sabato 26 novembre 2022

Catarsi e Rinascita


Cabinet de reflexion - Catarsi 


La Catarsi Filosofica 


Senza un’attenta e accurata catarsi filosofica il discepolo non può e non deve pensare di avvicinarsi all’estasi filosofica, essendo questa una pratica la cui esecuzione richiede il totale scioglimento dell’anima dai lacci corporali. Leggiamo ciò che scrive Porfirio nella Sentenza n. 32:

“Da parte nostra dunque si deve far attenzione soprattutto alle virtù catartiche, considerando che è possibile raggiungerle in questa vita e che è questa la via alle virtù superiori. Perciò si deve considerare fino a dove e quanto si può estendere la catarsi: essa è infatti un allontanamento dal corpo e dal movimento passionale dell’irrazionale. Bisogna quindi dire come e fino a dove ciò si realizza. Per prima cosa, base e fondamento della catarsi è sapere di essere un’anima legata a qualcosa di estraneo e di altra natura. 

Secondariamente, partendo da questo convincimento, bisogna raccogliersi in sé (allontanandosi) dal corpo e dai luoghi, disponendosi in uno stato del tutto impassibile nei suoi confronti. Infatti chi agisce spesso secondo la sensazione, pur facendolo senza forte inclinazione e senza il godimento del piacere, è tuttavia distratto dal corpo, essendo ad esso legato dalla sensazione, poiché prova piaceri o dolori a secondo dei sensibili con immediatezza e partecipazione emozionale; soprattutto da questa disposizione è opportuno purificarlo. 

Questo si può fare se si ammettono solo i piaceri necessari e le sensazioni a titolo di medicine o di alleviamento delle pene, in modo che non siano di intralcio. Bisogna eliminare i dolori: e se non è possibile, è necessario sopportarli, magari alleviandoli, senza rimanerne coinvolti. E necessario eliminare per quanto è possibile, magari del tutto, l’animo irascibile. 

In caso contrario, non si confonderà certo la libera scelta, ma l’impulso istintivo sarà di altra natura e, questo stesso impulso, debole e breve; la paura invece deve essere assolutamente soppressa; non si dovrà infatti aver paura di nulla – anche qui ci potrà essere un impulso iniziale -, si potrà tuttavia usare insieme l’ira e la paura come ammonimenti. Si dovrà estirpare alla radice la concupiscenza di ciò che è impuro. 

Per quel che riguarda il mangiare e il bere, ci si atterrà a ciò che è necessario, per quel che riguarda i piaceri d’amore, a ciò che è naturale, senza impulsi istintivi: al limite, nel sonno, ci sarà una fantasia passeggera. 

In pratica, l’anima razionale dell’uomo purificato dovrà essere pura in sé da ogni passione. Dovrà volere che quella parte che è agitata dalle passioni del corpo, si muova senza partecipazione e coinvolgimento emotivi, in modo tale che l’eccitazione si attenui subito in prossimità dell’elemento razionale. 

Se la catarsi si compie, non ci sarà più allora lotta interiore, ma basterà la presenza della ragione a cui sarà sottomessa la parte inferiore: di conseguenza, la stessa parte inferiore non sopporterà di essere del tutto agitata, e deplorerà la sua stessa debolezza, poiché non è rimasta impassibile alla presenza del suo padrone. 

Comunque si tratta ancora solo di passioni moderate che tendono all’impassibilità; solo quando sarà completamente purificato dalle passioni, subentrerà l’impassibilità; la passione infatti prende corpo quando la ragione glielo rende facile a causa della forte inclinazione”.



Ebbene, in che modo ed eseguendo quali riti il novizio della Scuola Ermetica può aspirare ad una catarsi completa, ossia a quella purificazione dell’anima che gli permetta un graduale approccio al mondo divino? Per meglio dire a quella purificazione che consiste nell’isolare l’anima affinché non si unisca ad altro e non guardi ad altro e non abbia più idee che si riferiscano ad altre realtà, qualunque sia la forma delle idee o delle passioni, né si volga ad immagini interiori, né con esse si procuri delle passioni? 

Il rito di purificazione che il Novizio riceve al momento della sua iscrizione nella Scuola è il Rito Lunare. Tuttavia nella suddivisione quaternaria dell’uomo noi apprendiamo, prima di ogni altra cosa, dell’esistenza del Corpo Saturniano che è la parte corporea e sensitiva del nostro essere uomo. Ci domandiamo: il nostro corpo saturniano viene o no sottoposto a un trattamento rituale di purificazione?
 
La risposta ce la dà Porfirio. Egli scrive:

“Perciò si deve considerare fino a dove e quanto si può estendere la catarsi: essa è infatti un allontanamento dal corpo e dal movimento passionale dell’irrazionale.” Con questa parole si parte da un punto fermo: la catarsi porta a una separazione dal corpo”.

Vedremo fra poco da chi, come e in che misura il corpo deve propiziare questa separazione affinchè la catarsi si compia. Ma perché parliamo di separazione? La risposta a questa domanda è nelle prime parole di Porfirio: è questa la via alle virtù superiori. Ma per poter andare avanti desideriamo sapere quali sono queste “virtù superiori” e per quale motivo dobbiamo sottoporci a un’impresa così complessa per raggiungerle. Porfirio risponde così: perché la nostra “anima è legata a qualcosa di estraneo e di altra natura”. 

Una volta stabilito il punto di partenza scopriamo subito dopo che il “qualcosa di estraneo” è il nostro corpo ed è questo il motivo per cui i Filosofi e i Maestri non si sono preoccupati di trattarlo ritualmente. Hanno previsto per il corpo una serie di prescrizioni che rientrano in quelle tante norme comportamentali, igieniche e sanitarie di cui si occuparono sin dall’antichità sia i sacerdoti egiziani sia i filosofi pitagorici riassunte nei precetti del “tenore di vita pitagorico”. Con questo non voglio dire che il corpo saturniano è stato sottovalutato, al contrario, solo con una conoscenza scrupolosa delle sue molteplici funzioni riusciremo a separarci da lui.

Restando sul livello corporale Porfirio non lo sottovaluta affatto. Una volta persuasi dell’estraneità del corpo fisico, il prossimo passo è l’esercizio della “concentrazione e del silenzio” “disponendosi in uno stato del tutto impassibile nei suoi confronti”. Sulla “concentrazione e il silenzio” siamo abbastanza informati perché un esercizio di questo tipo ci è stato trasmesso da Luce, discepolo pitagorico di Reghini.

Mentre sull’ “impassibilità” non sappiamo nulla, come uomini del nostro tempo agitato abbiamo la necessità di sapere tutto per assimilare bene la “disposizione” richiesta da Porfirio. Per farlo chiederemo l’aiuto di Plotino il quale nella III Enneade ha dedicato all’ “Impassibilità degli esseri incorporei” un lungo capitolo. Se non assorbiamo bene la lezione ivi contenuta non saremo in condizione di fare nessun passo in avanti. Cercherò quindi di riassumere e puntualizzare l’insegnamento di Plotino. 

Plotino, per dimostrare la “impassibilità degli esseri incorporei”, parte da lontano dimostrando per prima cosa l’impassibilità della materia, il fatto che pur essendo giudicata “ricettacolo e nutrimento del divenire universale”, resta impassibile e inalterata. Non dimentichiamo che per Plotino “la materia è l’estrema propaggine dell’Anima” (per cui, propriamente, non è l’anima ad essere ‘dentro’ il corpo ma è questo ad essere dentro l’anima, la quale lo ’avvolge’ come una invisibile ‘aura’, ragion per cui, secondo la legge platonica dell’analogia, dell’imitazione e della simpatia l’anima raggiunge ugualmente l’impassibilità). Fatto ciò il prossimo ostacolo è rappresentato dal mondo sensibile verso il quale, per Porfirio, l’atteggiamento dell’anima è altrettanto netto e sicuro. Scrive:

“…sicuramente per l’anima è possibile sciogliersi dal sensibile con la presenza della forza della conoscenza, rivolta verso l’essere stesso e che lì è sempre sveglia. Infatti poco dopo nello stesso luogo questo legame intellettuale e fantastico e recettivo dell’anima (col sensibile) viene sciolto” (Porfirio).

La “conoscenza” si presenta al discepolo di Hermes con uno spettro molto ampio di possibilità e di opportunità, per un motivo molto semplice: è la porta sul cui frontone troviamo scritta la fatidica frase “conosci te stesso!”. E’ necessario attraversarla per adempiere fino in fondo all’ imperativo divino. Ecco la conoscenza che a noi tutti interessa: se ignoriamo chi siamo non imboccheremo mai la strada di una perfetta impassibilità e quindi di una sicura separazione dai legami corporei. Nello scritto di un discepolo del Kremmerz si legge: “L’obiettivo del primo separando è la perfetta conoscenza di noi stessi, la conoscenza più profonda del significato del nostro corpo saturniano…”

Il destino ultimo dell’uomo, chiarisce come l’uomo sia in grado di conoscere sé stesso e riguadagnare la propria origine. In primo luogo l’anima, al momento della morte fisica, si libera del corpo che viene lasciato in balia dell’alterazione, la forma si dissolve, l’indole è abbandonata al demone, i sensi fisici ritornano alle loro origini e si ricompongono nelle forze cosmiche, l’animo irascibile e quello concupiscibile si riversano nella natura irrazionale. 

L’anima dell’uomo può ora cominciare la sua risalita attraverso le sette sfere celesti, liberandosi in ciascuna degli influssi di cui si era caricata durante la caduta. L’astralità che viene assegnata al novizio al momento dell’entrata nella Fratellanza, segna l’inizio di questo percorso. Così alleggerita l’anima entra nel cielo delle stelle fisse, dove si unisce alle altre anime beate; entra poi nel coro delle potenze che stanno al di sopra della otto divinità primordiali e a quelle si assimila, per raggiungere da ultimo l’ottimo fine a cui aspira chi ha ottenuto la conoscenza: diventare simile a dio.

Caduti nella genesi, noi crediamo che la realtà del nostro essere sia il corpo che vediamo e, come afferma Platone siamo circondati dall’ignoranza, non riconosciamo più la nostra dignità interiore, trascinati dall’orgoglio, costruiamo castelli di sabbia e poi con orgogliamo li demoliamo. «Conosci te stesso» è dunque un’esortazione a spogliarsi del sensibile, a riconoscere in noi l’anima e l’intelletto, l’uomo perfetto di cui ciascuno di noi è l’immagine. 

Il dio esorta a non con fondere l’immortale con il corruttibile. In Porfirio la nozione del « conosci te stesso » è svolta alla luce delle sentenze «pitagoriche»: adattandola al suo contesto, cita dapprima l’esempio in cui il corpo che ci sta attaccato è paragonato alla membrana che avvolge l’embrione nel seno materno e allo stelo in cui è contenuta la spiga di grano; ambedue, membrana e stelo, quando il feto e il grano giungono a maturazione, sono gettati via: così anche il corpo, in cui è inseminata l’anima, non è la vera parte dell’uomo, ed è necessario liberarsi dall’inclinazione passionale verso di esso.

La liberazione si ottiene mediante la conoscenza di se stessi, il riconoscere cioè il valore temporale del corpo, che ci lega al basso e al mortale, e vedere in esso un ostacolo alla conoscenza dell’incorruttibile e del divino che è in noi. Porfirio cita inoltre altre due sentenze «pitagoriche»: per raggiungere la salvezza dell’anima dobbiamo impegnarci a sostenere quelle stesse fatiche che altri affrontano per soddisfare i piaceri del corpo, esercitandosi così nella corsa verso il fine ultimo dell’unione con Dio. 

L’uomo che conosce sé stesso è in grado di salire a dio, e per questo motivo la sua diventa una scelta di vita, che lascia due sole alternative: o la condizione umana viene superata in vista dell’unione con la divinità, oppure l’uomo si abbrutisce totalmente nella materia e si perde quindi nella morte dell’anima e dell’intelletto.

L’intelletto, sede della conoscenza, si rivela così lo strumento che permette all’uomo di liberarsi dalla sua condizione mortale: come abbiamo visto, quest’uomo possiede gli strumenti per superare il presente e costruirsi il futuro, un futuro che coincide con il suo ingresso in dio, ovvero con il suo diventare simile a dio. Per mezzo di una costante disciplina magica e rituale si potrà aspirare alla teurgia sacra la quale gli permetterà di liberarsi del corpo, abbandonandolo al mutamento. Illuminato da dio, guadagnata la luce della conoscenza che è conoscenza di sé, si avvia lungo i sentieri siderei ripercorrendo a ritroso il cammino compiuto dall’anima durante la sua rovinosa caduta.

Questa è la rinascita svelata da Hermes, e che l’adepto deve impegnarsi a non rivelare a nessuno. Per mezzo suo si supera il corpo fisico per entrare in un corpo «composto di potenze», che è indissolubile e immortale, si diviene consapevoli di «essere figli dell’Uno» e alla fine si diviene simili dio. A parte ciò il corpo oppone numerose altre difficoltà alla purificazione e alla risalita dell’anima: le passioni (tra le quali, la pigrizia mentale), l’irascibilità, la concupiscenza affezioni che molto spesso dominano non solo la natura corporea, sfidano la nostra intelligenza e aggrediscono la parte razionale dell’anima. 

Svegliarsi con il corpo equivale a trascorrere da un sonno all’altro, passare in un altro letto; il vero risveglio è quello che porta lontano dal corpo. Anzi, «il vero risveglio consiste nell’alzarsi senza corpo» (Plotino, III 6, 6). L’anima ama dio e con lui vuole unirsi, perché la vita sulla terra, esito di una caduta, di un esilio, di una perdita delle ali, è dominata dall’amore volgare. Invece il vero oggetto d’amore sta altrove e con lui l’uomo ha la possibilità di unirsi, se si libera della carne. 

Sciolto dai legami che lo uniscono agli altri esseri e alla materia, l’uomo può allora recuperare quella parte perduta in seguito alla separazione dall’Uno, e alla fine la contemplazione sarà costante e continua, quando non ci sarà più l’ostacolo del corpo. Allora e solo allora, «se l’anima conosce sé stessa…se sa che il centro è l’origine del cerchio, volteggerà attorno al centro da cui è uscita…si raccoglierà in quel punto…portandosi verso di esso» ed è allora, che le anime «sono dei».

Per mezzo della teurgia sacra egli riesce a liberarsi del corpo, abbandonandolo al mutamento. Illuminato da dio guadagnata la luce della conoscenza che è conoscenza di sé, dell’essere l’uomo esso stesso dio, anche se dio mortale, l’uomo esce dal corpo a tre dimensioni, dissolubile e mortale, e si avvia lungo i sentieri siderei ripercorrendo a ritroso il cammino compiuto dall’anima durante la sua rovinosa caduta. 

Questa è la rinascita svelata da Ermete, e che l’adepto deve impegnarsi a non rivelare a nessuno. Per mezzo suo si supera il corpo fisico per entrare in un corpo «composto di potenze», che è indissolubile e immortale, si diviene consapevoli di «essere dio e figli dell’Uno» e alla fine si diviene simili al dio.