venerdì 22 marzo 2024

La Morte

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ANT DEATH SPIRAL CHAMBER 

 La Morte 

Visto il perdurare dell’interesse per questo passaggio cruciale dell’umana esperienza, lascio ancora una volta la parola a Giuliano Kremmerz affinché prosegua la sua esposizione dell’argomento. Se avrete la pazienza di dipanare le parole, che si ingarbugliano in periodi tropo lunghi, con un eccesso e a volte una mancanza di virgole, allora apprezzerete il testo dirompente. E chi mi ha domandato come mai Giuliano è osteggiato da molti, comprenderà la risposta. Aggiungo solo due righe tratte da “Guarigione Esoterica” di Alice Bailey. 
di Oldanator

In un antico scritto si leggono queste parole simboliche:

Disse il Padre al Figlio:
Va, e prendi ciò che non è te stesso, ciò che non è tuo ma Mio.
Fa come fosse tuo e scopri perché è apparso.
Che sembri essere te stesso.
Scopri così il mondo dell’annebbiamento, della grande illusione, il mondo dell’inganno.
Poi impara che hai preso ciò che non è scopo dell’anima.
E quando giunge il momento, in ogni ciclo appare l’inganno e il furto, e si ode una voce.
Obbediscile. È la voce di ciò che in te ode la Mia, una voce inaudita da chi ama rubare.
L’ordine si ripete:
“Restituisci ciò di cui ti sei impossessato. Impara che non è per te”.
A intervalli maggiori quella voce comanda:
“Restituisci ciò che hai preso in prestito; salda il debito.”
E, imparate tutte le lezioni, la stessa voce dirà:
“Ridai con gioia ciò che fu Mio, che fu tuo, e ora è nostro.”
“La forma non ti serve più. Sei libero.”

Se ancora permarrà questo interesse, approfondiremo quanto Alice Bailey ci riporta.

Da i Tarocchi dal punto di vista filosofico – 

Più che molti santi della chiesa, Kardec, Leon Denis, d’Alveidre, Schuré, Flammarion e i numerosi mistici contemporanei, di seconda linea, hanno diritto all’umana gratitudine. Creature bersagliate dalle tempeste della vita, dalla violenza di sciagure improvvise, da turbamenti spirituali, brancolanti nel buio di una mancanza assoluta di fede nella religione dei padri, doloranti e isolate nella vita dopo la sparizione di persone carissime, hanno trovato assai spesso salvezza, oblio, speranza e fede viva, nella lettura della prosa poetica di questi supremi artisti della consolazione. Che importa se facendo ballare un tavolo a tre gambe non si produca fenomeno approvato dalla scienza officiale e dal sacerdote? Le pene dell’anima vi trovano conforto e gli spasimi un sollievo e questo è, incoscientemente, un atto di magia consolatrice delle anime sanguinanti.

Un poeta americano, Mortimer Clapp, ha scritto che la realtà (la verità) è un momento furtivamente lucido tra due sogni. La concezione della vita, pensiero e visione, come un sogno, fu formulata dal Calderon; il vivere è un sogno e ogni sogno è vita. Un anonimo, preparatore della Rivoluzione del ’93, scrisse che l’utilità delle religioni è di sovrapporre alla crudeltà delle pene di ogni momento, una speranza continuata in un sogno che fa capo alla Morte, l’ultima pena e l’ultimo sogno.

Come ogni volta che una grande catastrofe si abbatte sugli uomini, l’immediato periodo del dopo guerra ha generato un’inondazione mistica in tutta l’Europa; se ne sono avvantaggiate le religioni per quel credo quia absurdum che è la base della contradizione tra ragione critica umana e fede. Mai un’ondata di scetticismo, di ribellione, di protesta, ha invaso per un più lungo momento l’umanità, ribelle alle menzogne convenzionali sulla potente azione dei cieli misericordiosi, che hanno assistito imperterriti ai clamori delle vittime: secondo misticismo di reazione alla divinità. 

Dei due stati della psiche occidentale, la letteratura ne ha risentito come espressione artistica del sentimento, la Morte, la filosofia della Morte, la psicopatia della ribellione alla Morte. Il disinganno dei patimenti lunghi. La ripugnanza a immolarsi per cause ingiuste, ove predomina la malvagità dei conduttori di popoli, asserviti alla schiavitù inutile di sfidare la morte o la mutilazione per una vanità di nazioni che i venti secoli di eresia cristiana non hanno modificata. Vanità la vita, vanità la morte, vanità la gloria e il dolore: il sogno dell’esistenza, tra un cumulo immenso di vanità, s’interrompe nel momento furtivamente lucido in cui consideri la verità nella rapida e folgorante luce della sua integrazione divina, la verità miserabile della vita umana, da cieli mutissimi non protetta, tra l’indifferenza di dii o di un solo Dio che non intervenne che a sproposito nelle faccende terrestri; crudeltà o desolazione o spasimo.

L’iniziato cerca l’elisir per vincere la morte. Prometeo? No. Prometeo, nello splendore della favola sapiente, nell’arte greca, nello scettico poetico sorriso latino, è la scienza umana, quella della società dei mortali nella convivenza della terra. L’uomo audace nella sua investigazione che monta alla con­quista di un dominio, in cui la Divinità invisibile è confinata, appartiene alla boria delle umanità. La concezione del Vico.

L’iniziato si propose il solo problema della continuità di coscienza, sorpassare il fiume dell’oblio, il pittoresco Lete, continuando senza interruzione il sogno della sua integrazione nei poteri divini.

Prometeo, piccolo dio, semidio, aspirante a sostituirsi al Dio, è la grande università della scienza dei volghi che sfida l’ignoto, nell’enunciazione della potestà meccanica di tutte le leggi infallibili, ininterrotte, della natura terrestre. La rassegnazione non è che filosofia o viltà. Il laboratorio mistico del cristianesimo cerca da secoli di inocularla nella mentalità dei popoli; come la volontà di Allah nell’Islam; come l’ineluttabilità delle fasi pel divenire nell’oriente buddico. 

Ma il pecorume occidentale si rassegna nell’impotenza dell’atto ribelle? Nell’ora estrema, innanzi alle ingiustizie stridenti, le anime più vecchie, le più antiche, le più libere si rivoltano. Il mito della ribellione degli angeli deve essere eterno, sopra il piccolo pianeta che abitiamo, e nelle infinità dei mondi animati, nei sistemi solari dell’Universo inconoscibile: chi sa quali rivoluzioni spirituali nascondono le stelle scintillanti nell’azzurro cielo d’Italia, che sardonicamente, in calma apparente, guardano in eterno alla nostra povertà di niente! Ai nostri piccoli orgogliosi dolori, di cui scriviamo l’epopea pazza, addebitandoli agli dei indifferenti che ci dovranno guardare, chi lo sa? Con la stessa annoiata curiosità con la quale noi contempliamo un formicaio o un nido di vespe arrabbiate!

Il sacerdote mago dell’Egitto operava l’incantesimo della mummia, la risvegliava, la preparava al viaggio. Talismani e immagini nelle fasciature, le insegnava le frodi per corbellare la divinità, nel lungo itinerario per montare, incolume, senza ostacoli, alla residenza delle cause. Filosofo teocratico, il pontefice doveva avere innanzi agli occhi il cammino nel regno delle ombre, la via sempre affollata che i morti di tutte le ore percorrono. Il libro dei morti è un monumento. Vale il peso e il lavoro della piramide di Cheope. Fortunato chi vi legge bene. La magia vi metteva il suo sigillo. Anime ribelli dovettero esservi a centinaia anche allora, in epoca di schiavitù forzata, egualmente feroce che le schiavitù dell’attuale civiltà, dell’Occidente empio, che cova l’incendio e i massacri immani.

L’iniziato deve vincere la morte, sorpassare la schiavitù della legge inesorabile. Immortale come l’invenzione di Dio. L’enigma vivente. Vedi, o lettore acuto, come siamo lontani dal misticismo religioso, dalla filosofia dell’eguaglianza dei valori umani, dall’anarchico misticismo del non valore della vita dell’uomo, dalla rassegnazione, dalla fatalità islamica e dall’ineluttabilità karmica.

Credo, o acuto amico, che nessuno ti abbia mai parlato così, faccio da Lucifero, con queste noterelle che sono piccole luci, in attesa, se tu sei libero, che diventino fiaccole irradianti. Vincere la Morte.

Religioni scomparse che hanno governato l’anima dell’uomo per millenni, credettero agli dei, e tra gli dei a un dio più potente. Gli dei, grandi e piccoli, invadenti la vita umana. Spesso dei contrari e dei amici si contendevano, come in lotta invisibile, la felicità di una creatura terrestre. Guerrieri protetti dall’uno erano avversati da un altro dio. Leggete la guerra di Troia.  Israele, che aveva vissuto nella servitù babilonese ed egizia, sfoderò il dio unico, poi il profetismo e il messianesimo. Cacciato dalla Palestina invase il mondo, con Geova, a bandiera spiegata, aspettando da venti secoli lo stato di Sion.
Monoteismo? Politeismo? Ateismo?

Lucifero, sardonico, come le stelle delle notti serene, tra il ribelle e il faceto, traccia nell’aria il segno misterioso della mano: e se la concezione dell’errore fosse la deificazione dello spirito e della ricerca e dell’ipotesi dell’uomo?
Lucifero demolitore. Prometeo bestemmia.

Questo Giove unico, prepotente, ultrapotente come una stazione marconiana, è il più ingiusto e tiranno che giammai fu concepito. Come Ea, come Nun, come Ieve ebreo. Negriero. Padrone di turbe di schiavi. L’umanità una creazione sbagliata. Un aborto. Creò imperfetto l’uomo per farsene un lacchè; peggio, per poggiargli il piede sul capo e obbligarlo a respirare il dolore. La Morte dopo una vita effimera. La cremazione del cadavere. Il pianto e la miseria dei reietti e degli impotenti.

Allora, come oggi, come domani, come sempre. Mutate il nome a Giove, resta il tipo del cattivo padrone e del pessimo padre. La misericordia, la rassegnazione, la viltà, inventate e suggerite dai propiziatori, per compiacere, calmare, impietosire il pessimo governatore. Se siamo imperfetti, malati, miseri, disordinati nei desideri, violenti, crudeli, è lui il colpevole, ci ha fabbricato lui così. Gli conveniva di non avere per sudditi persone diritte e immuni della caducità. Non toglie il figlio amato alla madre disperata? Non lo sposo alla sposa? Non il padre ai figli miserabili? Non nega il pane all’affamato? Il tetto al vagabondo? Il sacrificio è l’azione che più gli diletta le ore oziose. Il sacrificatore veggente contemplava gli dii a frotte, a nembi, come le mosche, accorrere ad inebriarsi del sangue della vittima immolata.

Il feroce piacere della morte violenta è di origine divina. Il nettare dei calici nei celesti simposi doveva sentire di sangue, e l’ebbrezza di crudeltà, e il riso balordo dell’ubriachezza saporito dai dolori degli umani!

Prometeo, il formatore dell’uomo[1], al quale Minerva, l’intelligenza divina della sapienza umana, portò il contributo dei doni celesti. Il piccolo dio sentì la logica rivolta, orgogliosa di lotta, contro questo Padre senza visceri per i lamenti della larga figliolanza, e divenne scienza investigazione, audacia, temerità: divenne sapienza umana, pronta a scalare i più lontani Olimpi.
La favola.
Prometeo fabbrica l’uomo, Minerva ammira la creazione da lui compiuta e vi trasfonde la timidezza della lepre, l’astuzia della volpe, l’ambizione del pavone, la crudeltà della tigre e la forza del leone. A Prometeo domandò che cosa dovesse prendere nei cieli per completare la sua fattura, e Prometeo chiese di andare egli stesso nelle divine regioni per scegliere a proposito. Accompagnato dalla dea, rubò in alto il fuoco sacro e lo portò sulla terra. Ira di Giove, che scaraventa sulle sue braccia Pandora. Giove e gli dei tutti, visto l’uomo fabbricato da Prometeo, crearono anche essi un essere vivente, una donna, a cui ogni divinità fece dono di sue virtù. Bella, seducente; irresistibile, giovane, il vecchio dio la inviò a Prometeo perché se ne innamorasse, e le dette un cofano sigillato perché lo offrisse in dono di nozze al suo sposo.

Prometeo, astuto, si sottrasse all’inganno e rifiutò la seduzione, ma volle egli stesso prendere per l’inganno Giove e costui, irritato ed implacabile, comandò a Vulcano di incatenare l’incauto piccolo dio ad una rupe. Eschilo ne ha scritto la tragedia: immensa come la sanguinante poesia della scienza dell’l’uomo, attraverso epoche lunghissime, contro il prepotente malvolere del destino inafferrabile.

Prometeo invoca cielo, terra e mare, l’etere, il vento il sole a testimoni della ingiustizia dei numi. «Giove voleva distruggere gli uomini per rinnovare il mondo, gli dei che gli facevano corona acconsentirono: io solo ebbi il coraggio di salvare l’umana razza: ecco il mio delitto.
Gli uomini selvaggi vagavano alla ventura, io detti loro le leggi, costruii case e templi, insegnai loro il corso degli astri, calcolai il tempo, svelai il mistero dei numeri, insegnai loro a coltivare la terra, a domesticare il cavallo, a navigare: ecco la mia colpa[2] »

O simpatico Prometeo borbottone, tanto hai fatto contro padre Giove intollerante, invidioso, ingiusto; tutto hai potuto ottenere col fuoco rapito ai cieli[3] e non hai sfatato l’Olimpo, dalla sua tirannide non hai emancipata l’umanità schiava. Sei restato confisso alla montagna, scheletro della Terra, bestemmiando, ma perché non hai insegnato all’uomo come vincere la Morte?

Non hai vinto il destino degli umani. Non lo potevi? Non lo puoi vincere? La tua sapienza non lo potrà mai? Dureranno in eterno i periodi di veglia e di sonno, di luce e oscurità, di vita e di morte? Il sole sorgerà per infinite aurore, tramonterà in continue notti, in eterno? Ma che il tuo genio di creatore in lotta con i numi non sia uno dei paradossi del genio alla maniera del Lombroso, che precipita nel suicidio della razza umana? Che provocata dalla temerità delle tue conquiste, in­cosciente, non prepari, nuova Atlantide, diluvi e sparizioni di razze e di continenti[4]?
E questo il tuo delitto? Sarà questo il peccato originale delle razze future nei futuri millenni?

Lucifero ironico, come le eterne stelle del firmamento, traccia nella notte crepuscolare il segno della mano, ricerca, o mortale, il ponte sopra il Lete, sorpassalo, non t’immergere nell’oblio. Ricorda l’ieri lontano. Osiride nel breve piano del Delta. Giove nella reggia del piccolo Olimpo. Geova minaccioso e ringhioso sulla terra di Sion. Assiriel fastoso opulento a Ninive, a Babilonia, a Tiro! Sorpassa l’oblio, come hai sorpassato la vilissima età della paura, profetizzi, alla maniera giudaica, come Ezechiele, come Ezza, come Baruch. Il lontano domani è dei volghi, delle masse, delle ambizioni, le plebi saranno rinnovate e nuove plebi monteranno. La terra vomita i suoi semi, li fa germogliare in piante rugose e nane, in arbusti fiorenti, in alberi pomposi di foglie e di frutta. Apri la mano nel buio della notte, cerca e stringi la mano dell’iniziatore! Diventa re. L’integrazione dei tuoi poteri sarà eterna: non piegherà innanzi al destino degli uomini e delle plebi intellettuali. Nell’oscurità densa non diventar pazzo d’orgoglio e mistico, dici e non disdire, la parola magica, il verbum, è realtà, è creazione. È necessario. Il pontefice mago della magica caldea, conta la sua mistica istoria.

Mamo Rosar Amru, colui che mai conobbe la Morte, eternamente giovane e mitrato, ortodosso e templario commenta: O mista, profano in attesa della sapienza, ricordati che Lucifero ti parla da ribelle, il verbum è la parola del creatore. Nella notte oscura e profonda non troverai la mano dell’iniziatore pronta a stringere la tua, il tuo piccolo nume è in te, e te lo vieta. Io sono la legge del nostro tempio più grande, non sperar trionfi.

Quando in alto il cielo non era nominato, e la terra in basso non aveva ancora nome, le acque formavano una massa sola. L’Apsu primordiale e la tumultuosa Timai erano confusi in un solo amplesso. I giuncheti non sapevano dove poggiare le tenere radici, e i densi boschetti di rose non erano ancora apparsi. Allora che nessun destino era fissato, furono creati gli dei[5].
Quanti? Senza numero. Come le stelle. Fu la parola, l’aria, il soffio il loro primo corpo. Ea, sugli abissi delle acque, fu vento, alito, respiro, sospiro: così furono nominate le cose.

Per allietare il soggiorno degli dei furono creati gli uomini, Mardruk volle così.
La semenza dell’umanità è di Aruru; quando si propose di generare l’uomo, impastò l’argilla con le gocce del suo sangue, lo posò a immagine degli dii, e ad essi preparò il culto. La creazione si compie ogni volta che piace agli dei e ogni dio può parteciparvi. Isthar presiede. Sei perciò, o mista, avvisato, che il tuo destino è la schiavitù [6].

Gli dei invisibili, che furono gli artefici del tuo essere, amano dilettarsi di te, esser serviti e adorati da te. Sei perfetto per questo, l’egoismo è la tua più spietata virtù, è nelle tue fibre, nei tuoi nervi, nel tuo sangue, è il tuo sigillo e il tuo valore: non ti diletti alla guerra, con schietta ferocia di belva, e non onori i guerrieri in sepolture ricoperte di fiori? Non hai il gusto raffinato dello spasimo altrui e della vendetta? Non hai avuto in dono un cervello a meandri, come opera di scultura, col quale hai trovato gli argomenti più sublimi, che Nebo stesso, il sottilissimo tra i numi, non saprebbe rinvenire, per coronare di belle e pie ragioni tutti i misfatti del tuo orgoglio? Gli dei se ne dilettano allegri; t’irritano di tanto in tanto, quando tu rallenti i tuoi spettacoli pazzeschi.

La viltà, la volontà di prepotere, l’ambizione sfrenata, la lussuria, il tradimento non completano la tua superba immagine?. Non ti fanno vivere tragedie ad ogni sorgere e tramontare di luna?

Migliori? Hai volontà di spogliarti della vecchia camicia insanguinata e assurgere a una purità che t’illude nelle calme ore di pace oziosa, quando la fame e la cupidigia non ti tormentano, quando i più vili e paurosi t’intessono deliziose fiabe filosofiche per addormentare in te il ricordo della leggiadra bestia che in eterno, sotto mille forme cangianti, in te permane? La tua storia, di ieri, come di oggi e di domani, non è scritta con un pennello insanguinato a larghe e profonde macchie vermiglie? Non sei superlativamente cinico nella tua filosofia dei massacri? 

1 dispotismi violenti e voluttuosi dell’Oriente non valgono le metafisiche della libertà dell’occidente, in cui la schiavitù muta forma, e le idee, espresse con parole di convinzione, sono più gravi che le catene pesanti e rugginose degli antichi imperi? Credi che allora, attraverso i lontani millenni, non vissero i felici, i poveri, gli abietti, i violenti, i crudeli, i vili pacifici, i lussuriosi, i martiri, come ora, come domani, in città più superbe e ricche delle vostre grandi metropoli, con palagi e giardini insuperabili, con tempi in cui l’oro e le gemme vi erano profusi? Babilonia non apriva al sole cocente la magnificenza artistica delle sue ricchezze e la seduzione dei suoi incanti? Lucifero spirito della ribellione, allora, come oggi, motteggiava. Ai suoi ispirati la lingua era tagliata o strappata con tenaglie roventi: agli offensori del diritto divino del comando il carnefice svuotava le orbite, e le carni a brandelli erano date a divorare ai cani feroci del tempio di Nergal…

Lucifero, ironico, crudele, batte le palpebre in segno di assenso e parodiando il pontefice difensore degli invisibili Dei, con voce cavernosa conchiude:

– O Mista, il verbo della tua schiavitù è fatto sangue e carne in te; il tuo destino è scritto.
Poi sogghigna e i suoi occhi scintillano, come diamanti puri, di luce viva, come di folgore.

Ai tempi di Roma, Caldeo voleva dire mago. Erano Caldei o pretesi Caldei che facevano da indovini, astrologi e incantatori. Allora il professor Richet non aveva ancora inventata la parola metapsichica, che pare ai contemporanei più nobile della parola magia e più valorosa.  La Caldea era ritenuta allora la fucina di tutte le arti oscure della diavoleria mondiale. L’Egitto più sacerdotale. Babele, Ninive e Tiro, palestre di stregoni, in cui ogni persona era uno strumento imprecatorio per comandare alle schiere innumere degli ulu, ululu e altri orribili abitatori delle oceano dei malefizi.

Acutissimo lettore, quando cominciai a scrivere, trenta anni fa, di magia, per evocare l’antica arte dei tradizionali e fabulosi realizzatori di miracoli, tutti gli spiriti di Allan Kardec in Italia, tutti i lettori della propaganda di Denis, Delaanne, Schuré e Flammarion, si ribellarono come un solo uomo per questo nome vecchio che rimettevo in onore, a richiamare l’attenzione dell’avanguardia sui poteri integrabili dell’organismo umano. Mutano i saggi col mutar dei tempi, e la parola magia si incontra, come le virgole, ad ogni dieci parole di orientalisti, folkloristi studiosi di popoli primitivi o creduti selvaggi. Me ne dissero di tante curiose che non parevano più spiriti di cristiani. Avevano dimenticato che il nostro comune amico Israele, tra Egitto e Babele aveva anche lui imbastita la magia giudaica; che Mosè invitò i maghi egizii a dar prova del loro potere e che questi gittarono nell’arena i loro serpenti di rame che divennero vivi e voraci e Mosè gittò il suo che tutti gli altri serpi distrusse; che Salomone re, oltre ad avere un laboratorio alchimico nella valle di Ofir per poco non fabbricò i diamanti a tonnellate per piacere alla bionda regina di Saba; che la Cabbala ebrea è la più fina di tutti i più sottili garbugli per tramandare ai posteri il Grande Arcano dell’Universo; che anche S. Pietro ebbe competenza nell’arte con Simone Mago e lo superò.

Ora, grazie alle missioni scientifiche, la magia è parola di buona lega, perché, scavando documenti che precedettero di tre millenni la gioconda apparizione dei Santi Padri, spiegano che imperi di lunghissima durata, non ebbero ad impudicizia di reggere i loro popoli con commerci diabolici che tenevano luogo di minacce, di castighi e di flagelli.

I Caldei in quei tempi vivevano di divinità e di demoni. Carmi, scongiuri, imprecazioni, maledizioni ai mille diavoli che procuravano le infermità, come i microbi, o che attaccavano il corpo di colui che aveva allontanato il suo dio, o lo aveva irritato, o lo aveva tradito. Per divertire l’onorevole compagnia degli dei di Mardruk, il babilonese doveva lottare coi casi strani della vita quotidiana, alimentati dalle avversità dei sette terribili geni del male, capaci di ogni cattiveria, mascherati in mille modi contro la pace dell’uomo in peccato; e dopo una vita non allegra, quando la morte lo colpiva, doveva lui stesso imporre paura ai vivi, che lo temevano peggio di ogni male se la sua ombra non si placava nella sepoltura e un’offerta di cibarie non era pronta là a saziarlo di profumi culinari. Sceso il morto nel regno di Nergal, l‘arallu, il luogo da cui non si fa ritorno, era costretto tra le tenebre più nere e la cenere più opprimente a vivervi in Eterno. Nergal che alle buie regioni governava, le aveva circondate e rinchiuse di mura altissime, e dei diavoli più o meno caudati e cornuti tenevano in rispetto le ombre affinché non evadessero per tormentare i vivi.

Interpretazione profondamente dubbia e seccante, illogica della vita. Se questa è la vera interpretazione della idea religiosa dei Caldei; io vi credo con approssimazione al terzo; il quadro, data la moderna psicologia[7](che d’altronde non è neanche una scienza esatta, se pure è una scienza) da noi non è comprensibile nella sua malinconia di vita eterna, nell’oscuro inferno, dopo un brevissimo soggiorno in terra per sollazzare gli dei di Mardruk. L’ uomo, creato a immagine degli dei, o plasmato nella terra o dalle gocce di sangue di un dio, stillate una ad una nell’argilla o nel loto, aveva il quadro dell’esistenza dipinto a carbonella, coi grotteschi più terrificanti.

Doveva essere carina la vita terrena di un libero cittadino di Babele! Certo nelle preghiere che quei sovrani onnipotenti, incarnazioni di Assur, il sempre vittorioso supremo guerriero, rivolgevano al dio o alle dee, domandavano per prima cosa una vita di lunghi giorni. L’Arallu attendeva in una miscela scomposta tutti i mortali, re, sacerdoti, guerrieri, maghi, mercanti e schiavi, femmine libertine e sacerdotesse, medici e notai. Mi pare troppo! I soli guerrieri morti in guerra potevano essere serviti dalla sposa loro, qualche altro poteva bere dell’acqua fresca, il resto peggio dei più rognosi cani. Nergal feroce! Isthar, l’immortale Signora di bellezza e d’amore che corrispondeva un po’ alla Venere greca e alla Diana latina, se discende nell‘arallu per ricercarvi il suo cicisbeo, è spo­gliata dei suoi veli e non può rimontare ai cieli senza un’aspersione di acqua di vita[8].

Hanno un po’ ragione i metafisici e i teologi a bizantineggiare su questo luogo sozzo, dell’inferno, in cui i detriti in decomposizione del superbo genere umano vanno, se gli dei non fossero mutati, ad abitare in eterno. Tra tutte le cose relative dell’ineffabile Einstein, vi è una cosa assoluta, che non ha niente a vedere con le sue relatività, la paura dell’ignoto dopo la morte. La paura dell’ignoto e della morte che lo rappresenta nella forma più sintetica e più semplice, il dolore più acuto, per le nature che non hanno la disciplina filosofica di Seneca, è preferibile alla morte. Nascere e morire; in latino oriri et mori; io nasco: orior; muoio: m-orior; che mori possa esser sincope di moriri? Quell’emme precede orior (nasco) per dire muoio? misteri etimologici[9]!

Ireneo Filalete[10], in uno dei suoi famosi libri per cambiare i metalli ignobili in oro di coppella, avvisa, con la sua candida carità, che una volta riusciti a fare il prezioso metallo, bisogna star bene attenti a spenderlo e a mostrarlo; poiché il bargello, messo in guardia dalle voci del popolo che tu spendi e spandi oro di qualità fittissima, verrà a domandarti se tale orefice o tal mercante di preziosi te l’ha venduto; e come che tu non potrai provarlo, ti metterà tra i ladri nella prigione perché tu non dirai che lo hai fabbricato col piombo e lo stagno e il rame e con particelle di ferro in limatura. E se tu lo dicessi, ei non ti crederebbe, e, sollazzevole, il giudice ti riderebbe in viso e ti direbbe: io non son contadino che s’imbroglia alla fiera coi bagatti; io son filosofo e non bevo grosso come villano incolto.

La cosa è applicabile all’inferno, o al regno delle ombre in generale. Che sia l‘arallu caldeo o il purgatorio dei cristiani o il paradiso di S. Bonaventura. Il paradosso lo gitto nel pentolino di queste note come tale, come un’idea che passa per l’anticamera della cavità cranica, come una farfalla delle notti serene intorno al calice di un fiore in amore. Ed il lettore arguto capirà che io non parlo di Dante se dico che qualcuno avrà potuto benissimo visitar l’inferno e poi tornare in terra con la memoria delle cose viste, e saperle, e non poterle raccontare per non dire ai quattro angoli del firmamento che ha visto Istarte, la Domina, la Signora, la Grande Dama senza velo, mentre tutti non la vedono che vestita e velata, densamente oscura, con l’occhio scintillante di amore, perché Ella è, è stata e sarà come la madre sempiterna Vergine, la genitrice delle falangi di creature che popolano il bel pianeta a cui il cielo fa da ceruleo coverchio e le panzane vi spuntano, per autoseminagione, come la parietaria sui ruderi degli antichi edifici. Voglio dire, mio acuto amico e critico, che il mondo scettico non incoraggerà mai qualcuno che nell’inferno vi è stato e che ne ricorda le vicende, a confessare e dire; come il bargello temuto dal Filalete. In un corpo solo i dottori della moderna Salamanca riderebbero e sputerebbero: ma che bubbola vai almanaccando? Tu hai ricordo dell’altra vita, del buio della spelonca infernale? Vatti a far guarire dal Morselli o da Leonardo Bianchi perché o sei matto o vuoi fare il matto; che sei tu Mosè o Enkidu o altro rivelatore?

Enkidu era il compagno di Gilgamesh, in sogno aveva visto l’inferno, dove alti e potenti signori, scongiuratori, profeti e servi sono misti come in unica insalata russa, vestiti, come gli uccelli, di piume. Quando Enkidu muore davvero, Gilgamesh lo evoca per conoscere la legge della terra che egli ha visto.

Ed è una rivelazione tanto penosa, tanto triste pel vivente da farlo piangere. Com’è desiderabile l’immortalità! La pianta o l’erba della vita, gli dei l’avevano riposta nell’Apsu, nell’abisso dei cieli e delle acque; Gilgamesh dopo un viaggio orribile, se ne impadronisce, ma un serpente gliela ruba. Pare un viaggio alchemico finito all’aceto; come la conquista del Vello d’oro, come le fatiche di Ercole armato di Clave, come Orfeo incantatore, come Cadmo alla conquista dell’Attica. I morti stanno male, anche sotto i monumenti della grande scultura, anche se i libri di Camillo Flammarion dicono il contrario: meglio asino e vivo che dottore e morto. Che te ne pare, sottilissimo amico filosofo, che stai là a sorridere: non vi può essere ai giorni nostri, dopo cinquemila e più anni dalla storia di Enkidu e Gilsemesh, qualcuno che sia tornato dal paese dei morti e ha paura di gridarlo forte per non rischiare un soggiorno nei manicomi della nostra grande Enotria, cara agli dei beoni di tutte le epoche? Il progresso è una favola?

Apro una parentesi un po’ lunga e larga. Tanto queste note non sono materia di erudizione e le ho annunziate come semplici fiammelle per accendere qualche lucerna di Aladino.

Il lettore amico sappia che da che lo spiritismo è stato creato, da che ha fatto capolino nella società del secolo passato, (avversato dalla scienza come cosa non provata, i preti qui e là l’hanno tollerato o scomunicato,) come strumento di fede ha una lunga legione di credenti. Tutti hanno creduto, da secoli, ai morti, sotto una forma o sotto un’altra, non vi è popolo che non abbia esordito e continuato con la certezza che i morti, viventi nell’ombra, ci guardano, ci vedono, ci ispirano, e all’occorrenza ci vengono in sogno per indicarci un destino imminente o un terno al lotto. Però lo spiritismo, come l’occultismo, come il teosofismo, non ha avuto un critico demolitore, polemico, a conclusioni metafisiche, ma dopo la guerra (che cosa non ha fatto la guerra!) la musica è cambiata.

Leggo l’Erreur Spirite di René Guénon, autore di un altro volume, le Theosophisme, apparso qualche anno fa. Un libro che esce dall’ordinario questo qua. Non so dell’autore nessuna notizia. Le Theosophisme mi dette l’impressione di una polemica cultuale, come se un allievo della Compagnia religiosa tale volesse riveder le bucce ad una congrega pseudo religiosa, come il sottotitolo chiama la fondazione del Colonnello Olcott e della Signora Blavatski. Ma l’Erreur Spirite, testé uscito, ha un altro valore. Bisogna leggerlo perché è un avversario di misura rispettabile, perché senza confessare ancora dove miri, fa un po’ l’Attila re degli Unni, per dare addosso prima allo spiritismo e poi all’occultismo e alla metapsichica; s’intende spiritismo francese, occultismo francese, metapsichismo francese, con qualche notizia dell’Inghilterra: il resto del mondo non conta; in Italia si coltivano le sole carote che ci vengono seminate dai libri francesi. Già ho fatto capire più sopra che quando scrissi l’Avviamento alla scienza dei magi, se non avessi mostrato la più tranquilla tolleranza per tutto il diluvio dei libri di spiritualismo che Parigi ci faceva digerire, non avrei trovato neanche un lettore che mi avesse studiato. La libreria francese contiene ora una completa collezione di autori che hanno pubblicato volumi su tutti gli arcani. E che di più dovrebbero far testo nelle interpretazioni e nella veste romantica con la quale sono presentati. Dopo Eliphas Levi, si parla ora della Haute Magie, come se questa avesse dei cultori insigni a Parigi da esibire al mondo, per modelli del genere. Tanto carina un’inchiesta sulla Haute Magie au 1923 pubblicata ultimamente dalla Revue Mondiale. Giacché io scrivo queste note ridendo, per non appesantire il lugubre argomento della morte, devo confessare che questa Haute etc. mi ha messo di ottimo umore, e, senza essere uno psicometro, mi è parso di vedere, di là del paravento, ridere anche il mio amico ebraizzato Eliphas, serio serio, con un moccichino che soffiando il naso, nascondeva la bocca ridente.

Ma ritorniamo a l’Erreur.
Il Guénon, siccome io non sono all’altezza di comprendere bene tutto quello che i filosofi dicono, mi pare che qui e là si duole che la metafisica pura può farlo difficilmente capire; qui e là fa intendere che la magia la conosce come io la mia saccoccia, ed infatti spesso colpisce giusto e annota, en passant, che in oriente, certe cose si fanno coi piedi. Ciò che farebbe supporre che ha sorpassato il Tibet ed ha raggiunto il culmine dell’Everest. L’occidente, con le sue macchine, i suoi olii lu­brificanti, gli enormi impianti idroelettrici, non vale tre baiocchi di Pio IX. Ma com’è pensato e scritto il libro, merita di esser letto. Dimostra che gli spiriti dei morti, filosoficamente, non possano affatto comunicare coi vivi, perché, per un milione di perché. La disgregazione del morto è affare assodato. Non esistendo il perispirito e tanto meno il suo sinonimo, il corpo astrale degli occultisti, un granello va al nord, cinque vanno all’occidente e diciotto ad oriente; il resto di ciccia e calcari va sotto terra, per restituire ad essa gli elementi che ci ha prestato.

La dialettica, il senso critico, il buon senso di demolire per conto di non so chi, mettendo innanzi che lo spiritismo è dannoso all’appetito e all’equilibrio mentale, rappresentano una carica folta, serrata, in pagine fitte e saporose, e ammirevole (senza celia), che trascineranno molti lettori fino all’ultima pagina del libro, anche non arrivando a comprendere, come me, quella purissima metafisica per la quale non tutti sono costruiti secondo l’arte di Ponzio Pilato.

Determinata l’impossibilità che uno spirito di defunto possa esistere nella sua personalità complessa e completa, tale da poter dire: io mi sento e sono il tale dei tali; e quindi, precisando che non è possibile per questa ragione la comunicazione tra morti e vivi, l’autore viene all’impossibilità che una reincarnazione vi possa essere, neanche pei Messia della maniera ebrea o di altra razza. La reincarnazione è idea moderna, come lo spiritismo: gli antichi non ne sapevano niente. Perfino gli orientalisti di oggi sono suggestionati dall’idea della reincarnazione e interpretano documenti antichissimi con idee contemporanee, passate dallo Spiritismo Kardechiano al teosofismo della Besant e a certi occultisti francesi e da questi, varcato la Manica, in Inghilterra, dove le comunicazioni degli spiriti pare che dicano il contrario di quelle francesi. Il Guénon ha dimenticato che l’idea della reincarnazione è prepitagorica e che Diogene Laerzio non è autore del secolo XIX.

Insomma, acuto amico lettore, bisogna che scoviamo il messere che è ritornato dall’inferno e non ha ancora aperto bocca per dirimere questioni così allegre.

Un guaio se la scienza delle Università si occupa dello spirito umano, più grosso guaio se sene occupano i filosofi. Metafisica e sperimentalismo mi paiono due cose temibili per la pace dei morti. Quanto pagherei per sapere dov’è questo sornione che è stato all’inferno, a vedervi i morti, e se è ritornato vivo e in pieno cosciente ricordo, in completa integrità mentale.

Lucifero sorride ironico, come le stelle che guardano da lassù, cielo azzurro, profondamente sereno e misterioso, cielo italico pieno dei profumi dei nostri giardini, le nostre piccole metafisiche.
Lucifero parla, ammiccando con l’occhio, come fanno, scintillando, gli astri del firmamento: Chi vuoi che sia dal regno dei morti tornato e lo venga a dire a te che lo racconti ai porri scientifici della tua bottega? Vuoi tu interrogare un matto? Non sono i dementi, i più freschi arrivati dall’oscura valle ove gli dei, i geni e i morti eroi giocano al poker per passare il tempo? Il pazzo dei tarocchi non ha peli alla lingua, evocalo; vuoi che ti aiuti? Lucifero agita le braccia come due mulinelli e dirige la sua destra mano verso l’angolo più buio, come vi scagliasse un pizzico di pepe: si sente abbaiare un cane, poi il matto appare, roteando anche lui il bastone da pellegrino.

— Oh! vecchi amici di seminario, perché mi volete? Perché mi chiamate? Era dietro a seguire un corteo funebre; una donna bellissima è morta e la gente la piange e ne fa le lodi; stupida gente! Se ella avesse vissuta ancora qualche anno, sarebbe diventata brutta come la più affumicata pignatta: quelli che viva non seppero farla felice, la piangono ora che è felice…

Mentre il pazzo parlava, dall’angolo buio, si staccava una massa di curiosi che lo avevano seguito. Nella possente evocazione a molinelli magnetici dell’ironico Lucifero, per poco col matto non fu attirato a noi dinanzi il funebre corteo della bella: il pubblico rideva.

Lucifero interroga:
— E che fa la morta? È più felice che viva? Vogliamo sapere che fanno i morti, che cosa è la morte… un matto patentato come te, se hai visto e se sai, non avrà paura dei critici e della metafisica, dell’università o del rogo! Che fanno i morti? Che cosa è la morte?

Il matto rivolse al suo seguito un risolino beota, uno di quei sogghigni metafisici che non s’inventano, e si accinse alla predicazione.

Tutti restarono sospesi, in silenzio, aspettando che egli dicesse. Anche il cane tacque nell’attesa ansiosa. Solo una stella del firmamento, ironica, rifletteva il malizioso ritmo del portatore di luce.

[1] Prometeo, latino Prometheus, greco IIρομηθεύς, contiene la radice math med che è assonante in tutti i vocaboli che contengono l’idea concreta della ragione e della misura μεδ-ομαι, penso, cogito; Med-eri, tener cura, curare, medicare. Mathesis; mathe – maticus; re – med – ium. Era il saggio, meditante, prudente e audace. Il sapiente di oggi e di tutti i tempi, non iniziato, ma civilizzatore, il grande e il semidio vivente.

[2] Ora potrebbe aggiungere: ho insegnato loro la fabbricazione dei tossici e dei microbi applicati alla guerra, i sottomarini, il volo nei cieli. Ma è da supporsi benignamente che il male fosse quaggiù mandato dalla malizia degli dei, nello scatolo portato in dono di nozze dalla signorina Pandora.

[3] Anche qui vedi: pir il fuoco, piramide forma della fiamma dell’olocausto che monta ai cieli. Prometeo trasformò l’olocausto (clos intero e Kaiein bruciare) che era costituito dalla consumazione per mezzo del fuoco dell’intera vittima, in consumazione parziale delle sole ossa, distribuendo la carne ai sacrificatori. Questo dovette parere grande offesa a Giove, che ingannato dalle apparenze, aveva scelto per offerta agli dei la cremazione delle ossa.

[4] Le due colonne del tempio J e B nel binomio dei due contrarii di luce e di ombra, sono inamovibili. La visione non è possibile se la luce non è temperata dall’ombra. Il bene esiste in rapporto del male; il bello, del brutto; il dolce, dell’amaro; l’uomo non può confondere i termini in contraddizione; non può neanche pensarli uniti. Appresso ne parleremo, nella concezione di un regno degli spiriti alla maniera dei mistici.

[5] Il lettore acuto, legga bene: il cielo e la terra e gli dei non erano nominati, cioè non avevano nome, la creazione non era avvenuta perché la parola, che indicava la cosa, il nome, il verbo creatore, non era stato pronunziato.

[6] Isthar possedeva tutte le facce, bellezza, amore casto, lascivo, crudele, materno. In Assiria perfino dea guerriera, perché alla donna fin dai più lontani tempi fu riconosciuto quello spirito bellicoso che la rende così amabile.

[7] La cavità cranica dell’uomo, in quell’anatomia ineffabile dei poeti, è una grotta a stalattiti e stalagmiti che variano di lunghezza e grossezza in ogni individuo. La psiche è una farfallina che vi abita e vi si diverte. Gli uomini sapienti spesso non vanno d’accordo perché l’esuberanza stalattitica degli uni non coincide con la povertà stalagmitica degli altri. Di questa roba se ne avvantaggia il filosofo e son venute fuori tante dottrine psicologiche che aspettano di diventare adulte e laudabili.

[8] Che cosa sia quest’acqua di vita nessun assiriologo ha potuto capire. (N.d.T. Ma credo che noi sapremmo dargli un senso, non è vero?)

[9] Ma anche nella ricerca delle etimologie delle parole di senso nascosto, specie se riguardano cose attinenti ai misteri religiosi o alle antiche mitologie settarie, bisogna andar cauti. Ed in greco βροτός mortale e άμβροτος immortale, άμβρσια è bevanda che bevono gli dei, o nettare che dà l’im­mortalità?

[10] Ireneo Filalete, è stato un alchimista britannico ed autore di molte importanti opere del suo periodo. I suoi lavori furono letti da Isaac Newton, John Locke e Gottfried Wilhelm Leibniz.