce, comincia. Per primo appare, come compendio di tutti i terrori, l’annientatore dio della morte; seguono (leggiamo il testo all’indietro), ventotto potenti orribili dee e cinquantotto “divinità vampiri che” nonostante il loro aspetto demoniaco che rappresenta un confuso caos di mostruosità e di attributi spaventosi, si comincia già a intravedere un certo ordine.

Sono compagnie di dèi, ordinate secondo le quattro regioni celesti e contrassegnate da tipici colori mistici. Diventa sempre più chiaro che le divinità sono organizzate in mandala [cerchi] contenenti la croce dei quattro colori i quali si riferiscono a quattro forme di saggezza:

1. Bianco = il sentiero di luce della saggezza simile a specchio. 

2. Giallo = il sentiero di luce della saggezza della parità.

3. Rosso = il sentiero di luce della saggezza che discerne.

4. Verde = il sentiero di luce della saggezza che tutto opera.

Su un gradino più alto dell’intuizione, il dipartito sa che le vere forme di pensiero emanano da lui stesso, e che i quattro sentieri di luce della saggezza che appaiono davanti a lui sono le irradiazioni della sua propria “potenza” psichica. Ci troviamo così al centro della psicologia del mandala lamaitico, che ho discusso nel libro pubblicato insieme con Richard Wilhelm, Il segreto del fiore d’oro.

Continuando a seguire all’indietro il Chonyid-bardo, si sale alla visione dei quattro grandi:

1 ) il verde Amogha-Siddhi; 
2) il rosso Amitabha;
3) il giallo Ratna-Sambhava; 
4) il bianco Vajra-Sattva;
 
si termina con la splendente luce azzurra del dharma-dhatu, del corpo di Buddha, che proviene, nel centro del mandala, dal cuore di Vairochana.

Con questa visione finale si dissolvono il karma e la sua illusione; la coscienza, sciolta da ogni forma e da ogni dominio da parte degli oggetti, ritorna allo stato iniziale, atemporale, del dharma-kaya. Si raggiunge così, leggendo all’indietro, lo stato Chikhai, che compare al momento della morte.

Mi sembra che questi accenni potrebbero bastare per far conoscere in certo qual modo al lettore attento la psicologia del Bardo Thodol.

Il libro illustra una via iniziatica alla rovescia, che prepara, in opposizione alle attese escatologiche cristiane, la discesa nel divenire fisico. Lo smarrimento mondano, dovuto al totale intellettualismo e razionalismo dell’europeo, rende consigliabile per prima cosa di rivoltare il Thodol, considerandolo un’illustrazione delle esperienze iniziatiche d’Oriente, sostituendo a piacere simboli cristiani alle divinità del Chonyid-bardo. In ogni caso, la serie degli eventi descritti è uno stretto parallelo della fenomenologia dell’inconscio europeo sottoposto a un cosiddetto processo d’iniziazione, cioè ad analisi dell’inconscio.

Il processo di trasformazione dell’inconscio che ha luogo durante l’analisi è l’analogo naturale delle iniziazioni religiose artificialmente condotte, che si distinguono in via di principio dal processo naturale in quanto anticipano lo sviluppo naturale mettendo al posto della produzione simbolica appositamente scelta simboli prescritti dalla tradizione, come avviene per esempio negli Esercizi di sant’Ignazio di Loyola o nelle meditazioni yoga buddhistiche o tantriche.

Il rovesciamento dell’ordine dei capitoli che io propongo per facilitarne la comprensione non è certamente nelle intenzioni del Bardo Thodol. Anche il fatto che noi ne usiamo psicologicamente corrisponde tutt’al più a un secondo fine, forse accettato dagli usi lamaistici.

Lo scopo vero e proprio di quel libro singolare è la premura, che fa di certo una strana impressione all’europeo colto del ventesimo secolo, d’illuminare il defunto che si trova nel bardo. La Chiesa cattolica è l’unico luogo del mondo abitato da bianchi dove si possano ancora incontrare tracce sostanziali di una sollecitudine per l’anima dipartita. 

Nel campo dell’ottimistico protestantesimo esistono soltanto alcuni “rescue circles” spiritici che si occupano di rendere i defunti consapevoli del fatto che sono morti, ma in Occidente non abbiamo nulla che potremmo in qualche modo comparare con il Bardo Thodol, eccettuati alcuni scritti segreti non accessibili al grosso pubblico e alla scienza corrente. Secondo la tradizione, anche il nostro Thodol sembra essere stato annoverato tra i libri segreti (vedi l’Introduzione di Evans-Wentz all’edizione originale inglese).

Come tale, esso rappresenta un capitolo a parte della magica cura d’anime che si estende addirittura al di là della morte. Naturalmente, questo culto dei morti è razionalmente basato sulla fede nella sovratemporalità dell’anima, ma irrazionalmente sulla necessità psicologica dei viventi di fare qualcosa per i defunti. Si tratta di un bisogno del tutto elementare che assale anche i più illuminati davanti alla morte di parenti o di amici. Da qui, illuminismo o no, ogni specie di usi funerari. Persino Lenin; come un sovrano d’Egitto, ha dovuto sopportare l’imbalsamazione e uno sfarzoso mausoleo, certo non perché i suoi seguaci credessero nella resurrezione dei corpi. 

Ma ad eccezione delle messe per i morti celebrate dalla Chiesa cattolica, la nostra cura dei defunti è rudimentale e ferma al gradino più basso, non perché non riusciamo a convincerci a sufficienza del fatto che l’anima è immortale, ma perché, razionalizzandolo, abbiamo distrutto il bisogno psicologico. Ci comportiamo come se non lo sentissimo e siccome non si può credere alla durata dopo la morte, non si fa proprio niente. Ma il sentimento dei più ingenui segue il proprio istinto e si erige, come in Italia, sepolcri di macabra bellezza. 

A un livello di gran lunga più alto si trova la messa dei morti, destinata precisamente a ottenere il benessere psichico del defunto e non soltanto un acquietamento di sentimenti lagrimosi. Ma la più alta prodigalità spirituale a favore dei trapassati sono le istruzioni del Bardo Thodol, tanto minuziose e tanto adatte ai presumibili cambiamenti di stato del defunto, che ogni lettore attento si domanda se in fin dei conti quei vecchi saggi lama non abbiano gettato uno sguardo nella quarta dimensione, sollevando un po’ il velo che ricopre i grandi segreti della vita.

Anche se la verità dovesse rivelarsi sempre una delusione, potremmo forse essere tentati di considerare la visione del bardo in qualche modo reale. Comunque, è perlomeno inatteso e originale concepire come un minaccioso stato di sogno e di degenerazione lo stato oltre la morte, del quale la nostra fantasia religiosa si è fatta le idee più inaudite.

La suprema visione raggiungibile non compare alla fine del bardo, ma precisamente al principio, al momento della morte; quel che accade dopo è un lento scivolare nell’illusione e nell’ottenebramento fino a cadere in una nuova nascita fisica.

Si raggiunge il momento spirituale culminante alla conclusione della vita. Così la vita umana è il veicolo della più alta perfezione possibile; essa sola crea quel karma che permette al defunto di permanere, senza oggetti, nel vuoto della pienezza della luce e di riposare sul mozzo della ruota della rinascita, libero da tutte le illusioni del divenire e dello scomparire. 

La vita-bardo non comporta eterni premi o castighi, ma soltanto la discesa a una nuova vita che deve portare l’uomo più vicino alla sua meta definitiva. Ma la meta escatologica è quello che il vivente ha prodotto come ultimo e più alto frutto delle fatiche e degli sforzi della sua esistenza umana. Questa è una concezione superiore; anzi, è virile ed eroica.

Il carattere degenerativo della vita-bardo è illustrato in modo eccellente nella letteratura spiritica dell’Occidente che ci porge fino alla nausea l’impressione d’idiotica banalità dei messaggi spiritici. Il nostro criterio scientifico non esita comunque a spiegare tali messaggi come emanazioni dell’inconscio dei medium e dei presenti seduti in cerchio e ad applicare lo stesso sistema di spiegazione all’aldilà di cui si serve il nostro libro dei morti. 

È infatti evidente che l’intero libro è tratto dai contenuti archetipici dell’inconscio. Non vi si trovano, e la nostra ragione occidentale ha in questo ragione, realtà fisiche o metafisiche, ma “soltanto” la realtà di dati psichici. Sia una qualunque cosa “data” oggettivamente o soggettivamente, essa è.

E neanche il Bardo Thodol dice di più, perché gli stessi suoi cinque Buddha Dhyani sono dati psichici, e proprio questo deve apprendere il defunto, se già quest’idea non gli si è chiarita in vita, che la sua psiche e il datore di tutte le cose date sono una sola e stessa cosa. Il mondo degli dèi e degli spiriti “non è che” l’inconscio collettivo in me. 

Ma per capovolgere questa frase in modo che significhi: “l’inconscio è il mondo degli dèi e degli spiriti al di fuori di me”, non occorrono acrobazie intellettuali, ma un’intera vita umana, forse perfino molte vite di sempre maggior pienezza. A bella posta non dico “perfezione”, perché i perfetti fanno scoperte del tutto diverse.

Il Bardo Thodol era un libro segreto e tale è rimasto, qualunque sia il commento che ne facciamo, poiché per comprenderlo occorre una capacità spirituale che nessuno possiede da sé e che può essere conquistata soltanto mediante un particolare comportamento e una particolare esperienza di vita. È bene che esistano simili libri “inutili” in quanto a contenuto e a scopo. Sono destinati a coloro che non danno più molta importanza all’unità, allo scopo e al senso della nostra attuale “civiltà”.

[1] Il passo qui citato appartiene in verità al Sidpa-bardo (p. 166); tormenti analoghi figurano comunque anche nel Chonyid-bardo.