venerdì 9 febbraio 2024

Paracelso Come Fenomeno Spirituale

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Paracelso Come Fenomeno Spirituale

Tratto dal libro di Carl Gustav Jung.
Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim detto Paracelsus o Paracelso (Einsiedeln, 14 novembre 1493 – Salisburgo, 24 settembre 1541)

Magia

Lo scetticismo e lo spirito di ribellione di Paracelso si arrestano non solo dinanzi alla Chiesa, ma anche dinanzi all’alchimia, all’astrologia e alla magia, nelle quali egli crede come se si trattasse di Verità rivelate, perché gli provengono dall’autorità del lumen naturae. Parlando dell’ufficio divino del medico, egli dichiara: “Io sotto il Signore, il Signore sotto di me, io sotto di Lui all’infuori del mio ufficio ed Egli sotto di me all’infuori del Suo ufficio.” 

Qual è lo spirito che anima queste parole? Non ci richiamano forse alla mente quelle del successivo Angelus Silesius? Io sono grande quanto Dio, ed Egli e piccolo quanto me; Egli non può stare sopra di me, ne io sotto di Lui.

Non si può negare che in queste righe la parentela divina dell’Io umano avanzi chiaramente la pretesa di avere udienza e di essere riconosciuta in quanto tale. E proprio lo spirito del Rinascimento a conferire all’uomo, nella sua potenza, nel suo raziocinio e nella sua bellezza, un posto ben visibile accanto alla divinità. Deus et homo in un senso nuovo e senza precedenti! 

Agrippa von Nettesheim, contemporaneo di Paracelso, sebbene più anziano di lui, e per Paracelso un’autorita in materia di Cabala, dichiara nel suo libro scettico e provocatorio che ha per titolo De incertitudine et vanitate scientiarum:

Nullis hic parcit Agrippa. Contemnit, scit, nescit, flet, ridet, Irascitur, insectatur, carpit omnia. Ipse philosophus, daemon, heros, deus et omnia.

(A nessuno perdona qui Agrippa. Disprezza, sa, ignora, piange, ride, s’adira, schernisce, critica ogni cosa. Filosofo, demonio, eroe, dio e tutto.)

Paracelso tuttavia non ha mai toccato simili, sciagurati, dovremmo dire, vertici di modernità. Egli si sentiva in armonia con Dio e con se stesso. La sua mente, del tutto concentrata sulla pratica della terapia che la teneva occupata senza posa, non si lambiccava mai con problemi astratti, e la sua indole irrazionale e intuitiva non si dedicò mai tanto a lungo a riflessioni logiche da architettare idee nefaste.

Paracelso aveva un padre a cui tributava rispetto e fiducia; ma, come ogni eroe che si rispetti, aveva due madri: una celeste e una terrena, la Madre Chiesa e la Madre Natura. Si può forse servire due madri? E persino se, come Teofrasto, ci si sente dei medici creati da Dio, non c’è qualcosa di sospetto nel prendere per cosi dire Dio al proprio servizio, all’interno dell’ufficio del medico? È facile obiettare che egli fece quest’affermazione, come tante altre, solo occasionalmente e perciò non e da prendere troppo sul serio.

Paracelso stesso sarebbe rimasto probabilmente sorpreso e indignato se qualcuno l’avesse preso alla lettera. Le parole che fluivano dalla sua penna scaturivano non tanto da profonde riflessioni, quanto piuttosto dallo spirito del tempo in cui egli viveva. Nessuno può pretendere di restare immune dallo spirito della propria epoca e neppure di averne una conoscenza completa. 

A prescindere dalle nostre convinzioni consce, tutti noi, senza eccezioni, in quanto particelle componenti la massa, siamo in qualche misura intaccati, coloriti o minati dallo spirito che permea le masse. La nostra libertà si estende solo fino ai confini cui giunge la nostra coscienza. 

Oltre tale limite noi soggiacciamo agli influssi inconsci dell’ambiente.

Anche se il significato più profondo delle nostre parole e azioni può esserci chiaro dal punto di vista logico, ciò nonostante tali significati continuano pur sempre a esistere e, in quanto tali, producono i loro effetti psicologici. Sia che ce ne rendiamo conto o meno, sussiste in noi la tremenda opposizione tra l’uomo che serve Dio e l’uomo che comanda a Dio. Ma quanto maggiore e tale opposizione, tanto più elevato e anche il potenziale, giacche una grande energia può scaturire soltanto da una tensione fra gli opposti altrettanto forte. 

E proprio alla costellazione degli opposti più potenti che Paracelso deve la sua energia pressoché demoniaca la quale, lungi dall’essere un puro e semplice dono divino, si accompagna a una passionalità impetuosa, alla sua litigiosità, avventatezza, impazienza, scontentezza e arroganza. Non a caso Paracelso fu il prototipo del Faust goethiano, che Jacob Burckhardt definì “un grande archetipo” presente nell’animo della nazione tedesca. 

Da Faust si diparte pero un filo diretto che, passando per Stirner, arriva fino a Nietzsche, il quale fu uomo faustiano quant’altri mai. Ciò che ancora manteneva l’equilibrio nel caso di Paracelso e di Angelus Silesius – “Io sotto Dio, e Dio sotto di me” – andò perso nel ventesimo secolo, e il piatto della bilancia sprofonda ora sempre di più sotto il peso crescente di un Io che si ritiene vieppiù simile a Dio.

Ad Angelus Silesius lo accomunava da un lato la pieta interiore e, dall’altro, la commovente ma pericolosa semplicità del suo rapporto religioso con Dio. Tuttavia, accanto a questa spiritualità e in contrapposizione con essa, si fa sentire in lui lo spirito ctonio, in una misura quasi inquietante: non vi è per cosi dire alcuna forma di mantica o di magia che egli non pratichi personalmente o non consigli ad altri di praticare. 

Non ci si può occupare di simili arti – per quanto uno possa credere di essere illuminato – senza correre rischi sul piano psicologico. 

La magia e sempre stata – e rimane tuttora – un elemento fascinosum.

Ai tempi di Paracelso, certamente, il mondo pareva ancora ricco di prodigi: ciascuno era consapevole dell’immediata prossimità delle forze oscure della natura. L’uomo di quell’epoca era ancora vicino alla natura, e l’astronomia non era separata dall’astrologia. Keplero traeva ancora oroscopi. Invece della chimica esisteva solo l’alchimia. Era considerata una cosa normale e ovvia servirsi di amuleti, talismani, incantesimi per sanare le ferite e guarire le infermità. 

Una natura cosi avida di sapere come quella di Paracelso non poteva fare a meno di investigare, nel modo più approfondito, tutti questi aspetti, per scoprire che da siffatte pratiche scaturivano effetti singolari e notevoli. Per quanto io ne sappia, pero, non si pronuncio mai in modo chiaro sui pericoli psichici che la magia poteva presentare per l’iniziato. Egli rivolge perfino un diretto rimprovero ai medici, che non capivano nulla di magia, senza dire pero che essi se ne tenevano lontani per un timore abbastanza fondato. 

E tuttavia sappiamo dalla testimonianza dello zurighese Conrad Gessner che proprio i medici accademici che Paracelso tanto avversava si astenevano dalla magia per motivi religiosi e che essi rivolgevano a lui, e ai suoi discepoli appunto, quest’accusa. In una lettera a Crato von Crafftheim, a proposito di Adam von Bodenstein, discepolo di Paracelso, Gessner scrive: “So che la maggior parte di questa gente e ariana e nega la divinità di Cristo (…) 

A Basilea Oporino, un tempo discepolo di Teofrasto e suo assistente personale (familiaris), ha riferito storie bizzarre sui rapporti di quest’ultimo con i demoni. Essi (i discepoli) si dedicano a forme insensate di astrologia, geomanzia, negromanzia e altre arti proibite di tal genere. Io stesso sospetto che siano discendenti dei druidi, quelli che fra gli antichi celti venivano istruiti per alcuni anni dai demoni in luoghi sotterranei. 

E anche certo che cose del genere si continuano a verificare tuttora a Salamanca, in Spagna. Da quella scuola erano anche soliti dipartirsi i cosiddetti scholastici vagantes, il più famoso dei quali, Faust, mori non molto tempo fa. 

In un altro passo della medesima lettera, Gessner scrive: “Teofrasto e stato certamente un uomo empio e un mago, e ha intrattenuto rapporti con i demoni.” Sebbene tale giudizio si basi in parte sulla testimonianza inattendibile di Oporino e sia in se e per se ingiusto o addirittura falso, tuttavia esso dimostra come i rinomati medici di allora considerassero disdicevole l’interesse di Teofrasto per la magia. 

In Paracelso non troviamo, come si e già detto, scrupoli di tal genere. Egli fa rientrare la magia, come ogni altra materia degna di essere conosciuta, nella sfera dei suoi studi e tenta di sfruttarla sotto il profilo medico a beneficio dei malati, senza preoccuparsi affatto delle eventuali ripercussioni sulla sua persona o delle implicazioni, per esempio in campo religioso, che l’interesse verso tali arti avrebbe potuto avere. 

In fin dei conti, la magia e la sapientia della natura trovavano il loro posto, nella sua concezione, all’interno dell’ordine stabilito da Dio, come mysterium et magnale Dei; cosi non gli risultò difficile attraversare l’abisso in cui meta del mondo era sprofondata. 

Anziché lacerarsi in cuor suo, trovo il suo grande Nemico all’esterno, nella figura delle grandi autorità mediche del passato, come pure nella schiera dei medici accademici contro cui sferrava i suoi attacchi, da autentico mercenario svizzero qual era. S’infuriava oltre ogni misura per la resistenza dei suoi avversari e si creava nemici dappertutto. Fu un uomo infaticabile tanto nelle sue esperienze e vagabondaggi, quanto nello scrivere. 

Il suo stile e pesantemente retorico. Sembra che egli parli sempre rivolgendosi con insistenza a qualcuno, a qualcuno che pero non vuol saperne di starlo a sentire o che e talmente insensibile da respingere anche le migliori argomentazioni.

Ogni sua esposizione scritta e di rado sistematica o anche semplicemente coerente; e invece costantemente inframezzata da ammonimenti di tipo ora più sottile, ora più grossolano rivolti a un uditore invisibile, affetto da sordità morale. 

Paracelso e un po’ troppo sicuro di avere il nemico davanti a se, e non si accorge di albergarne uno in petto. Lui stesso e, diciamo cosi, composto di due persone diverse che non vengono mai a confronto. In nessun passo dei suoi scritti egli lascia trapelare il sia pur minimo sospetto di poter non essere in consonanza con se stesso. 

Si sente come un’unita indivisibile, e tutte le cose che lo contrastavano continuamente dovevano essere per forza i suoi nemici esterni. Di loro deve aver ragione, e a loro deve dimostrare di essere il Monarcha, il dominatore sovrano, ossia proprio quello che lui, in segreto e inconsciamente, non era. 

Giacche il suo conflitto era talmente inconscio che egli non si rendeva conto del fatto che, nell’intimo, c’era un altro che spadroneggiava in casa sua e che contrastava ogni cosa che il primo desiderasse fare. In questo modo si esprime ogni conflitto inconscio: ci si ostacola con le proprie mani e da soli ci si scalza via il terreno sotto i piedi. Paracelso non si accorge che la verità della Chiesa e il punto di vista cristiano non avrebbero mai e poi mai potuto conciliarsi con l’idea di fondo, implicita nell’alchimia, che e quella del “Dio sotto di me”. 

E quando qualcuno lavora inconsciamente contro se stesso, ne derivano impazienza, irritabilità e una brama impotente di sopraffare il proprio nemico, con ogni mezzo e una volta per tutte. Di solito compaiono determinati sintomi, tra i quali figura anche un particolare uso del linguaggio: ci si vuole esprimere con energia per impressionare l’avversario; perciò si impiega un particolare stile, vibrato e ricco di neologismi, che si potrebbero definire come un insieme di “parole di potere”. 

Possiamo osservare questo sintomo non soltanto nella clinica psichiatrica, ma anche in certi filosofi moderni e soprattutto la dove si debba far valere un argomento privo di credibilità, a dispetto della propria resistenza interiore: il linguaggio si gonfia, supera se stesso, conia termini inusitati che si distinguono per la loro inutile complessità. 

Alla parola viene affidato tutto ciò che non si e potuto ottenere con mezzi onesti. E l’antica magia della parola, che talvolta può degenerare in una vera e propria mania. 

Paracelso era afflitto da questo male, a tal punto che perfino i suoi più intimi discepoli si videro costretti a compilare la cosiddetta onomastica, ossia elenchi di termini da lui usati, e a pubblicare dei commenti. Un lettore impreparato degli scritti di Paracelso inciampa di continuo in questi neologismi, e a tutta prima ne resta completamente sconcertato poiché, a quanto pare, l’autore non ritiene necessario fornire le più elementari spiegazioni anche se, come spesso succede, si tratta di un termine che compare una volta sola. 

Spesso si può giungere a un’approssimativa comprensione del senso di un termine solo confrontando tra di loro parecchie frasi. Ci sono tuttavia delle circostanze attenuanti: i medici hanno sempre avuto l’abitudine di impiegare un gergo specialistico, ricco di termini magicamente incomprensibili, anche per indicare le cose più comuni, rientra nell’arte dei medici il fatto di darsi prestigio. Pare tuttavia alquanto singolare che proprio 

Paracelso, il quale si vantava di insegnare e di scrivere in tedesco, abbia poi escogitato più intricati neologismi sposando tra loro termini latini, greci, italiani, ebraici, e forse persino arabi. La magia e insidiosa, e in questo sta il suo pericolo. In un certo passo dove parla delle pratiche compiute dalle streghe, Paracelso si lascia andare addirittura a usare il loro linguaggio magico, senza darne la sia pur minima spiegazione. 

Per esempio, invece di Zwirnfaden (spago), scrive “Swindafnerz”, invece di Nadel (ago) “Dallen”, invece di Leiche (cadavere) “Chely”, invece di Faden (filo) “Daphne”, e cosi via. Nelle consuetudini magiche, l’anagramma delle lettere serve allo scopo diabolico di trasformare, tramite la parola distorta magicamente, l’ordine divino in un disordine infernale. Va notato con quanta naturalezza e noncuranza egli si appropri di questi termini e lasci al lettore il compito di venirne a capo da solo. 

Ciò dimostra anche la sua considerevole familiarità con le più basse superstizioni popolari, e invano si cercherebbero tracce di qualsivoglia timore nell’accostarsi a simili sudicerie, fatto che in Paracelso non va sicuramente ricondotto tanto a una mancanza di sentimenti, quanto piuttosto a una specie di candore e di ingenuità. Egli stesso raccomanda l’uso magico di figurine di cera in certi casi di malattie, e pare che abbia disegnato e impiegato lui stesso amuleti e sigilli. 

Era convinto che i medici dovessero conoscere le arti magiche e, per il bene dei malati, non rifuggire neppure dal far uso di stregoneria. Questa magia popolare non e però cristiana; si può dimostrare che e pagana o, per dirla con le sue parole, un pagoyum.

Alchimia

Oltre ai suoi molteplici contatti con la superstizione popolare, ci fu anche un altro fatto degno di menzione che esercito un influsso “pagano” sulla sua indole: la conoscenza dell’alchimia, per la quale provava un appassionato interesse e che egli non usava soltanto per la farmacognosia e la farmacopea, ma di cui si serviva anche a scopi “filosofici”. 

Sin dai tempi più remoti l’alchimia comprendeva tuttavia una dottrina arcana, o addirittura era tale essa stessa. Con il trionfo del cristianesimo sotto Costantino, le idee pagane non scomparvero affatto, ma continuarono a sopravvivere, tra l’altro, nella bizzarra terminologia e filosofia arcane dell’alchimia. 

La sua figura principale e Ermete o Mercurio, nel suo duplice meraviglioso significato di argento vivo e di anima del mondo, accompagnato dal Sole, ossia dall’oro, e dalla Luna, che rappresentava l’argento. L’operazione alchemica consisteva essenzialmente nella scomposizione della prima materia, del cosiddetto caos, nel principio attivo, l’anima, e in quello passivo, il cosiddetto corpo, i quali poi venivano riuniti in forma personificata nella coniunctio o nelle “nozze chimiche”. 

In altre parole, la “coniunctio” veniva interpretata allegoricamente come hieros gamos, come copulazione rituale di Sole e Luna. Da tale unione scaturiva il filius sapientiae o philosophorum, il Mercurio trasformato, che era pensato come ermafrodito, per indicarne la perfezione totale [vedi Immagine1, 2 e 3].


IMMAGINE 1. Il filius o rex in forma di ermafrodito. L'”Assioma di Maria” e rappresentato da un serpente, che compare nella mano sinistra, e da tre serpenti, che egli tiene nella mano destra; il filius, in quanto mediatore, unisce l’Uno al Tre. Come e sua caratteristica, egli e dotato di ali di pipistrello; a destra si vede il pellicano, simbolo della distillatio circulatoria; sotto, la triade ctonia in figura di serpente tricefalo; a sinistra, l’arbor philosophica con i fiori d’oro. [Rosarium philosophorum (1550)]




IMMAGINE 2. Il Rebis: dal Libro della Santa Trinita… e descrizione del segreto della trasmutazione dei metalli (1420), nel Codex Germanicus N. 998 (Staatsbibliothek di Monaco). Uillustrazione e servita probabilmente da modello per l’ermafrodito del Rosarium (img. 1).



IMMAGINE 3. Lo Spiritus Mercurialis e le sue mutazioni nella figura di un monstrum (Draco). E una quaternita in cui il Quarto costituisce al tempo stesso l’unita di tutti. L’Unita e Ermete mistagogo. Da sinistra a destra, in alto, si vedono Luna e Sole in congiunzione nel Toro, che e il domicilium Veneris. Insieme, essi formano Mercurio. [Nazari, Della trasmutazione metallica sogni tre (1999)]

Nonostante i suoi aspetti chimici, l’opus alchymicum era sempre inteso come una specie di atto cultuale nel senso di un opus divinum; per tale motivo, ancora all’inizio del sedicesimo secolo Melchior Cibinensis poté rappresentarlo nella forma della messa, dopo che già molto tempo prima il Filius – cioè il Lapis – philosophorum era stato considerato come un’allegoria di Cristo. 

Alla luce di questa tradizione e possibile dunque comprendere molti aspetti di Paracelso che altrimenti rimarrebbero insondabili. In questa dottrina arcana si possono individuare, praticamente, le origini dell’intera filosofia di Paracelso, per quanto essa non sia cabalistica. Dai suoi scritti risulta evidente che egli possedeva una conoscenza non indifferente della letteratura ermetica. 

Come tutti gli alchimisti medievali, non pare essere stato consapevole della vera natura dell’alchimia, sebbene il tipografo basilese Waldkirch si rifiutasse, ma soltanto verso la fine del sedicesimo secolo, di stampare la prima parte dell’importante trattato Aurea hora, erroneamente attribuito a san Tommaso, a causa del suo carattere “blasfemo”; un fatto, questo, che dimostra come perfino i profani della materia, a quei tempi, non fossero affatto inconsapevoli della natura ambigua dell’alchimia a questo riguardo. 

A me pare certo che Paracelso avesse un atteggiamento del tutto ingenuo rispetto a tale questione e che, preoccupandosi esclusivamente di recar giovamento ai malati, usasse l’alchimia principalmente come metodo pratico, senza curarsi del suo sostrato tenebroso. 

A livello conscio, per lui l’alchimia equivaleva a una conoscenza della materia medica e a un procedimento clinico per preparare medicinali, specialmente i tanto amati arcana, i medicamenti segreti. 

Ma egli credeva anche che si potesse fabbricare oro e produrre homunculi. Questo suo aspetto preponderante ci potrebbe quasi indurre a trascurare il fatto che per lui l’alchimia rivestiva anche un altro, più importante significato, come possiamo dedurre da una breve osservazione del Paragrano. Egli vi afferma che il medico stesso viene “fatto maturare” dall’alchimia. 

Ciò parrebbe significare che la maturazione alchemica dovrebbe accompagnarsi a una maturazione del medico. Se non sbagliamo in tale assunto, dobbiamo allora concludere non solo che Paracelso era a conoscenza della dottrina degli arcana, ma anche che era convinto della sua bontà. 

E ovviamente impossibile provare una simile affermazione, senza condurre un esame minuzioso dei testi, in quanto anche quegli apprezzamenti per l’alchimia, continuamente ricorrenti, potrebbero limitarsi esclusivamente all’aspetto chimico. 

Questa sua particolare predilezione l’ha reso un precursore e un pioniere della moderna medicina chimica. Persino la fede nella trasmutazione dei metalli e nel lapis philosophorum, che egli condivideva con molti altri, non vale ad attestare una sua più profonda affinità con lo sforzo mistico dell’ars aurifera. E tuttavia tale relazione e alquanto probabile, dal momento che fra i medici alchimisti si trovavano alcuni suoi diretti discepoli.